3
obiettivi, per poi essere in grado di condurre la sua squadra attraverso la stessa
strada, fino al traguardo finale.
L’allenatore è prima di tutto una persona, con i suoi pregi e difetti, le sue paure, i
suoi obiettivi, insomma la sua filosofia di vita. Ed è logico che quest’ultima
influenzerà il suo modo di condurre la squadra e le finalità che si pone in ambito
sportivo.
E’ per questo motivo che prima di accostarsi alla professione, dovrà avere un’ottima
conoscenza di se stesso, in modo tale da essere una guida, non un semplice
insegnante di concetti tecnici e tattici. Naturalmente il ruolo dell’allenatore e le
competenze che gli vengono richieste saranno diverse a seconda dell’ambito in cui si
trova ad operare: un gruppo di ragazzini, una squadra di quartiere con poche
ambizioni o un team di professionisti richiederanno senza dubbio approcci,
metodologie e competenze differenti.
Qualunque siano le caratteristiche del lavoro richiesto all’allenatore comunque, egli
non può prescindere dall’avere una salda immagine di sé e dei metodi che intende
utilizzare per poter tracciare una strada precisa da seguire insieme ai suoi atleti.
Si può affermare che tra le caratteristiche che un individuo dovrebbe possedere, le
più importanti sono almeno tre.
La prima di esse è l’autocoscienza: sapere chi si è, per poter aiutare i componenti del
gruppo a scoprirlo a loro volta; conoscere i propri lati forti ed i punti deboli su cui
lavorare, per guidare gli atleti nello stesso percorso.
Altrettanto fondamentale è possedere autostima,cioè una forte convinzione di valere
come essere umano prima e poi in ragione delle proprie competenze. Se non si ha
fiducia in se stessi, non è possibile che altri la abbiano e dunque mancherebbe quella
legittimazione necessaria per porsi alla testa del gruppo.
Infine l’autorivelazione; con questo termine si vuole intendere l’importanza di aprirsi
agli altri per sviluppare la consapevolezza di se stessi; ciò significa accettare il
rischio di condividere con gli atleti la propria visione, i propri obiettivi e i propri
metodi, facendo in modo che diventino anche i loro. In questo processo
fondamentale è l’importanza del feedback (informazione di ritorno) del quale si
parlerà approfonditamente in seguito.
Chi possiede queste caratteristiche, potremmo definirlo un “allenatore in potenza”. Il
primo passo da compiere per diventarlo “in atto” è sviluppare la propria filosofia di
allenamento.
La tipologia di meta che ci si pone influenza l’impostazione del proprio programma.
Molto spesso la scelta, solitamente compiuta più a livello inconscio che conscio, si
compie tra tre alternative che tengono conto di altrettanti differenti obiettivi da
raggiungere e dunque di modi diversi di vivere ed “insegnare” lo sport.
Si può prediligere un orientamento alla vittoria, oppure concentrarsi sul divertimento
proprio e degli atleti o decidere di porre il focus della propria attenzione e del proprio
lavoro sugli atleti, cercando di aiutarli a svilupparsi fisicamente, psicologicamente e
socialmente.
Chiariamo innanzitutto che spesso non c’è una netta separazione tra i tre
orientamenti, ma a seconda di quello che si sceglie come preponderante sarà diversa
la filosofia dell’allenatore.
Il tecnico maggiormente orientato alla vittoria avrà come obiettivo quello di costruire
una macchina efficiente ed efficace, che sia sempre in grado di fornire prestazioni al
massimo a prescindere da chi scende in campo. A seguito di questa concezione,
4
passeranno in secondo piano le esigenze dei singoli e saranno considerate solo quelle
della squadra. Ad esempio l’allenatore non si preoccuperà di scoprire le ragioni di un
calo di prestazione di un particolare atleta ma si concentrerà nell’individuare
immediatamente un possibile sostituto. Solo in un secondo momento, dopo aver
coperto il suo ruolo in campo con efficacia, potrà eventualmente occuparsi del
problema principale.
A volte questo tipo di atteggiamento può essere fastidioso per gli atleti che si sentono
poco considerati come persone e portare così ad una disaffezione nei confronti del
proprio leader e di conseguenza ad un calo nell’impegno e nelle motivazioni. Inoltre
può anche essere pericoloso, conducendo ad accorciare forzatamente i tempi di
recupero di un giocatore infortunato se fondamentale negli schemi della squadra.
Chi al contrario vede nel divertimento la meta ultima della propria professione di
allenatore corre il rischio opposto, quello di mettere completamente da parte
l’attenzione alla competizione e alla sfida e così frenare sul nascere la spinta degli
atleti a mettersi alla prova e a raggiungere traguardi importanti. Sicuramente non
bisogna mai far sparire il divertimento dalle sessioni di allenamento, partendo dalle
squadre di bambini fino ad arrivare al professionismo, ma è bene che questa sia una
parte inglobata in una prospettiva più ampia che si ponga obiettivi concreti da
raggiungere.
Un buon compromesso tra questi due estremi è rappresentato dalla filosofia che si
pone nell’ottica di sviluppare la personalità dell’atleta sotto tutti gli aspetti. In questo
tipo di impostazione infatti, l’allenatore avrà come ideale quello di creare un contesto
in cui si possa imparare a rapportarsi con gli altri in un clima di competizione sana,
in cui ognuno vuole sviluppare le proprie capacità per ottenere il massimo sia dalla
prestazione personale che da quella di squadra, arrivando alla vittoria ma senza
barattarla con il rispetto degli altri, sia da un punto di vista fisico che psicologico, né
con quello delle regole. L’allenatore che sposa questa concezione spingerà sempre i
suoi atleti ad accettare le sfide e a farlo con la convinzione di poterle vincere,
puntando sull’impegno, sul sacrificio e sullo spirito di squadra. Certo assumere un
atteggiamento come questo non è facile, tanto meno quando ci si trova a guidare
squadre professioniste nelle quali la pressione esercitata dalla dirigenza è forte e
orientata esclusivamente al raggiungimento di un determinato obiettivo. Ma saper
gestire le risorse psicofisiche di un gruppo è compito dell’allenatore e solo tenendo in
equilibrio le motivazioni personali e di gruppo, gli obiettivi raggiungibili e quelli
imposti, l’orientamento al divertimento e quello alla vittoria, sarà possibile scalare la
vetta.
Quella che si proporrà nei seguenti capitoli e dunque il percorso, o per lo meno uno
di quelli possibili, della genesi di una squadra.
Inizialmente si porrà l’attenzione sull’individuo, sulle sue motivazioni e sul modo in
cui l’allenatore può e deve cercare di amalgamare le aspettative e gli obiettivi
personali di ogni suo atleta, creando una commistione di interessi, una comune
voglia di lottare insieme per la meta collettiva.
Il passo successivo consisterà poi nel soffermarsi sulla definizione della squadra in
quanto gruppo sociale e dunque analizzare le dinamiche interne, che, pur se a volte
superficialmente tralasciate, rappresentano molto spesso proprio l’elemento più
importante, quello che permette ad un team di diventare “vincente”.
Si vedrà dunque attraverso quali fasi la squadra smette di essere un insieme di
individui e diventa un gruppo, con le sue proprie peculiarità.
5
Per approfondire ancora di più questo aspetto si proporrà poi un confronto tra due
differenti tipologie di team: quello sportivo e quello aziendale.
Infine, si chiude con la figura forse più importante all’interno non solo di una
squadra, ma più in generale di ogni gruppo sociale: il leader. Si analizzeranno
differenti modalità di esercitare la leadership e si focalizzerà l’attenzione sul rapporto
tra “la guida” e gli atleti.
6
CAPITOLO 1
LA MOTIVAZIONE
Affinché si inizi nella propria vita a praticare una qualsiasi attività, è necessaria una
spinta, una causa, appunto una motivazione.
Anche per avvicinarsi ad uno sport individuale o di squadra ci saranno una serie di
ragioni, differenti da persona a persona, che porteranno con se implicazioni diverse e
di particolare interesse riguardo anche agli obiettivi che si vogliono raggiungere e a
cosa si è disposti a sacrificare lungo la strada che conduce al traguardo che ci si è
posti.
Sarà necessario per l’allenatore avere un quadro ben preciso delle motivazioni
personali di ogni suo atleta, in modo tale da far coincidere queste con quelle della
squadra e da poter operare con ognuno nel migliore dei modi.
1. Perché praticare uno sport ?
Comprendere che cosa avvicini all’attività sportiva è stato uno dei punti fermi della
psicologia dello sport soprattutto nei suoi primi anni di diffusione.
Particolare attenzione è stata riservata alle motivazioni che conducono i giovani ad
intraprendere una pratica sportiva.
La prima ricerca di rilievo che si è concentrata su tale interrogativo è quella svolta da
Aldermann e Wood
1
a partire dal 1976.
I due studiosi hanno ripreso un modello proposto da Birch e Veroff
2
dieci anni prima
che definiva quelli che secondo loro erano i sette sistemi di motivi principali che
regolano il comportamento degli esseri umani.
Al primo posto citano l’affiliazione
3
, cioè la necessità per l’individuo di stabilire
relazioni interpersonali con i suoi simili. Forte è anche il bisogno di sperimentare
l’esperienza del potere
4
; con ciò si intende la possibilità di esercitare influenza e
controllo sugli altri. Essere con gli altri non significa però perdere la propria identità
di persona, ecco perché fondamentale è anche la spinta dell’indipendenza
5
, la
capacità di autodeterminarsi ed orientare la propria azione. Altro motivo
fondamentale è collegato alla gestione dello stress
6
: praticare uno sport da la
possibilità di svolgere attività stimolanti nella quali impegnare ed incanalare le
proprie energie e sfogare eventuali tensioni. Quinto motivo individuato è il tendere
all’eccellenza
7
, cioè impegnarsi nel processo di miglioramento delle proprie capacità
tanto da riuscire a prevalere sugli altri dimostrando la propria supremazia; è quello
che accade quando c’è una sana competizione, un agonismo sportivo nel quale ogni
atleta vuole dimostrare il proprio valore. Collegata a quest’ultimo concetto anche la
1
Aldermann R. B. e Wood N. L. , “An analysis of incentive Motivation in young Canadian athletes”,
Canadian Journal of Applied Sport Science, 1976
2
Birch D. e Veroff J., Motivation : a study of action, Belmont, Calif. , Brooks/Cole , 1966
3
Cei A., Psicologia dello sport, Il Mulino, Bologna, 1998
4
Ibidem
5
Ibidem
6
Ibidem
7
Ibidem
7
volontà di raggiungere il successo
8
acquisendo così prestigio, status sociale via via
più elevato e rinforzi estrinseci. Infine il settimo ed ultimo motivo, coincidente con la
possibilità di sfruttare l’aggressività, comunque intrinseca in ogni individuo, per
attuare una qualche forma di dominio sugli altri.
Aldermann e Wood hanno sottoposto questi sette gruppi di motivazioni al loro
campione di soggetti, composto da circa 3.000 atleti di età compresa tra gli undici e i
diciotto anni.
Dai risultati è emerso che quelli che maggiormente spingevano a praticare uno sport
erano l’affiliazione, l’eccellenza e lo stress.
Veniva anche dimostrato che le motivazioni erano indipendenti da variabili quali
l’età, il genere, lo sport praticato e la cultura d’appartenenza.
Un secondo programma di ricerca è stato realizzato da Sapp e Haubenstriker
9
nel
1978, indagando sia le motivazioni che spingono ad intraprendere l’attività sportiva,
sia quelle che conducono all’abbandono della stessa. Il campione esaminato era
composto da circa duemila tra atleti, non atleti e giovani che avevano abbandonato lo
sport.
Per quanto riguarda il primo punto, sono emersi come motivi dominanti gli stessi già
sottolineati dalla ricerca di Aldermann e Wood:
ξ affiliazione
ξ eccellenza
Accanto a questi, due ulteriori variabili sono risultate rilevanti:
ξ divertimento
ξ desiderio di mantenere una buona forma fisica
Per quel che concerne invece la cessazione dell’attività sportiva, la motivazione
principale segnalata è la volontà o necessità di praticare altre attività
10
. E’ infatti
dimostrato che con la fine degli impegni scolastici ed il subentro dei ritmi lavorativi,
più rigidi e meno flessibili, diventa più complicato praticare assiduamente un’attività
sportiva
11
. Accanto a questa motivazione che potremmo dire pratica, si cita lo stress
provocato dalla nascita di tensioni con l’allenatore o con il gruppo dei compagni di
squadra
12
.
Questo secondo lavoro conferma altresì la costanza delle motivazioni a praticare uno
sport indipendentemente da variabili come sesso, età, ecc.. mentre d’altro lato
sottolinea alcune differenze in relazione al fenomeno dell’abbandono in base all’età:
- i più giovani lasciano per problemi inerenti il rapporto con l’allenatore e il
gruppo o per mancanza di divertimento
- i più grandi per l’emergere di altri interessi o per necessità collegate al mondo
del lavoro
8
Birch D. e Veroff J., Motivation, a study of action , Belmont, Calif. , Brooks/Cole , 1966
9
Sapp M. e Haubenstricker J. , “Motivation for joining and reason for not continuing in youth sports
programs in Michigan”, comunicazione presentata al Congresso AAHPER, Kansas City, Mo, 1978
10
Ibidem
11
Cei A. , Psicologia dello sport, Il Mulino, Bologna, 1998
12
Sapp M. e Haubenstricker J. , op. cit. , 1978
8
Sulla scia di questi primi due studi, altri ricercatori hanno continuato ad approfondire
tematiche riguardanti il rapporto motivazione/sport.
Di particolare importanza è stato il lavoro svolto nel 1983 da Gill, Gross e
Huddleston
13
su un duplice piano. I tre ricercatori si sono proposti di costruire un
questionario motivazionale alla pratica sportiva che potesse poi essere utilizzato nei
successivi programmi di analisi sull’argomento; si sono altresì posti l’obiettivo di
studiare a livello descrittivo le ragioni che possono determinare la scelta di praticare
uno sport.
Il primo ambito di indagine
14
ha ancora una volta ribadito come la motivazione
principale per avvicinarsi al mondo dello sport sia la ricerca dell’eccellenza.
Gill e i suoi collaboratori hanno poi sottolineato le differenze di priorità delle altre
motivazioni, in base al sesso.
Le ragazze
15
affermano di praticare uno sport avendo come motivazioni principali il
divertimento, la possibilità di entrare in competizione con altre ma allo stesso tempo
di far parte di una squadra e il piacere tratto dalle sfide.
I ragazzi
16
hanno citato l’agonismo al primo posto, seguito dal divertimento, dalla
voglia di competere e infine il far parte di una squadra.
Da questo elenco di motivazioni si può ricavare un’implicazione importante, cioè che
indipendentemente dal genere, ci si avvicina alla pratica sportiva con l’obiettivo di
migliorare le proprie competenze, ma tale fine deve essere raggiunto in un ambiente
che garantisca la soddisfazione anche di altre esigenze quali appunto il divertimento,
il bisogno di affiliazione e condivisione che sostengono l’atleta lungo il suo percorso
di maturazione sia sportiva che personale.
Il passo successivo della ricerca
17
è stato quello di raggruppare tutte le risposte al
questionario motivazionale, arrivando così ad ottenere otto fattori che identificano
altrettante categorie generali:
F1 – riuscita/status: comprende il desiderio di vincere, il sentirsi importanti, l’essere
popolari, il migliorare lo status, il poter mostrare le proprie capacità ed esserne
ricompensati
F2 – squadra : desiderio di far parte di una squadra
F3 – forma fisica : comprende il bisogno di sentirsi in forma, fare esercizio e curare il
proprio fisico
F4 – spendere energie : raccoglie ragioni quali desiderio di scaricare le tensioni, fare
qualcosa, muoversi e stare fuori casa
F5 – rinforzi estrinseci : premi, materiali o psicologici, che sostengono il giovane e
che sono distribuiti da persone per lui significative
F6 – sviluppo e miglioramento delle abilità sportive
F7 – amicizia : riguarda il bisogno di stare con gli amici e farsene di nuovi
F8 – divertimento : comprende il piacere tratto dall’azione e il desiderio di
eccitamento.
13
Gill D. L., Gross J. B. e Huddleston S. , “Participation motivation in youth sports”, International
Journal of sport psychology , 1985
14
Ibidem
15
Ibidem
16
Ibidem
17
Ibidem
9
L’unico tra questi otto fattori in cui si registrano delle differenze in base al genere è
quello legato alla riuscita e alla collegata acquisizione di uno status più elevato, al
quale i ragazzi attribuiscono maggiore importanza rispetto alle ragazze.
In una fase successiva, l’interesse degli psicologi dello sport si è fatto più specifico e
tendente ad analizzare alcune relazioni particolari.
Una tra tutte quella tra motivazione a partecipare e livello di età dei praticanti
18
.
Tutti gli studi in questo ambito sembrano concordi nell’affermare l’esistenza di due
ragioni che non variano a seconda dell’età; esse
19
coincidono con l’attenzione
riservata alla cura della propria salute e con la volontà di sentirsi in forma.
Ci sono invece altri motivi individuali che risentono della fascia di età alla quale
l’individuo appartiene. Molti studi
20
infatti sottolineano come l’acquisizione di
competenza sportiva ed il piacere di gareggiare siano importanti soprattutto per i
bambini e nella fase adolescenziale. Sempre per questa fascia di età è fondamentale
ottenere il sostegno dei genitori, degli amici e dell’allenatore; si sottolinea poi come
questa necessità sia avvertita più forte nei bambini e meno negli adolescenti.
Riguarda invece soprattutto la fascia adulta fino alla vecchiaia, l’interesse a
mantenere buona sia la forma fisica che più in generale lo stato di salute.
Infine spinte rilevanti nella tarda adolescenza sono l’acquisire status sociale, il farsi
notare dagli altri e l’ottenere popolarità nel gruppo dei pari.
Questa panoramica sulle ricerche in campo motivazionale della psicologia dello sport
copre un arco decennale e dimostra come intraprendere una attività sportiva sia una
decisione influenzata da una serie di fattori, per lo più indipendenti da variabili
socioculturali o personali.
Tutti i motivi citati mirano al miglioramento, sia esso delle proprie capacità o della
propria condizione fisica.
La voglia di gareggiare e di misurarsi con gli altri, pur presente tra le risposte, è in
secondo piano rispetto alla volontà di mettere alla prova se stessi e le proprie risorse.
2. Motivazione estrinseca e motivazione intrinseca
Grazie alle ricerche precedentemente citate si è avuto un quadro abbastanza preciso
dei motivi che conducono l’individuo ad avvicinarsi allo sport.
Volendo riflettere in maniera più puntuale sul processo psicologico che porta la
persona a intraprendere l’attività sportiva, Martens
21
afferma che bisogna considerare
le fonti della motivazione ed introdurre l’importante differenza tra :
- atleti motivati intrinsecamente
- atleti motivati estrinsecamente
18
Gill D. L. , Gross J. B. e Huddleston S. , “Participation motivation in youth sports”, International
Journal of sport psychology, 1985
19
Cei A., Psicologia dello sport, Il Mulino Bologna, 1998
20
Ibidem
21
Martens R. e Bump L. , Psicologia dello sport, Ed. Borla, Roma, 1991
10
Quando si parla di motivazione intrinseca
22
si intende un impulso interiore ad essere
competenti ed autodeterminati, a gestire i propri compiti ed arrivare al successo.
L’atleta che può contare su questo tipo di spinta, sarà probabilmente più concentrato
rispetto ai suoi compagni sia sui suoi obiettivi che su quelli della squadra; per questo
non ci sarà bisogno di uno stimolo continuo da parte dell’allenatore e ci sarà meno
possibilità che mostri atteggiamenti dannosi per se stesso o per il gruppo, proprio
perché ciò che fa è il modo per appagare un suo bisogno psicologico. La pratica dello
sport in questo caso può essere vista come una risposta ad una domanda interiore, il
modo per sentirsi realizzato raggiungendo una meta importante per se stessi,
ponendosi continuamente nuovi limiti e superandoli per arrivare al più alto grado di
eccellenza possibile
23
.
La forza di questo tipo di motivazione è tale che si può ipotizzare una maggiore
facilità di gestione delle difficoltà, di eventuali infortuni ed incomprensioni con
l’allenatore o compagni; queste saranno considerate solo come piccoli e temporanei
ostacoli da aggirare nel tempo più breve possibile e comunque non distoglieranno
l’atleta dal portare a termine il suo compito
24
.
Lo sportivo intrinsecamente motivato avrà l’abitudine di considerare gli eventi della
propria vita come dipendenti direttamente dal suo comportamento e non da qualche
variabile esterna. Ci si trova in questo caso in presenza di una localizzazione interna
del controllo
25
. L’atleta dunque probabilmente penserà in tali termini : “ in base a
come IO agisco, produrrò conseguenze diverse ed appropriate ai risultati ottenuti“.
In base alla mia esperienza personale, sia di giocatrice che di allenatrice, avere un
focus interno è un vantaggio per chi si avvicina alla pratica di uno sport, perché
maggiore è la volontà di mettersi in discussione e di imparare, come anche la
capacità di fare sacrifici per ottenere i risultati voluti. Inoltre avere la consapevolezza
che in gran parte il premio finale dipende dalle proprie azioni orienta l’individuo ad
acquisire sempre più abilità e lo spinge a migliorarsi continuamente.
Anche eventuali sconfitte o fallimenti vengono gestiti in maniera migliore, con
reazioni tutto sommato positive grazie alla capacità di interpretare tali incidenti di
percorso come un’occasione per arricchire il proprio bagaglio di esperienze in vista
della prossima competizione in cui si punta con convinzione ad ottenere un risultato
migliore.
All’estremo opposto del continuum troviamo invece gli atleti estrinsecamente
motivati
26
. In questo caso l’individuo ha bisogno di continui rinforzi, positivi o
negativi, da parte di altre persone per portare avanti la sua attività. Questi rinforzi
possono essere di natura materiale o psicologica e sono chiamati appunto ricompense
estrinseche.
Essere bravi nell’indirizzare l’altrui comportamento, significa molto spesso seguire
la “legge dell’effetto”
27
: premiare un comportamento accresce la possibilità che
questo venga ripetuto, punirlo la diminuisce. Si può dunque affermare che un
allenatore dovrebbe essere in grado di gestire bene premi e punizioni per poter
22
Martens R. e Bump L., Psicologia dello sport, Ed. Borla, Roma, 1991
23
Ibidem
24
Ibidem
25
Ibidem
26
Ibidem
27
Ibidem
11
guidare l’atleta lungo il cammino che lo condurrà all’ottenimento degli obiettivi
fissati per lui e per la squadra a inizio stagione.
Si comprende facilmente come una persona dotata di questo tipo di spinta verso
l’attività sportiva abbia dei bisogni e dei modi di rapportarsi con la propria disciplina
molto diversi rispetto a quelli di chi è intrinsecamente motivato.
In questo caso infatti il focus del controllo è esterno
28
, ciò significa che si tende a
spiegare gli eventi della propria vita come risultato dell’azione di forze esterne, che
si sottraggono alla propria volontà. La conseguenza più immediata è la maggiore
paura di fallire che sperimentano questi atleti : se non si è convinti di potercela fare
con i propri mezzi, ci si sentirà sempre in balia di avvenimenti che comunque
faranno il loro corso a dispetto degli sforzi compiuti. Questo spesso può portare lo
sportivo a tendere meno verso il miglioramento delle proprie capacità perché ritenute
comunque insufficienti a fronteggiare eventuali variabili esterne negative.
Nella pratica sovente questo porta gli atleti estrinsecamente motivati ad eseguire il
proprio compito all’interno del gruppo con un maggiore impegno se gli viene
“promessa” una ricompensa , consista essa in qualcosa di materiale come denaro,
macchine… o in un rinforzo di tipo psicologico, come l’approvazione da parte del
mister o dei compagni o di persone comunque significative. E’ per questo che a volte
l’atleta con questo atteggiamento mentale è incostante e alterna ottime prestazioni a
gare da dimenticare : molto dipenderà dal premio che in quella particolare
circostanza gli è stato promesso.
E’ importante sottolineare che quelle qui presentate sono due posizioni estreme.
Sarà dunque facile trovare atleti che racchiudono entrambi i tipi di spinta. Altrettanto
semplice è comprendere come il mix migliore preveda una consistente dose di
motivazione intrinseca, supportata dall’ambizione di ottenere ricompense
estrinseche.
Inoltre entrambi i tipi di motivazione sono legati al carattere e al modo di essere di
una persona, quindi difficilmente l’allenatore potrà essere in grado di modificarle. Il
suo compito allora sarà di capire, osservando l’atleta, quale tipo di spinta lo guida
29
.
Questa operazione è senz’altro più facile durante le ore di allenamento che non in
gara: chi è motivato intrinsecamente sarà sempre tra i primi ad arrivare e tra gli
ultimi ad andarsene, metterà in tutte le esercitazioni un impegno elevato e costante,
sarà disposto a supplementi di lavoro per migliorare alcune sue lacune. Tutti elementi
lontani dal modo di agire di chi invece pratica lo sport solo in vista di ricompense e
quindi spenderà le proprie energie solo durante la competizione.
Una volta classificato l’atleta, il mister dovrà essere in grado di far leva sui suoi
diversi interessi in modo tale da ottenere il massimo profitto da ognuno.
Oltre a questa fondamentale divisione della tipologia di motivazioni effettuata da
Martens, bisogna tenere conto di altri aspetti maggiormente “sociali”, che allo stesso
modo orientano le scelte degli individui e dunque lo fanno anche per quel che
riguarda la possibilità o meno di intraprendere un’attività sportiva.
Infatti “molti dei nostri comportamenti sono finalizzati a piacere agli altri, a noi
stessi o a soddisfare gli scopi, le norme e le aspettative condivise dai gruppi ai quali
apparteniamo”
30
. E’ dunque importante per gli individui ottenere valutazioni positive
da altri che siano significativi. A questo proposito vengono identificati quattro aspetti
28
Martens R. e Bump L., Psicologia dello sport, Ed. Borla, Roma, 1991
29
Ibidem
30
Emiliani F. e Zani B. , Elementi di psicologia sociale, Il Mulino, Bologna, 1998
12
motivazionali del Sé che entrano in gioco quando si cerca di costruire una positiva
immagine di sé sia per noi stessi che per gli altri.
31
Greenwald ed i suoi collaboratori
propongono dunque di analizzare il Sé diffuso, il Sé pubblico, il Sé privato ed il Sé
collettivo.
Ai fini della trattazione presente rivestono importanza due categorie del Sé.
In primo luogo quello pubblico
32
, in quanto sensibile alle valutazioni di altri
significativi e rivolto a cercare la loro approvazione; da ciò segue anche la spinta
verso il conformismo alle regole imposte e a quei comportamenti che garantiscono
rispetto ed accettazione da parte del gruppo dei pari, dei propri genitori o di altre
figure comunque importanti.
In seconda battuta, il Sé collettivo
33
che è prodotto delle esperienze di socializzazione
e che rappresenta l’interiorizzazione degli scopi, delle norme e delle aspettative di
importanti gruppi di riferimento; il compito assegnato a questa sfera della personalità
è di adempiere al ruolo ricoperto dall’individuo nel gruppo di cui, di volta in volta fa
parte.
Sembra facile capire in che modo questi aspetti assumano interesse anche per
l’argomento qui trattato.
Se nella famiglia c’è una grande attenzione ad un particolare tipo di sport, che può
essere il calcio piuttostochè la pallavolo o il basket, il giovane sarà di sicuro spinto
ad intraprendere quella disciplina. La scelta fatta dal ragazzo probabilmente gli
frutterà l’appoggio dei suoi cari ed in questo modo il suo Sé pubblico ne trarrà
soddisfazione. Una volta entrato nella squadra, inizierà a lavorare il Sé collettivo,
facendo in modo che l’atleta si uniformi alle regole, non solo quelle proprie dello
sport praticato ma anche quelle di comportamento previste dalla Società in cui si
trova e quelle riguardanti le dinamiche interne dello spogliatoio. Dunque cercherà di
svolgere il ruolo che il mister gli ha assegnato nel modo migliore possibile, per
guadagnarsi ancora di più rinforzi positivi; questa volta non si preoccuperà più solo
di soddisfare le sue aspettative e quelle dei suoi gruppi primari
34
, la famiglia ed il
gruppo degli amici, ma anche della sua squadra, dunque i suoi compagni, l’allenatore
e la Società.
Più sarà capace di svolgere i compiti assegnati, più aumenterà l’autostima che così
diventerà un’ulteriore spinta a continuare nell’attività sportiva intrapresa.
L’autostima
35
è “la valutazione che la persona da di se stessa ovvero quanto ad un
momento dato essa si considera importante, capace e di valore”.
Avere una alta autostima è importante quando si è inseriti in un gruppo sociale,
perché essa svolge un’importante funzione
36
: diminuisce la paura di essere ignorati,
rifiutati dalle altre persone e di essere esclusi.
31
Greenwald A. G. e Breckler S. J. , Motivational facets of the self, Guilford Press, New York, 1986
32
Ibidem
33
Ibidem
34
Emiliani F. e Zani B. , Elementi di psicologia sociale, Il Mulino, Bologna, 1998
35
Ibidem
36
Leary M. R. e Downs D. L. , Interpersonal functions of the self-esteem motive, Plenum, New York
1995