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INTRODUZIONE
Quando si diventa esperti in un compito particolare, la quantità di energia richiesta
dalla sua esecuzione diminuisce. Studi sul cervello hanno rivelato che il modello di
attività associato a un’azione cambia a mano a mano che la competenza aumenta, e
che nell’operazione sono coinvolte meno regioni cerebrali. Il talento ha effetti
analoghi. Gli individui molto intelligenti devono fare meno sforzi per risolvere gli
stessi problemi degli altri. Una generale “legge del minimo sforzo” si applica sia allo
sforzo cognitivo sia allo sforzo fisico. La legge afferma che se vi sono vari modi di
raggiungere lo stesso obiettivo, la gente alla fine tenderà ad adottare quello meno
impegnativo. Nell’economia dell’azione, lo sforzo è un costo, e l’acquisizione di una
competenza è guidata dal bilanciamento di costi e benefici. La pigrizia è
profondamente radicata nella natura umana. Come chiunque può sperimentare, anche
la richiesta di richiamare alla memoria e dire a voce alta il proprio numero di
telefono o la data di nascita del proprio coniuge comporta un breve ma significativo
sforzo, perché va tenuta a mente l’intera serie mentre si organizza la risposta; e
questo è tanto più impegnativo quanto meno familiarità abbiamo con suddette
informazioni.
Ciò vale anche per un compito motorio, poiché questi è organizzato a livello
cerebrale prima di poter essere messo in pratica. Occorre uno sforzo per mantenere
simultaneamente in memoria parecchie idee che richiedono azioni separate o che
devono essere combinate secondo una determinata regola: ripassare la lista della
spesa quando si entra al supermercato, scegliere tra il pesce e il vitello al ristorante o
per esempio ripassare i passi di una coreografia.
Che cosa rende alcune operazioni cognitive più difficili e faticose di altre?
L’Abitudine.
Cos'è un'abitudine? L'abitudine è il processo mediante il quale un comportamento
diventa abituale e, vi è un aumento incrementale nel collegamento tra il contesto e
l'azione. Per azione si intendono sia attività mentali che motorie che, dopo un
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periodo relativamente lungo in cui vengono ripetute, vengono poi svolte in maniera
più sciolta o con maggiore coordinazione dei movimenti. Questo aumenta
l'automaticità del comportamento in tale contesto.
Un problema con il concetto di abitudine è stato che praticamente ognuno ha le
proprie idee su cosa si intende con tale termine. Pur non evitando la psicologia
popolare, è utile riesaminare le definizioni del dizionario di "abitudine". L'Oxford
Dictionary of English definisce l'abitudine come "una tendenza o pratica stabile o
regolare, specialmente una a cui è difficile rinunciare" e anche "una reazione
automatica a una situazione specifica".
In sociologia, le abitudini possono essere tradotte in “Routine”; esse fanno parte della
nostra vita in modo determinante: dal preparare il caffè alla mattina fino alla strada
da compiere per andare al lavoro, dal lavarsi i denti fino a mettersi il pigiama. Ma
perché?
Svolgiamo automaticamente più dell’80% delle nostre azioni. Il cervello adora
trasformare ogni nostro comportamento in routine, perché pensare costa fatica. Le
routine aiutano il nostro organo pensante a risparmiare energia e a minimizzare i
rischi. Tutto questo ha un senso da un punto di vista neurobiologico ed è utile alla
sopravvivenza. A volte però può essere dannoso, ad esempio nel caso delle cattive
abitudini.
Nella realtà sportiva, riuscire a compiere azioni faticose con il minimo sforzo, può
essere utile a dedicare più tempo e maggiore attenzione durante gli allenamenti, e
fare la differenza tra vittoria e sconfitta nei momenti decisivi di una gara. Più in
generale, nell’ambito di uno stile di vita sano, creare abitudini, può aiutarci ad
inserire nella nostra routine, un piccolo spazio riservato all’attività fisica, quel tanto
che basta per “star bene”.
Creare una nuova abitudine, o cambiarne qualcuna, è estremamente difficile e
soprattutto faticoso. Ciò potrebbe essere facile qualora si considerasse l’individuo
come un’entità isolata, ma così non è; esso è in costante interazione con la famiglia, i
colleghi di lavoro, la scuola, i professori (…) e la società in genere. Ha molti rapporti
di vario genere e per quanto forte e capace possa essere, un individuo che manchi di
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prendere in considerazione questi rapporti provoca inevitabilmente reazioni e
conflitti che fanno fallire i suoi obiettivi.
Il concetto di creazione o sostituzione di una abitudine, si interfaccia inevitabilmente
a quello di forza di volontà.
Uno dei consigli per rendere efficace la propria forza di volontà è di concentrarsi su
un solo progetto alla volta. Prefissando più di un obiettivo di automiglioramento, può
darsi che per qualche tempo si riesca ad attingere alle riserve di forza di volontà, ma
alla lunga, un individuo, potrebbe ritrovarsi ad essere più esaurito e più a rischio di
commettere errori. I grossi cambiamenti della vita vanno affrontati uno alla volta per
evitare di vanificare i propri sforzi. Soprattutto, è bene non farsi un elenco di buoni
propositi per l’anno nuovo. Ogni Capodanno milioni di persone si alzano dal letto
piene di questi ultimi: mangiare e spendere meno, fare più sport, lavorare di più,
tenere la casa pulita, (…). Il primo Febbraio quelle stesse persone si vergognano
persino di guardare quell’elenco, ma invece di dare la colpa alla loro mancanza di
forza di volontà, dovrebbero darla alla lista che richiederebbe uno sforzo
sovraumano. Poiché si ha una sola riserva di forza di volontà, le varie buone
intenzioni sono in concorrenza tra loro: ogni volta che si cerca di metterne in pratica
una si riduce la riserva per tutte le altre. La soluzione migliore è fare un solo
proponimento e attenervisi, vedendo che quell’unico sarà già abbastanza
impegnativo e che ci saranno momenti in cui anche un solo proposito sembrerà
troppo.
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CAPITOLO PRIMO
1.1 Storia e Filosofia delle abitudini
Marco Piazza, insegnante di Storia e Filosofia all’Università degli Studi di Roma Tre,
scrive nel suo volume “Creature dell’abitudine” che il discorso filosofico
sull’abitudine è diventato via via sempre più interdisciplinare, aprendosi agli apporti
in primis della psicologia, ma anche della sociologia e dell’antropologia. Dopo secoli
di teorizzazione filosofica sul funzionamento e sull’origine delle nostre abitudini, sono
oggi la fisiologia e le neuroscienze a spiegare le modalità della loro formazione. Ma
come in passato, tuttavia, i saperi scientifici richiedono la collaborazione della filosofia
per comprendere appieno il significato da attribuire alla plasticità del nostro cervello,
così da affrontare con strumenti epistemologici efficaci le implicazioni morali,
politiche e giuridiche poste dalla nostra condotta di “creature dell’abitudine” (Piazza,
2018)
Il termine “Abitudine” ha, nelle principali lingue filosofiche occidentali, una storia che
affonda le sue radici nel greco e nel latino. Se prendiamo la lingua italiana, ma ciò vale
anche per il francese o l’inglese, due lingue molto importanti nello sviluppo della
riflessione sull’abitudine, dobbiamo risalire all’ habitus e habitudo derivanti da
habere, cioè “possedere”, così come dal greco hexis che significa “avere”. In questi
passaggi, nel corso della storia, il significato delle parole ha subito delle modificazioni
ed è possibile rendersene conto quando la storia del concetto di abitudine s’interseca
con quella del concetto di costume (Piazza, 2018).
Il primo filosofo ad aver condotto una riflessione organica e articolata sull’abitudine è
stato Aristotele nell’Etica Nicomachea. Egli per indicare l’abitudine impiega due
termini: ethos ed hexis. Il primo (ethos) tradotto in italiano variamente con “abitudine”
o “costume”, corrisponde al processo di abituazione con cui si sviluppa un carattere
morale, che dunque non deriva soltanto da una base neurale, ma è il frutto di un
esercizio prolungato nel tempo e che non esclude una componente cognitiva (istruzioni
verbali, esortazioni, ecc.), sebbene tale processo sia tenuto ben distinto
dall’apprendimento attraverso l’insegnamento, che mira a fornire la “conoscenza del
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perché” (natura di una cosa) e non solo quella del “che” (del fatto che quella cosa è in
quel modo) (Piazza, 2018).
Il secondo (hexis), tradotto variamente con “abitudine”, “stato”, “modo di essere”,
“possesso”, Aristotele intende riferirsi ad una disposizione qualitativa (di tipo etico,
intellettuale, capacità tecnica) conseguita attraverso la ripetizione e l’attività e che
rappresenta la base per l’azione.
Intorno all’abitudine il pensiero filosofico occidentale gioca una complessa partita, fin
dalle radici di quella che da Aristotele in poi si delinea come una vera e propria
filosofia dell’abitudine: si tratta cioè di ricercare un punto di equilibrio tra il
riconoscimento dell’abitudine come ostacolo alla trasformazione di sé e quello
dell’abitudine come strumento di cui servirsi proprio per favorire tale processo di
trasformazione (Piazza, 2018). L’abitudine appare così nello stesso tempo nemica e
alleata della filosofia. Vi è una fortunata espressione che in un certo modo rappresenta
in maniera emblematica questa problematica cruciale, ossia quella per cui l’abitudine
è una “seconda natura”. Aristotele, nella Rhetorica, definisce l'abitudine: “Una cosa
che somiglia alla natura: la natura è ciò che si fa sempre, l'abitudine ciò che si fa
spesso” e, nella Metaphisica, la distingue dall'abito, che per il filosofo è “una
disposizione a essere bene o mal disposto verso qualche cosa, sia verso di sé sia verso
l'altro”.
L’abitudine condivide dunque con la natura la regolarità meccanica e irriflessiva dei
suoi movimenti, ma non rinvia direttamente a un finalismo naturale, semmai
presuppone una causa finale, nel momento in cui dipende da una decisione umana.
L’abitudine è perciò allo stesso tempo naturale e artificiale: poiché nell’ordine naturale
immutabile non vi è posto per la prescrizione pratica, e nemmeno nella sua stessa
natura, l’uomo deve acquisire delle abitudini, affinché le virtù diventino per lui come
se fossero naturali (Piazza, 2018). “L’abitudine è un movimento, diventato naturale,
attraverso il quale l’uomo risponde all’incompiutezza della sua natura” (Aristotele).
Proprio su questo è possibile notare come già nell’Antica Grecia, il concetto di
abitudine aveva un significato e valore simile a quello contemporaneo ed è proprio
sulle parole di Aristotele che ve ne si può prendere atto: “sebbene risulti assai difficile
cambiare le nostre abitudini, è soltanto su di esse, e non certo sulla prima natura, che
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può essere operato un cambiamento”. Di qui l’opportunità di interpretare quei passi in
cui Aristotele parla delle nostre inclinazioni come discorsi sulle nostre disposizioni
acquisite: “è su queste ultime, che, sia pure a fatica, possiamo (e dobbiamo) operare,
trasformandole, per realizzarci eticamente. Il terreno dell’etica è dunque rappresentato
proprio dalla seconda natura ed è su questo terreno che può essere tentato un processo
di contro-abituazione in grado di sostituire le cattive abitudini acquisite con nuove
corrette abitudini. Un compito arduo, quello di cambiare abitudini, proprio perché si
tratta di tendenze naturalizzatesi in noi, ma almeno priori, non impossibile se si agisce
in senso opposto al loro per un lungo periodo di tempo” (Aristotele).
È evidente che si può distinguere tra abitudini individuali e abitudini collettive. Queste
ultime sono generalmente indicate con il termine “costumi”; esiste cioè la possibilità
di un travaso o di un contagio per cui determinate abitudini da individuali diventano
collettive. Il meccanismo psicologico e sociale all’opera in questa dinamica è quello
dell’imitazione. È questo un concetto la cui importanza nella storia, da Platone in poi,
e più recente nel campo dell’etologia e della psicologia sociale è assolutamente
indubbia. Basti forse ricordare che il nesso tra abitudine e imitazione è indicato con
chiarezza già da Montaigne, il quale deriva la seconda dalla prima: “la lunga
sopportazione genera l’abitudine; l’abitudine, il consenso e l’imitazione”. Oppure
Gabriel Tarde alla fine del XIX secolo, arriva a definire l’uomo sociale come un “vero
e proprio sonnambulo che crede di possedere idee spontanee, mentre queste gli sono,
invece, suggerite”.
Secondo il Professor Piazza, a distanza di secoli si può ribadire ancora questo concetto
nel quadro di una classificazione delle forme di imitazione sociale e, soprattutto, nel
quadro dell’uomo-rito: “tutte le somiglianze che si possono notare nel mondo sociale
sono il frutto diretto o indiretto dell’imitazione in tutte le sue forme, imitazione-
costume/moda, imitazione-simpatia, imitazione-istruzione/educazione, (…)”.
Ad oggi sono soprattutto le neuroscienze e certi sviluppi dello studio dell’evoluzione
umana a fornire un apporto all’analisi dei meccanismi di imitazione sociale, ma lo
spettro delle discipline coinvolte negli studi scientifici è assai ampio. Nel campo della
psicologia dello sviluppo è stata superata l’idea che gli esseri umani imparino
gradualmente a imitare solo dopo i primi anni di vita, in quanto sappiamo che i neonati
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possono imitare già alla nascita certi movimenti corporei, rivelando una connessione
innata tra azione osservata e azione eseguita e, nel contempo, tra neonato e persona
che se ne cura, con conseguenze sullo sviluppo emotivo-relazionale (Piazza, 2018).
Recentemente, infine, è apparsa una disciplina inedita, la “memetica”, che si sforza di
applicare la teoria dell’evoluzione allo studio della cultura umana: accanto ai geni,
avremmo i “memi”, cioè delle unità di trasmissione culturale, definiti come unità di
imitazione dal loro ideatore Dawkins.
Quanto da tempo suggeriscono le neuroscienze applicate al campo degli studi psico-
sociali, è l’effetto combinato della tendenza imitativa e dell’influenza dei sistemi
gerarchici: le nostre decisioni e le nostre credenze sarebbero cioè condizionate
dall’alone di autorità o di credibilità di una determinata informazione che
consideriamo vero o accettabile non tanto in base al contenuto del messaggio da essa
veicolato, quanto per l’appunto in forza del peso sociale o della piacevolezza che
l’accompagna (Piazza, 2018). Questo concetto può facilmente essere riportato ai nostri
tempi, basta pensare all’effetto sociale che ha l’attività fisica, lo sport, perché
generatori di un corpo esteticamente più bello; si va in palestra per imitare la società
nell’apparenza e alla ricerca della bellezza estetica. Così come lo stesso avviene nel
seguire delle diete di tendenza per “imitare” e diventare come il personaggio che la
sponsorizza.
Il nostro focus è però il nesso tra abitudine e imitazione e dobbiamo spostarci nel
Settecento, con Hume è proprio l’abitudine a dare ragione della regolazione della
nostra condotta e della diversità dei modi di vivere: “i modi di vivere degli uomini
sono differenti in differenti età e paesi? Di qui impariamo a conoscere la grande forza
del costume e dell’educazione, che modellano la mente umana fin dall’infanzia e
formano in essa un carattere fisso e stabile”. Del resto, egli sostiene in maniera assai
decisa che non è la ragione la guida della vita, ma l’abitudine (costume); essa soltanto
muove la mente, in tutti i casi, a supporre il futuro conforme al passato. Il costume,
che non dipende da alcuna deliberazione e agisce immediatamente senza concedere
tempo alla riflessione, è quel principio che rende facile il compimento di un’azione,
ma comunica anche un’inclinazione e una tendenza verso questa (Piazza, 2018).