6
comunicativi quali la fotografia e la ripresa cinematografica, pone come
motore dell’azione narrativa l’atto violento e criminoso.
In questo contesto il “fattaccio” di cronaca costituisce la base reale da cui
scaturisce una speculazione fantastica che porta alla spettacolarizzazione
dell’evento attraverso la pubblicazione di articoli e fotografie riguardanti il
delitto e il processo, volta non solo a catturare l’interesse di un pubblico,
sempre più “popolare”, ma a creare uno spazio virtuale di
confronto/riaffermazione dei luoghi comuni che caratterizzano la cultura
sociale
Il presupposto teorico su cui si fonda quest’analisi della strage di Via San
Gregorio è che la narrazione di fatti di cronaca nera, alimentandosi degli
archetipi propri di parte della cultura persecutoria occidentale, le cui
espressioni vanno dalle narrazioni mitologiche della tragedia greca agli
spettacoli di morte e persecuzione della società moderna fino ai racconti di
amore e morte dell’Ottocento romantico, costituisca uno dei momenti della
vita pubblica in cui la società rifonda il proprio sistema di valori e riafferma
i luoghi comuni della cultura politica collettiva.
L’evento storico non è dunque l’atto criminoso in sé, nella fattispecie il
crimine di Caterina Fort, ma la narrazione del fatto stesso attraverso i
racconti elaborati dai media. Gli articoli pubblicati sui quotidiani, e che non
a caso riportano una delle firme più prestigiose del panorama narrativo
italiano del dopoguerra, quella di Dino Buzzati, costituiscono, perciò, la
fonte privilegiata di questo studio. L’interesse dei nuovi media per il caso
rimane ancora del tutto occasionale: i due cinegiornali che si occupano del
delitto Fort al momento del processo di Appello e di Cassazione non fanno
altro che riprodurre la retorica della carta stampata che invece resta lo
strumento che, proprio nell’interessarsi della strage di Via San Gregorio,
rinnova maggiormente se stesso, sperimentando nuove formule di
7
accostamento di parola e immagine. Stampa e fotografia, ma anche la
ritrattistica rintracciabile nelle copertine della “Domenica del Corriere”,
sono i canali privilegiati per la narrazione del delitto Fort. La vicenda di
Caterina Fort si configura, dunque, come il terreno di sperimentazione di
nuovi prodotti editoriali come il rotocalco e il settimanale di
approfondimento.
Certamente le origini del genere sono da rintracciarsi nel periodo
precedente alla guerra, nelle formule sperimentate dall’”Omnibus” di
Longanesi, dalle riviste femminili come “Rakam” e “Annabella”, ma è nel
dopoguerra, con il costituirsi di un nuovo pubblico femminile, referente
privilegiato di una sempre più ampia e attenta produzione editoriale, che il
fenomeno si evolve e assume parte delle caratteristiche riscontrabili ancora
oggi. Un dato storico rilevante: la nascita del fotoromanzo per iniziativa
della casa editrice milanese Universo nel 1946. Proprio Milano è, infatti, la
capitale di una nuova editoria in cui personaggi come Angelo Rizzoli e
Arnoldo Mondadori «facevano a gara a raggiungere [...] le case di tutti gli
italiani con un’editoria sempre più incline a diventare di massa
2
».
La storia di Caterina Fort passa, dunque, per i «fototesto» di “Tempo”, per
le copertine della “Domenica del Corriere”, per le inchieste di “Oggi”.
Tramite questi canali raggiunge un pubblico più ampio di quello dei
quotidiani d’informazione. Per questo pubblico sperimenta nuove forme
grafiche, utilizza un linguaggio moderno, elabora contenuti specifici,
contribuisce a creare quella cultura politica collettiva che la società cerca
nella spettacolarizzazione del crimine di Rina Fort.
In questo processo, il contenuto centrale da trasmettere e rifondare è
proprio l’immagine del femminile. La narrazione del delitto di Caterina
2
Giafranco PETRILLO, Lo scontro per il nuovo modello di sviluppo, in Storia d’Italia, Le regioni
dall’unità a oggi. La Lombardia, Einaudi, Torino, 2001, cit. p. 1007
8
Fort si sviluppa sulla contrapposizione fra la figura dell’assassina e il volto
della vittima, Franca Pappalardo: amante diabolica e crudele la prima,
moglie e madre feconda la seconda.
Uno stereotipo antico quello del conflitto fra la donna perduta e la moglie-
madre istituzionale, archetipo della cultura europea risalente alla
contrapposizione mitica fra Maria e Maddalena, rafforzato, però, da quella
retorica nazionalista, diffusasi a cavallo fra Settecento e Ottocento che
identifica nel corpo femminile il territorio sacro della nazione
3
.
Nell’Italia risorgimentale tale identificazione si era realizzata, da un lato,
nell’elaborazione del «mito di una figura materna, emblema del sentimento
nazionale che unisce tutti i suoi figli in un vincolo di fratellanza
4
»;
dall’altro nell’icona della donna in armi che, spesso celata dietro divise
maschili, combatte e si sacrifica per l’onore della nazione
5
. Donna, dunque,
madre e madrepatria, ma anche eroina carnefice e sanguinaria. Da queste
due immagini contrapposte del femminile scaturiscono i rispettivi racconti
mitici, ma possiamo propriamente parlare di archetipi, che caratterizzano la
visione della donna nella cultura occidentale: Medea e Ecuba, Circe e
Penelope, Giovanna d’Arco e Ginevra, la figura ambivalente di Clorinda
nella “Gerusalemme Liberata” di Tasso.
Questo bifrontismo del femminile sorge nell’Italia risorgimentale del
secondo Ottocento, attraversa la retorica dell’Italia liberale, si esaspera
negli anni della prima guerra mondiale sino a giungere alla massima
esaltazione durante il fascismo, in grado di affiancare l’immagine più
conservatrice della donna moglie-madre e l’icona più avanguardista della
donna militarizzata nelle vesti da piccola italiana. Il legame tra le due
figure è rintracciabile nella logica del sacrificio di cui è
3
cfr. Alberto Maria BANTI, L’onore della nazione, Einaudi, Torino, 2005
4
4
Marina D’AMELIA, La mamma, Il Mulino, Bologna, 2005, cit. p. 88
5
cfr. Ivi pp.89-90
9
imprescindibilmente impregnata l’immagine femminile: il sacrificio dei
propri figli, l’estremo sacrificio di se stessa.
Quali tratti assumono questi due stereotipi all’indomani della seconda
guerra mondiale dopo la traumatica esperienza della guerra di
occupazione? La narrazione della vicenda di Caterina Fort fornisce degli
spunti interessanti. “Vicenda” quella di Caterina Fort perché la sua
narrazione va oltre gli eventi legati al delitto: Rina Fort non è soltanto la
carnefice di un’intera famiglia, ma, soprattutto al momento del processo,
l’eroina di un’avventura tragica e sfortunata. Nella sua immagine, non solo
la negazione del modello positivo di identificazione madre prolifera –
madrepatria, ma l’affermazione dell’icona della donna in armi in cui una
parte del pubblico femminile si riconosce, come dimostra la volontà di
emulazione della donna da parte di molte giovani che la elevano a modello
estetico, imitandone particolari dell’abbigliamento.
Su entrambi gli atteggiamenti domina l’identificazione collettiva della
nazione nella figura della donna ingenua, sedotta e abbandonata (questo è,
infatti, il destino di entrambe le protagoniste della vicenda) così come si
riconosce ingannata e delusa l’Italia dopo la grande illusione mussoliniana.
Un Mussolini – Ricciardi (il marito, amante) affascinante e ingannatore,
che crede nel ruolo conservatore della famiglia, rappresentato dalla moglie
Franca Pappalardo, ma che si fa attrarre dal fascino esotico della relazione
extraconiugale con una donna giovane e disinibita. In entrambi i casi,
l’evento politico e la sua metafora, l’epilogo è tragico: il barbaro massacro
di innocenti e il sacrificio, questa volta infecondo, del modello positivo
della madre - madrepatria.
Se, però, nel momento del delitto, il sacrificio è quello della madre
prolifera, nel momento del processo sarà la stessa Caterina Fort a fungere
da capro espiatorio: come la Clorinda di Tasso, abbandonerà le vesti
10
mostruose del carnefice per indossare quelle della donna ingenua e
sfortunata, segnata da un destino avverso, ingannata da un mondo di
illusioni. Con la sua condanna che sancisce da un lato il rifiuto definitivo
della donna in armi, ma dall’altro perdona ed assolve sul piano umano, si
conclude la vicenda di Caterina Fort e il periodo scandito dai grandi
processi contro i criminali di guerra, durante il quale l’Italia repubblicana
ha tentato di catalizzare gli orrori di oltre un ventennio di violenza.
11
Capitolo primo
IL DELITTO
Milano, sabato, 30 novembre 1946
Una donna sale le scale che portano al primo piano dello stabile al numero
40 di via San Gregorio. Siamo a Milano, nella zona compresa fra la
Stazione Centrale, Piazzale Loreto e i bastioni di Porta Venezia. Prima
della guerra, questo era stato un quartiere di mercanti abitato in prevalenza
da ebrei. Durante l’occupazione tedesca, i continui rastrellamenti l’avevano
reso un terreno infido per i suoi abitanti e il quartiere si era svuotato. A
popolarne nuovamente le vie erano giunti nuovi immigrati, provenienti dal
meridione di Italia, che già durante gli anni della guerra, anticipando il
grande fenomeno di massa che avrebbe caratterizzato gli anni della
ricostruzione, avevano iniziato la marcia verso il nord. Ecco la descrizione
di queste strade nelle parole di Buzzati, in quel dicembre 1946:
San Gregorio, Carlo Tenca, Settembrini, Boscovich, Settala, Panfilo Castaldi,
Felice Casati, Lazzaro Palazzi, neppure nelle grandi giornate di primavera
queste strade sanno essere allegre. Qui d’inverno l’asfalto è bagnato anche
senza pioggia, le case sono grigie ed eguali e alla primissima alba cominciano
a rombare i «camion» degli spedizionieri. Proprio questa ingrata e grave
Milano – non il Duomo, né Borgonuovo, né Sant’Ambrogio, né l’Arco della
6
Curzio MALAPARTE, La pelle, Oscar Mondadori, Milano, 2005, p.10
Mentre i prezzi dello zucchero, dell’olio,
della farina, della carne, del pane, erano
saliti, e continuavano ad aumentare, il
prezzo della carne umana calava di giorno
in giorno
6
.
12
pace – sognano i piccoli mercanti del Sud, sulla soglia della loro casa tra gli
aranci, disponendosi a partire
7
.
È dunque un quartiere popolare, dove gli interventi della polizia sono
frequenti, poiché spesso traffici legali e illegali si confondono. È anche il
quartiere della borsa nera, mercato ancora fiorente negli anni della penuria
dell’immediato dopoguerra. Manca tutto a Milano in quell’inverno del
1946: dal pane bianco agli alloggi per gli sfollati che tornano in città, dalla
legna per riscaldare le case alle stoffe per gli abiti e le coperte.
Pinuccia Somaschini sta salendo le scale che la conducono
all’appartamento del suo titolare di lavoro, Giuseppe Ricciardi, anch’egli
immigrato dalla Sicilia a Milano nel 1943 e proprietario dell’omonimo
magazzino di tessuti sulla via Carlo Tenca. Giuseppina è impiegata come
commessa presso il negozio e quella mattina sta recandosi
nell’appartamento del signor Ricciardi per ritirare le chiavi del magazzino.
Il padrone è, infatti, partito per Prato la sera precedente a causa di un
impegno di lavoro e le ha lasciato l’incarico di ritirare le chiavi dell’attività
la mattina seguente, presso il suo appartamento nelle vicinanze del negozio.
Sono quasi le nove. Giunta al piano, la Somaschini nota che la porta
dell’appartamento è socchiusa. Bussa. Chiama la signora Franca, moglie
del Ricciardi, che dovrebbe consegnarle le chiavi. Nessuno risponde.
Spinge la porta. Ai suoi piedi, in una pozza di sangue è riverso Giovanni, il
primo figlio della coppia. Poco distante da lui giace a terra la signora
Franca. Giuseppina scende le scale, corre in cortile e quindi in strada per
chiamare aiuto.
7
Dino BUZZATI, Addio, anime innocenti!, in “Corriere d’informazione”, edizione pomeridiana, Milano,
14-15 dicembre 1946, riportato anche in La «nera» di Dino Buzzati. Crimini e misteri, a cura di Lorenzo
Viganò, I edizione, Oscar Mondadori, Milano, 2002, p.55
13
La cronologia dei fatti immediatamente successivi è poco chiara. Secondo
quanto riportano i resoconti e i quotidiani dell’epoca, sul luogo del delitto
giunsero prima i giornalisti della polizia. Un fotografo, Giuseppe Palmas,
riuscì a scattare le prime fotografie del delitto che finirono sulle pagine
dell’edizione pomeridiana dei giornali. Solo in seguito gli uomini della
questura isolarono lo stabile e l’intera via per i primi sopralluoghi. Si scoprì
solo allora la vera entità della strage: nell’appartamento dei Ricciardi in via
San Gregorio 40 erano stati massacrati, probabilmente a colpi di spranga, la
signora Franca Pappalardo, di quarant’anni, e i suoi tre figli, Giovanni di
sette, Giuseppina di cinque e il piccolo Antonio di dieci mesi. La signora
Pappalardo si trovava in stato interessante.
L’arresto
Quando arrivò la polizia, una folla era raccolta davanti allo stabile di Via
San Gregorio: gli agenti dovettero formare un cordone per tenere lontani i
curiosi. Gli abitanti della casa vennero bloccati nei loro appartamenti, la
portineria divenne il posto di comando delle operazioni. Vennero raccolte
le prime informazioni e interrogati gli abitanti del palazzo: la vicina di casa
dei Ricciardi, Rosetta Boschetti, la portinaia dello stabile, Maria Terzi.
Entrambe riferirono di non aver né visto né udito l’assassino o gli assassini,
introdottisi nello stabile attraverso un portoncino rimasto aperto a causa
della serratura non funzionante da mesi. Riportarono, inoltre, alcuni
dettagli interessanti riguardo la vita della famiglia Ricciardi, dettagli che
trovarono conferma in altre testimonianze raccolte nel palazzo e nel
quartiere e che indirizzarono rapidamente il corso delle indagini.
D’altra parte i sopralluoghi consentivano di formulare le prime ipotesi.
L’appartamento dei Ricciardi era una dimora modesta di esigue
14
dimensioni. Data la scarsità di legna, come molte altre abitazioni del
quartiere, l’appartamento non era riscaldato, come testimoniavano i
cappotti e gli abiti pesanti indossati dalle vittime. I residui di cibo rinvenuti
sul pavimento suggerivano che la signora Franca e i suoi tre bambini erano
stati sorpresi dall’assassino appena dopo cena. Tre bicchieri sporchi di
liquore, ritrovati sul tavolo del soggiorno, consentivano poi di ipotizzare
che la signora Ricciardi conoscesse gli assassini: aveva aperto la porta e
aveva offerto loro del liquore. La casa era modesta, quasi nulla era stato
trafugato, se non alcuni gioielli di poco valore. Tutto era stato messo però
in disordine, forse allo scopo di simulare un furto. A ciò si aggiungeva
l’ingiustificato omicidio del più piccolo dei bambini: era stato un atto di
violenza gratuita poiché il piccolo mai avrebbe potuto testimoniare contro
gli assassini. Gli inquirenti esclusero, quindi, da subito l’ipotesi di una
rapina per mano di malviventi comuni: l’omicida era una persona nota alla
signora Ricciardi e aveva agito per ragioni personali.
I dati ricavati dai primi sopralluoghi e le testimonianze della gente del
quartiere indirizzarono le indagini: c’era solo una persona che avrebbe
potuto avere motivo di massacrare con tanta ferocia la moglie e i figli di
Giuseppe Ricciardi. Era l’amante dell’uomo, gelosa del recente arrivo da
Catania di Franca Pappalardo e dei suoi bambini che aveva determinato il
ricongiungimento del Ricciardi con la famiglia.
Caterina Fort, impiegata da pochi mesi in una pasticceria in via Settala 43,
venne arrestata intorno alle dieci presso la sua abitazione in via Mauro
Macchi 89 a pochi minuti di distanza dall’appartamento dei Ricciardi. La
donna non oppose alcuna resistenza agli agenti e accettò di buon grado le
domande della polizia.
15
Gli interrogatori
Immediatamente dopo l’arresto, Caterina Fort venne condotta a casa dei
Ricciardi, davanti alla quale si accalcava una folla numerosa, quindi, senza
che vedesse i cadaveri delle vittime e constatata la sua reticenza a fornire
elementi riguardo l’accaduto, fu portata in questura e messa in guardina
con altre due detenute. Gli interrogatori iniziarono solo nel tardo
pomeriggio. Furono condotti da diversi personaggi, sotto il coordinamento
del commissario dottor Di Serafino. Secondo quanto testimoniato dalla
stessa Fort questi primi interrogatori ebbero solo carattere informativo e
non furono oggetto di nessuna trascrizione ufficiale
8
. Costituirono
semplicemente materia per gli articoli redatti dai numerosi giornalisti, che
si accalcavano in questura.
Per la ricostruzione dei giorni successivi al delitto durante i quali si
svolsero gli interrogatori disponiamo di due fonti significative: gli articoli
riportati dai giornali e la stessa testimonianza di Caterina Fort, trascritta dal
suo avvocato, Antonio Marsico, in una pubblicazione edita dallo stesso
Marsico nel 1949 al termine della fase istruttoria.
Secondo quanto riportato, il sabato primo dicembre Caterina Fort venne
ripetutamente sottoposta a una serie di interrogatori volti ad accertare la
natura dei rapporti che la legavano al Ricciardi. Rapporti di lavoro, in un
primo tempo, poi una vera e propria relazione che aveva portato l’uomo a
trasferirsi nell’appartamento della Fort in via Mauro Macchi.
La svolta nel corso degli interrogatori avvenne però la domenica due
dicembre quando l’indagata accompagnò i poliziotti prima nel proprio
appartamento e poi nella casa di via San Gregorio. Il resoconto fatto dalla
Fort del sopralluogo delle forze dell’ordine nel proprio appartamento
8
Antonio MARSICO, Il delitto di Rina Fort e gli insegnamenti del suo processo, Unione tipografica,
Milano, 1949, pp.33-46
16
riferisce alcuni particolari interessanti che saranno materia di ispirazione
per i numerosi quotidiani e riviste che si occuperanno del caso nei giorni
successivi. Si parla di una radio lasciata accesa, dei resti di un pasto
consumato probabilmente immediatamente dopo la strage, di tamponi
sporchi del sangue della stessa Caterina, indisposta in quei giorni a causa
del ciclo mestruale. Un tampone da donna era, infatti, stato ritrovato anche
nella bocca del piccolo Antonio: l’assassino, o come più probabile
l’assassina, l’aveva usato per soffocarlo.
Del ritorno sul luogo della strage narrano a lungo i quotidiani e la riviste. Il
Corriere della Sera del tre dicembre riporta:
una folla di qualche migliaio di persone si era raccolta presso il luogo della
tragedia, animata dal proposito di fare giustizia sommaria dell’assassina. Fu
necessario un imponente spiegamento delle forze di polizia per salvare la
Fort dal linciaggio
9
.
Sono molti gli articoli che riportano la presenza di una folla pronta al
linciaggio in attesa dell’ingresso della Fort nella casa della tragedia. Pochi,
di fatto, i nuovi elementi riscontrati da questo secondo sopralluogo. La Fort
appare confusa, tanto quanto lo sono i dati riportati dalla stampa. Ogni
articolo si sofferma su un particolare diverso e riordina la cronologia dei
fatti. Tutti concordano d’altra parte nell’additare Caterina Fort come la
belva di via San Gregorio.
Solo nella serata di domenica due dicembre iniziano gli interrogatori
ufficiali. A condurli si alternano tre personaggi principali, il commissario
dottor Di Serafino, il commissario dottor Nardone, il vice questore Cassarà
e una serie di agenti anonimi, di cui la Fort riporta solo le violenze e le
9
La belva umana ricondotta nella tragica casa di via San Gregorio, in “Il Corriere della sera”, 3
dicembre 1946
17
minacce. Fuori dalla stanza dove avvengono gli interrogatori continua ad
accalcarsi una folla di giornalisti e fotografi, a certificare il fatto che la
cronaca nera e tutti i suoi risvolti non appartengono più a un mondo
interdetto all’occhio dell’informazione. Tra loro c’è anche Giuseppe
Palmas che scatterà le prime foto a Caterina Fort, stremata dopo le
diciassette ore di interrogatorio, e che faranno il giro di tutti i quotidiani e
le riviste del periodo. Con il caso Fort, Giuseppe Palmas inaugura quella
collaborazione con la questura di Milano e il mondo delle istituzioni che gli
consentirà di fare alcuni degli scoop più importanti del dopoguerra, fra cui
l’omicidio di Pia Bellentani, di qualche anno dopo. Giuseppe Palmas
rappresenta dunque quel nuovo modo di far giornalismo, e soprattutto
cronaca nera, inaugurato dal caso Fort e che diventerà un vero e proprio
genere editoriale apprezzato dal pubblico, come ci mostrano gli esordi delle
carriere di Dino Buzzati e di Vasco Pratolini, dei cui articoli tratteremo in
modo più approfondito nel secondo capitolo.
L’interrogatorio alla Fort si svolge secondo i canoni ufficiali del racconto
poliziesco americano in voga in quegli anni: Caterina, così come i
quotidiani, raccontano della classica lampada da tavolo la cui luce abbaglia
gli occhi dell’indagata; i commissari, il vice questore vengono descritti
come educati, professionali, persuasivi, quasi paterni; la violenza, gli
schiaffi, i calci, gli insulti e le minacce di fucilazione («verranno i soldati e
ti faremo fucilare» riporta la Fort
10
) sono invece appannaggio degli agenti
anonimi, dei secondini, dei poliziotti qualunque. Alle cariche ufficiali,
dunque, il “lavoro pulito”, ai semplici poliziotti quello “sporco”.
Diciassette ore consecutive dura il primo interrogatorio. Cosa confessa
Caterina Fort dopo queste diciassette ore di interrogatorio? Quello che
10
MARSICO, Il delitto di Rina Fort e gli insegnamenti del suo processo, pp.33-46
18
aveva gia fatto trapelare nei precedenti interrogatori informali: di essere la
responsabile dell’omicidio della Pappalardo e di Giovanni, ma non dei due
bambini più piccoli. Da questo momento in poi si delinea quello che
diventerà l’elemento chiave della difesa della Fort: la donna non avrebbe
agito da sola, ma con l’aiuto di un uomo, un tale Carmelo, il cui livello di
responsabilità varierà ripetutamente nel corso dei giorni delle indagini e del
processo, dal ruolo di autentico istigatore del delitto a quello di mero
collaboratore.
Fino alla sua morte Caterina Fort insisterà sulla presenza di Carmelo, del
quale, però, oltre al nome e a un imprecisato rapporto di parentela con il
Ricciardi, non sarà mai in grado di riferire altro elemento.
Il merito della confessione della Fort verrà attribuito all’intero pool di
poliziotti che condussero gli interrogatori. Solo negli anni ’70, all’apice
della sua carriera, tale merito diverrà invece assegnato completamente
all’abilità di Nardone, a testimonianza dell’ormai leggendaria capacità del
commissario di rapportarsi con i criminali.
Questa sarà comunque soltanto la prima delle confessioni della Fort. Nelle
giornate del tre e del quattro dicembre, la Fort, sottoposta a continui
interrogatori, ritratterà ripetutamente, fino a giungere alla totale
ammissione del delitto: «Li ho ammazzati tutti!
11
» titola il Corriere della
Sera del cinque dicembre aggiungendo, «Caterina Fort ha firmato il verbale
di confessione
12
». Il primo punto della vicenda è dunque risolto nel giro di
pochi giorni: prima ancora della festa per il santo patrono della città, la
strage di via San Gregorio ha trovato il suo responsabile: l’assassina è stata
individuata ed è rea confessa.
11
Li ho ammazzati tutti!, in “Il Corriere della sera”, Milano, 5 dicembre 1946
12
Ibidem
19
Da questo momento in poi i riflettori vengono puntati su più elementi.
Naturalmente Caterina Fort rimane il fulcro della vicenda: su di lei si
concentra l’attenzione della stampa, alla continua ricerca di particolari della
sua vita che consentano di tratteggiare in modo romanzesco il ritratto
dell’assassina. D’altra parte, anche Giuseppe Ricciardi, rientrato a Milano e
immediatamente trattenuto dalle forze dell’ordine, è ora al centro della
scena: di lui si discute lo «strano contegno
13
», mostrato all’ingresso
nell’appartamento di via San Gregorio il giorno successivo alla strage, e
delle attenzioni rivolte nei confronti della ex-amante al momento
dell’incontro fra i due. Si parla di un caloroso abbraccio e sempre il
Corriere della Sera del sette dicembre titola: «Diedero al Ricciardi una
coperta, rispose: “Portatela a lei!”
14
». A ciò si aggiunge la notizia, riportata
puntualmente dal quotidiano di via Solferino tre giorni più tardi, della
richiesta di autorizzazione a riaprire il negozio fatta dal Ricciardi al
magistrato. Certo l’indifferenza mostrata davanti alla morte dei propri cari,
l’interesse per la sorte dell’amante, la fretta di riprendere i propri affari non
contribuiscono a conferire credibilità all’immagine del marito distrutto dal
dolore. Si apre l’ipotesi del Ricciardi complice, se non addirittura vero e
proprio architetto del delitto, uomo di mal affare, traditore della fedeltà
coniugale, in combutta con un’amante balorda per organizzare
l’eliminazione della famiglia e forse anche ideatore di un losco piano per
tutelare gli affari, ormai in crisi, del negozio di tessuti.
La comparsa sulla scena del Ricciardi come possibile complice o ideatore
della strage non riuscì comunque a migliorare la posizione della Fort, che
mai sarà considerata come la donna ingenua e innamorata macchiatasi di un
13
Io ho parlato ora tocca a te dice Rina al marito dell’uccisa, in “Il Corriere Lombardo”, 2-3 dicembre
1946
14
Diedero al Ricciardi una coperta, Rispose: “Portatela a lei!”, in “Il Corriere della sera”, 7 dicembre
1946