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2. UNA TECNICA PUBBLICITARIA
2.1 DALL’HARD SELLING AL SOFT SELLING. E POI?
“Col crescere della concorrenza, della tecnologia, dell’offerta rispetto alla domanda, la
marca non può più limitarsi a svolgere una funzione di problem solving ormai simile a
quella di altre marche; comincia allora ad aggiungere al nucleo della funzionalità strati
di altri valori emozionali, di immagine (…) La marca deve perfezionare la scelta della
sua nuova ragione d’esistere, il valore per il consumatore, al di là del prodotto.”
[9]
Marco Lombardi ci porta a prendere atto di una realtà che oggigiorno è ormai
consolidata al punto da farci sgranare gli occhi davanti a slogan sempliciotti come il
classico claim “lava più bianco”: dalla pubblicità vogliamo essere sedotti, divertiti,
convinti, con le buone o con le cattive, purché ciò avvenga in modo subdolo, sottile,
intrigante. Vogliamo esserne emozionati.
Questa acquisizione, diventata “legge” a partire dall’inizio del ventunesimo secolo, ha
obbligato gli addetti ai lavori a studiare nuove strategie di persuasione incentrate non
più (o non solo) sul trade-mark ma anche sul mind-mark, non più sul prodotto (che è
un oggetto) bensì sul consumatore (che è una persona).
La rivoluzione nel pensiero pubblicitario è stata proprio questa: nessuna manovra di
manipolazione sembra possibile senza prendere in considerazione la passionalità dei
soggetti, essendo il meccanismo della narrazione legato non solo alla ricerca di
oggetti di valore, ma anche a forme passionali.
Se fino ad alcuni decenni fa nella dialettica tra ragione ed emozione era quasi sempre
la prima a prevalere, lo scenario muta con l’avvento della postmodernità: gli studi di
Fabris (2003) dimostrano che non sempre lucidità e razionalità sono le carte vincenti
nella partita di scelte economiche importanti, aprendo di fatto la strada alle strategie
soft selling. Un nuovo modo di guardare al futuro degli approcci alla marca sintetizzato
da Melchiorri: “Prima di avere a che fare con un cliente che agisce, abbiamo a che
[9] M. Lombardi, Il nuovo manuale di tecniche pubblicitarie, Franco Angeli, 2006, p.23
10
fare con un cliente che vuole, che desidera.”
[10]
Le marche, per rapportarsi
efficacemente al mercato, devono essere in grado di suscitare esperienze altamente
emotive, di dialogare con le emozioni del consumatore (Fabris, 2003).
L’emotional branding nasce quindi come maieutica per portare alla luce il potenziale
nascosto della marca, evocato non più da pragmatiche Uique Selling Propositions ma
da suoni, atmosfere, immagini evocative e sensazioni. Posizionamento, immagine,
fiducia, autorevolezza del brand diventano quindi condizioni necessarie, ma non
sufficienti, per promuovere un’immagine di marca accattivante e culturalmente attuale.
Cambia così anche la valutazione circa le tecniche e gli obiettivi pubblicitari raggiunti:
il giudizio finale al proposito non può venire espresso in termini ormai riduttivi quali
positivo/negativo. Il voto finale deve esprimersi, al pari della brand equity, in termini
qualitativi, meno matematici e più introspettivi: va da sé che una coerenza tra brand
identity e brand image avrà poi delle ripercussioni positive sulla percezione della
marca da parte del consumatore e, di conseguenza, sul successo della campagna; al
contrario, una distonia tra questi due elementi potrà incidere negativamente
sull’immagine della marca, disorientando il lettore/spettatore del messaggio.
Maneggiare emozioni pone, infatti, in una situazione di improbabilità, di instabilità.
Come mette in evidenza Landowski
[11]
, abbiamo da un lato un soggetto dotato di una
competenza estesica, cioè di un’attitudine a sentire, di “sensibilità”, dall’altro una
manifestazione dotata, in quanto realtà materiale, di una certa esistenza estesica,
ossia di qualità offerte alla percezione sensoriale, “sensibili”: l’attenzione non si
concentra tanto sull’analisi del processo di creazione del senso che avviene corpo a
corpo tra i soggetti, quanto sul rapporto che intercorre tra la ricettività dei soggetti e le
“proprietà vive” della materia inanimata.
Tutto questo diventa particolarmente pregnante quando, analizzando il crescere del
trend che vuole la sfida del mercato posta non più tra i diversi prodotti, ma tra le
percezioni intorno ai prodotti, vengono chiamate in causa altre emozioni, i bisogni
spirituali.
L’emotional selling in alcuni casi non basta più. Il consumatore è già abituato a
un’ipersvalutazione degli aggettivi, laddove è spesso difficile anche giustificarne l’uso:
la nuova frontiera delle tecniche di vendita sembra quindi diventare una sorta di
[10] A. Melchiorri, La dimensione patemica degli spot, in Pezzini I., Trailer, spot, siti banner. Le forme
brevi della comunicazione audiovisiva, Meltemi, Roma, 2002 pp. 111-1145
[11] E. Landowski, Al di qua o al di là delle strategie: la presenza contagiosa, in G. Manetti, Il
contagio e i suoi simboli, saggi semiotici, edizioni ETS, Pisa 2003
11
spiritual selling, che ha il duplice vantaggio di occupare aree “inviolate”, se si esclude
la scossa data dalle coscienze, come abbiamo visto, dalle forme artistiche di inizio
Novecento, e di essere adattabile, con un po’ di fantasia e spregiudicatezza, ai più
disparati beni e servizi proposti.
Si va dalla campagna per la promozione della World Aids Week a quella di un
avvocato (Dr. Hernan H. Iglesias) il quale, su un manifesto recante l’immagine della
Crocifissione, promette che con l’aiuto di un buon legale sarebbe potuta andare
diversamente; dalle pubblicità della Nike, dove il Sacro Cuore reca il ben noto
“swoosh” (in una gara tra famosi?), a quelle che vogliono Gesù Cristo di volta in volta
tifoso romanista, sportivo, garante dell’ispirazione “divina” del Game Boy o di quella,
con accostamento ancora più discutibile, di alcune marche di preservativi.
Leggermente più in ombra l’immagine della Madonna, che pure ha avuto la sua buona
dose di sfruttamento pubblicitario, ora come benedicente dei grandi magazzini Jardim,
ora come ascoltatrice di Radio Duna e, perché no, come patrona delle sigarette
(vedere case history). Meno trendy il chiamare in causa i santi, probabilmente a causa
del carattere maggiormente locale del culto; ma nel 2007 non si salva dal cadere in
tentazione nemmeno la nota casa di aste on line eBay, che il 13 giugno, giorno
dedicato alla celebrazione del Santo di Padova, dichiara su un sito internet correlato:
“Hai perso qualcosa e Sant’Antonio non è riuscito a ritrovarlo? Ritrovalo su eBay.”
[12]
Si possono così riassumere alcune delle principali motivazioni che inducono, spesso
con profitto, ad utilizzare l’immagine sacra cristiana a scopi pubblicitari.
L’impiego di metodi basati sull’emozione, dimostratosi vincente, trova nella sfera
spirituale una miniera ben più profonda: i sentimenti suscitabili, dallo scandalo
all’irritazione alla sorpresa, danno la garanzia di associare la marca a qualcosa di
“forte”, che rimane impresso nella memoria più di una blanda sensazione.
La religione cristiana, con le sue figure principali, è patrimonio tanto dei credenti
quanto dei laici; vale a dire, in quanto fondamento culturale comune essa non può
essere ignorata. La pubblicità può quindi estendere a dismisura il suo target,
catturando l’attenzione anche di chi al messaggio non è particolarmente
interessato: un eventuale dibattito sulla blasfemia o meno di un annuncio può
costare al massimo il suo ritiro, ma guadagnerà ben di più nel passaparola e nelle
discussioni, siano pettegolezzo o dibattito tra esperti, che nasceranno intorno al
caso “incriminato”.
[12] www.espresso.repubblica.it
12
La crescente globalizzazione e l’allargamento dei mercati, popolati da consumatori
che grazie alla multimedialità sviluppano sempre più stili di vita omogenei, chiede
ai prodotti e ai creativi la capacità di internazionalizzare la marca, con campagne
adattabili ai diversi Paesi e che, quindi, contengano tratti comuni; cosa altrettanto
importante, questi tratti devono essere assimilabili al volo, dal momento che dopo
una prima occhiata lo spettatore, sempre più frettoloso, il più delle volte non ha
tempo di soffermarsi a darne una seconda.
Il Cristianesimo vive un periodo complesso e contrastato, problema che merita ben
altre sedi analitiche: parlandone in termini di trend e controtrend, basterà
accennare alla secolarizzazione dei valori cristiani vs la ricerca continua e costante
di una spiritualità che trova spesso sfoghi nel mondo dei consumi; alla progressiva
disaffezione da parte di molti giovani all’ortodossia e alla dottrina, di cui la tanto
discussa “crisi delle vocazioni” può forse costituire un esempio, vs un
riconoscimento e un attaccamento forte ai simboli (la polemica sulla destituzione
del Crocifisso dalle aule scolastiche è emblematica). Infine, il radicalizzarsi del
conflitto religioso Oriente – Occidente ha portato a un’acuirsi del senso critico,
probabilmente anche autodifensivo, nei confronti della rappresentazione delle
forme sacre e dell’attenzione vigile verso la moderna iconoclastia.
2.2 PUFFERY
Un ulteriore fattore che ha contribuito all’allargamento delle frontiere semantiche delle
nuove forme di espressione pubblicitaria, e che può aiutare a comprendere il largo e
svariato utilizzo di spiritual selling (evidente in maniera più significativa all’estero, in
Paesi in cui l’influenza della Chiesa è pallida o in via di estinzione), è lo strumento
denominato “puffery”.
Perry Haan, Associate Professor of Marketing alla Tiffin University, Ohio, lo descrive
come “a subjective language used by advertising and salespeople that may or may
not be true.(…) This implies that the product being advertised is batter than its
competitors in the attributes being described.”
[13]
E’, in pratica, la massima esaltazione di un attributo che si propone come “il” benefit
soggettivo per eccellenza, minimizzando la possibilità che altri prodotti possano
essere, non già di superiore, ma nemmeno di pari qualità. Le argomentazioni con cui
[13] www.cbfa.org dall’articolo di Perry Haan, What would Jesus say about puffery?, 2004
13
viene difeso questo primato sono spesso inesistenti: continua Haan, “marketers
struggle to find way to differentiate products that consumers see as having few real
differences. (…) This acceptance is rooted in the free market concept of caveat
emptor: let the buyer beware. (…) In calling for the outlaw of this use, a New Jersey
judge called it “the sellers’s privilege to lie”
[14]
.
L’impiego di Gesù Cristo e delle figure dei santi può a mio avviso essere catalogato
come una sorta di puffery estremo, un appellarsi al consumer insight “cosa c’è meglio
di Dio?”. Un’argomentazione che non necessita di reason why particolarmente
approfondite perché, nell’ottica del pubblicitario, è già di per sé la migliore motivazione
possibile per spingere all’acquisto di quel prodotto; circondata di aura divina,
probabilmente resa attraente dalla temerarietà dell’accostamento sacro/profano, la
marca trova così la sua legittimazione a porsi come lo strumento per riempire il gap
emotivo/spirituale del consumatore.
Ci si può domandare, a ragione, se a questa supposizione corrisponde un effettivo e
correlato comportamento da parte del target: la tecnica del puffery sembrerebbe a
prima vista efficace solo su pubblici ingenui o di altri tempi, certo non gli acquirenti
furbi e spesso annoiati dalle “solite bugie” propinate dagli spot. Di questo avviso è
anche la Federal Trade Commission americana, che ne autorizza l’impiego in quanto
“puffery does not deceive reasonable consumers, that have the ability to differentiate
between puffery and other type of information.”
[15]
Per essere illegale, il marketing di un prodotto deve fuorviare i consumatori: il FTC
Deception Statement del 1983 individua pertanto tre criteri in base ai quali riconoscere
una pubblicità ingannevole.
o La proposizione pubblicitaria deve essere una “rappresentazione, omissione o
pratica volta a confondere il consumatore”.
o Per essere giudicata fuorviante, essa deve essere tale dalla prospettiva di un
“consumatore ragionevole”.
o Infine, la “rappresentazione, omissione o pratica deve essere materiale”; in questo
senso, è previsto l’obbligo per i pubblicitari di dimostrare che il claim non si rivolge
alla sfera materiale dei benefit del prodotto.
Alcuni studi circa il puffery hanno tuttavia dimostrato l’assunto “se non funzionasse,
coloro che si occupano di marketing non lo utilizzerebbero”: già uno studio di Haan e
Berkey dimostrò, nel 1998, la sua pericolosità per le fasce di “consumatori indifesi”,
[14] Cfr. nota 13
[15] FTC Deception Policy Statement, Antitrust and Trade Regulation Report, 45, 1137, pp. 689-94
14
bambini ed anziani, rilevando per queste categorie una bassa capacità di distinzione
tra argomentazioni puffery e argomentazioni oggettive negli annunci.
Lo studio di Rotfeld and Rotzoll, ripreso da Preston nel 1999
[16]
, condotto su soggetti di
buon livello culturale ed educazione “upper class”, dimostra che il 39,6 per cento era
portato a credere claims catalogati come puffery.
Il puffery divide ancora oggi i pubblicitari tra chi sostiene l’assolutismo del libero
arbitrio del consumatore e chi invece, pur prendendo atto della sua esistenza –
legalmente regolamentata – mette in guardia dal suo utilizzo spregiudicato, nel quale
può rientrare la proposta delle figure cristiane, mostrate di volta in volta in vesti
grafiche che ricalcano volutamente la tradizione figurativa sacra o, al contrario, in
forme avveniristiche e moderne.
Come evidenzia Perry Haan, “Even though the FTC allows puffery to exist, does not
mean that puffery is ethical and acceptable for use – expecially by Christians working
in marketing.”
[17]
2.3 ADVERTOLOGY
Con questo termine si definisce la tendenza, affermatasi negli ultimi anni, a sviluppare
una disciplina scientifica che studi la pubblicità come un fenomeno sociale ed
economico, un fattore sociologico rilevante che si intreccia al tessuto culturale di una
società.
L’input a un migliore approfondimento dei rapporti tra pubblicità ed etica arriva da una
serie di approfondimenti condotti in Russia sotto il nome di Advertising Psychology;
uno dei suoi maggiori specialisti, A. Lebedev-Liubimov, ne parla come di una
“complessa forma di comunicazione, interazione e mutua influenza (…)
comunicazione per comunicazioni.”
[18]
Il concetto dietro a questi studi è approfondito in un articolo di Mikhail Likhobabin,
Senior Lecturer alla Don State Technical University: “it’s important to note the
reciprocity of advertising technologies development process and monitoring of
[16] H. Rotfeld, J. And Kim B. Rotzoll (1980), Is advertising Puffery Believed?, Journal of Advertising,
10, pp. 16-20
[17] Cfr. nota 13
[18] A. N. Lebedev-Liubimov, Psychology of Advertising, St. Petersburg, 2002, p.7
15
individual rights and living standards of the society; in other words, changes in one
direction entails immediately changes in other.”
[19]
Il modo in cui viene affrontato nei vari Paesi il problema dei limiti etici alla pubblicità,
parte costitutiva del dibattito circa la commistione marketing/religione, può dirci molto
circa l’attitudine dei pubblicitari a fare o meno di questo binomio una tecnica
pubblicitaria, sfruttabile al pari delle altre, o, all’opposto, a distanziarsi da questa moda
o ancora a utilizzarla con la certezza, se non con lo scopo, di sollevare scandalo e
indignazione.
Il Parlamento russo ha adottato, dal 1995, un sistema di controllo sulla pubblicità che
prevede, nell’articolo 8 dedicato alla “Unethical Advertising”, “pene per la violazione di
alcune norme umane e morali convenzionali e per l’abuso di certi oggetti artistici,
simboli di stato, persone fisiche e giuridiche, associazioni” e così via. E’ evidente il
carattere fumoso e ancora indefinito circa quali e se ci siano, di preciso, dei limiti
invalicabili per il marketing: Likhobabin individua alla radice un problema non solo
legislativo, ma anche formativo. “I nostri legislatori in campo pubblicitario sono guidati
dalla loro personalità capacità di comprendere e di applicare caratteri etici alle
istituzioni - attraverso le loro specifiche nozioni.
Non c’è alcun quadro di riferimento chiaro entro il sistema di autoprotezione di principi
sociali e morali possa iniziare ad agire. Ciò diventa particolarmente chiaro se
consideriamo l’uso massivo di simboli erotici, nazionali, di genere, e di stereotipi
culturali nella pubblicità. Questo problema è urgente non solo in Russia, ma anche nel
resto del mondo.”
[20]
Mentre il governo francese promette di applicare misure repressive contro le agenzie
che utilizzano il sesso come elemento di promozione nelle loro campagne, un
programma simile viene varato anche dalla Spagna per ridurre gli stereotipi di genere,
che la pubblicità contribuisce a cementare, dietro la risoluzione “On the image of
woman in advertising and media” promossa dal Concilio Europeo nel 1996
[21]
.
Un caso a sé è costituito invece dagli Stati Uniti, dove non c’è alcun codice etico o
deontologia professionale per gli addetti ai lavori nel settore pubblicitario: il documento
più vicino a una legislazione sull’etica del marketing è l’Advertising Code adottato
dall’US Council of bureaus for better business, che tratta tuttavia la questione in
[19] M. Likhobabin, Evaluation of ethical correctness of advertising as an important form of social
communication, Russian Communication Association News, 2005
[20] Cfr. nota 19
[21] Cfr. nota 19