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Di particolare interesse sembra la deriva impropria che a volte grava sui questi
lavoratori: l‟innescarsi di fenomeni di opportunismo contrattuale da parte dei datori di
lavoro ha portato alla creazione, accanto a lavoratori professionisti dotati di un loro
potere di mercato incorporato nel proprio bagaglio di competenze professionali, di
figure che hanno molte caratteristiche della subordinazione (scarsa autonomia,
subordinazione gerarchica, dipendenza economica) senza che queste rientrino sotto la
legislazione del lavoro subordinato e sotto i vincoli che la norma imporrebbe.
Queste figure di professionisti solo di nome, ma che di fatto svolgono un lavoro
subordinato portano con sé importanti implicazioni anche a livello sociale. Basandosi
infatti su ricerche empiriche2, è possibile affermare che in una realtà come quella
italiana in cui i diritti sociali degli individui derivano direttamente dalla posizione
lavorativa che si ricopre, queste occupazioni che procurano minor salario e più rischi di
precarietà non ipotecano solo il destino attuale degli individui, ma anche quello futuro
perché significherà minor contributi per le pensioni, minor possibilità di accesso a
forme di previdenze sociali come sussidi o redistribuzioni. Per questo motivo questi
contratti diventano una “seconda scelta”, da accettare solo dopo aver vagliato tutte le
altre possibilità. E così sempre più spesso sono gli individui dotati di minori risorse
quelli che rimangono bloccati nella spirale di questi lavori.
Tra le risorse che più appaiono un deterrente contro l‟intrappolamento in queste
occupazioni c‟è sicuramente l‟istruzione, che oggi diviene caratteristica sempre più
decisiva per l‟inserimento lavorativo e lo sviluppo della carriera delle giovani
generazioni. L‟acquisizione di conoscenze e di abilità è però frutto di un processo
sociale che coinvolge quella rete di relazioni familiari e sociali che prende il nome di
capitale sociale (Loury, 1977); senza quindi considerare il network delle relazioni in cui
è inserito un individuo si perderebbe una delle fonti più importanti per l‟acquisizione di
abilità spendibili sul mercato. Il capitale sociale è quindi molto importante perché
consente di adottare il punto di vista epistemologico di un soggetto di azione il quale
tratta le relazioni sociali entro le quali opera come strumenti per il perseguimento dei
propri scopi: “il capitale sociale, costituito dalle relazioni sociali in possesso di un
2 Si vedano, ad esempio: P. Barbieri, Il lavoro a termine nella recente esperienza italiana, in M. Biagi (a
cura di), Il nuovo lavoro a termine, 2002, Milano Giuffrè; P. Barbieri; S. Scherer, Sulle conseguenze
sociali della flessibilizzazione in Italia. Differenze territoriali, fattori strutturali e rischi di esclusione
sociale, 2005, Stato e Mercato n. 74.
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individuo costituisce allora nient‟altro che un insieme di risorse che costui può
utilizzare, assieme ad altre risorse, per meglio perseguire i propri fini” (Pizzorno, 2001:
p. 21). Il capitale sociale è quindi un utile strumento per mostrare i meccanismi che si
generano all‟interno della rete in cui sono inseriti i soggetti.
Ne consegue che è impossibile nella trattazione di un tema come quello dei lavoratori
con partita IVA prescindere dall‟analisi delle reti di relazioni dei lavoratori e di come
queste hanno inciso sui loro percorsi di carriera.
II. La ricerca
1. Gli obiettivi
All‟analisi e allo sviluppo della tematica dei lavoratori con partita IVA sarà dedicato il
presente testo. In particolare il presente elaborato si articolerà in tre distinte sezioni. La
prima parte sarà dedicata alla trattazione delle principali teorie sociologiche sui
lavoratori atipici e autonomi con particolare riferimento ai lavoratori con partita IVA e
alle principali teorie sul capitale sociale. La seconda parte quantitativa sarà invece
dedicata alla prova dell‟esistenza all‟interno dei lavoratori con partita IVA di due
differenti “tipi”: i professionisti autonomi, espressione di professioni auto-
imprenditoriali ad alto contenuto di conoscenza e con un alto grado di autonomia
decisionale sulle modalità e i tempi del proprio lavoro, e i professionisti subordinati,
ovvero quei professionisti che in realtà nascondono forme di lavoro subordinato. Inoltre
s ipotizzerà che la differenza fra i due tipi possa essere efficacemente sintetizzabile a
partire da tre processi (Chiesi, 1997): l‟inclusione nel sistema delle garanzie, di
professionalizzazione e di formazione dell‟imprenditorialità. L‟ultima parte qualitativa
sarà invece rivolta ad analizzare in che modo all‟interno dei due differenti tipi si
sviluppino e si configurino le reti del capitale sociale e in che modo esse hanno inciso
sulle loro carriere.
2. La metodologia
Come gi anticipato, la ricerca affronta il tema dei lavoratori con partita IVA attraverso
un‟analisi quantitativa e qualitativa. In particolare, i dati ai quali si è fatto ricorso per
svolgere le analisi provengono dall‟Indagine Campionaria Nazionale Plus 2005
(Participation, Labour, Unemployment, Survey), progettata dall‟Area “Ricerche sui
sistemi del lavoro” dell‟Isfol; mentre per cogliere meglio gli aspetti soggettivi e le reti
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sociali in cui operano i soggetti sono state effettuate interviste in profondità a quaranta
soggetti residenti a Milano. Il percorso di analisi seguito si articola dunque tra la
dimensione micro dei racconti dei lavoratori e delle loro percezioni, e la dimensione
macro, relativa alle caratteristiche anagrafiche e settoriali dei lavoratori con partita IVA.
La connessione fra questi due livelli emergerà in maniera chiara nello svolgersi della
ricerca.
3. I risultati
Verranno qui richiamati alcuni dei risultati più interessanti emersi durante la ricerca che
hanno il merito di evidenziare elementi originali rispetto all‟attuale dibattito sui
lavoratori con partita IVA.
a) Analisi quantitativa
Per quanto riguarda le caratteristiche anagrafiche, tra i lavoratori con partita IVA appare
esserci una preponderanza maschile, gli uomini infatti sono circa il 77% del campione
Rispetto all‟età, emerge invece che la classe d‟età più numerosa è quella dei trentenni e
quarantenni: la fascia centrale 30-39 anni da sola raccoglie circa il 35% dei casi, mentre
la fascia 40-49 il 30.3%, dato che rimane costante sia nei maschi che nelle femmine.
Analizzando invece le abilità e le capacità in possesso dei lavoratori con partita IVA, le
analisi mostrano inoltre come le competenze sociali del saper essere, ovvero le
esperienze e le abilità sociali che non possono essere disciplinate normativamente, sono
molto utilizzate da questi soggetti: contro quello che ci si aspetterebbe le attività
lavorative di queste persone appaiono ampiamente basate sull‟interazione con altri
lavoratori. È quindi forse da abbandonare l‟immagine dei lavoratori con partita IVA
come individui solitari e autosufficienti nel proprio lavoro.
Anche rispetto al tema dell‟istruzione emergono dall‟analisi elementi interessanti: i dati
mostrano come il livello di coerenza tra titolo di studio e attività svolta cresca al
crescere del titolo di studio stesso. Ciò significa che abilità richieste nel lavoro
quotidiano e le competenze acquisite nel proprio percorso formativo hanno una
corrispondenza in coloro che hanno titoli studio elevati, mentre appaiono assolutamente
dissimili nei soggetti con titoli di studio bassi.
Infine, l‟elemento più importante emerso è forse il tema dell‟autonomia. Dalle analisi
emerge infatti che tra i lavoratori con partita IVA è molto diffusa la monocommittenza:
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hanno infatti hanno un unico cliente 5 uomini su 10 e 6 donne su 10. Ciò significa che
anche nel nostro paese si stanno diffondendo gli indipendenti tradizionali che lavorano
in base ad un contratto di lavoro in cui la subordinazione è essenziale. È dunque
evidente la difficoltà di elaborare un quadro coerente applicabile al lavoro indipendente
(Supiot, 1999). Inoltre il panorama è reso più complesso se accanto al numero dei
committenti viene considerata anche l‟autonomia esecutiva, ovvero il grado di
discrezionalità del lavoratore nell‟organizzare il proprio lavoro, l‟ambito di scelta delle
procedure, il livello di autodeterminazione, la presenza o l‟assenza di interferenze
esterne (A. Chiesi, 1997), goduta dai lavoratori. È quindi possibile creare una variabile
multidimensionale che sia in grado di sintetizzare il grado di libertà “complessivo” del
lavoratore rispetto sia al numero dei committenti, sia all‟autonomia goduta.
Analizzando i dati emerge così che hanno un unico committente i lavoratori con partita
IVA che non hanno alcuna autonomia decisionale sul proprio lavoro sono il 12,5% del
campione. Salendo nel grado di autonomia, secondo i due autori, è possibile assegnare
un livello medio di libertà a coloro che hanno un unico committente, ma decidono in
uno o due ambiti organizzativi; o ancora chi ha più di un committente ma decide solo in
un ambito. In questo modo osserviamo che il 41,9% del campione rientra in questa
categoria. Infine si considera un alto livello di autonomia quello di quei soggetti che
hanno un solo committente e possono decidere su ogni aspetto della loro attività o che
hanno più committenti e possono decidere in due o tre ambiti; essi sono il 45,6% del
campione. Se inoltre si considera il genere, si osserva come gli uomini siano
sistematicamente più autonomi rispetto alle loro colleghe donne. In conclusione si può
quindi affermare che tra i lavoratori con partita IVA ben un ottavo del campione è un
lavoratore dipendente di fatto. Interessante sarebbe a questo punto poter osservare
l‟andamento tendenziale del tempo di questo elemento.
b) Analisi qualitativa
Per quanto riguarda le reti sociali dei lavoratori con partita IVA il merito principale di
questa analisi è quella di aver identificato i vari meccanismi originanti il capitale sociale
e di aver messo in evidenza il suo valore di “risorsa utile”.
Il mercato dei lavoratori con partita IVA è caratterizzato da vari tipi di incertezza e
proprio per questo è stato ipotizzato che necessiti per un buon funzionamento di una
regolazione di tipo sociale. I risultati della ricerca empirica hanno reso più complessa
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l‟ipotesi di partenza e l‟hanno ridefinita in maniera più problematica. In realtà gli
elementi di natura sociale emersi nella ricerca empirica sono molteplici. In primo luogo
la fiducia appare l‟elemento cruciale per mantenere i rapporti con i “vecchi” clienti. La
fiducia infatti “è uno dei meccanismi in base al quale è possibile formulare delle
predizioni sul comportamento altrui” (Bertolini, 2000: p. 97) e rispetto ad altri
meccanismi di natura extra-economica presenta degli indubbi vantaggi: permette di
risparmiare sui costi di controllo e costituisce un vincolo per la persona che ne viene
investita. Le reti di relazioni personali tra lavoratore e datore portano quindi alla
costituzione di risorse che regolano la convivenza e la reciprocità e riducono il rischio
potenziale di opportunismo, sviluppando il capitale sociale dei doveri e delle
aspettative, ovvero quegli obblighi di reciprocità che si creano fra gli individui che
nascono dall‟affidabilità e dalla stabilità dell‟ambiente sociale, il quale a sua volta
permette il generarsi di fiducia fra le persone. Un altro esempio sono i rapporti di
conoscenza e di amicizia sviluppati nella quotidianità dei lavoratori con partita IVA
possono trasformarsi in capitale sociale di interconnaissance e interreconaissance
permettendo loro di implementare il proprio giro di clienti. Un ulteriore caso è quello di
coloro che hanno stretto dei legami con la comunità residente sul proprio posto di
lavoro e sfruttando il potenziale informativo insito nelle relazioni con questi soggetti
hanno ottenuto moltissime nuove committenze. O ancora alcuni soggetti hanno creato
un network di conoscenze che comprenda altri professionisti, che per la loro
interdisciplinarietà possono avere conoscenze in ambiti altrimenti preclusi. Questo
permette loro di presentarsi al meglio per le prove che li attendono e di essere coinvolti
in nuovi progetti attraverso la logica dei reciprocity exchanges. E l‟ultimo caso è quello
delle relazioni di valorizzazione delle immagini che permettono di diffondere
informazioni fino a soggetti molto distanti dalle proprie cerchie di riconoscimento che
non sarebbero altrimenti raggiungibili.
Queste eterogenee forme di capitale possono essere efficacemente ricondotti a tre
differenti “livelli”. Il primo è basato su relazioni di conoscenza diretta: l‟amicizia, i
contatti personali e il passaparola tra conoscenti sono quindi il primo e più semplice
livello di funzionamento delle reti che rintracciamo fra i lavoratori con partita IVA. Il
secondo livello del capitale sociale in uso tra questo gruppo di lavoratori è quello di
natura particolaristica. Il capitale sociale è infatti un bene selettivo che favorisce certi
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gruppi specifici in relazione a determinati scopi. Quindi a questo livello le reti,
attraverso cui circolano le informazioni e l‟affidabilità, aumentano il potere fra i
soggetti coinvolti rispetto ad altri soggetti esterni. È questo il caso di creazione di
legami di fiducia che agevolano la reiterazione del contratto ai danni di coloro che non
sono investiti di tale affidamento o ancora dei soggetti che operano all‟interno della
comunità e che con la loro presenza sul campo hanno un accesso privilegiato alle opere
svolte all‟interno della comunità. L‟ultimo livello è invece attiene non sola alla mera
conoscenza, ma anche alla qualità delle conoscenze stesse. I contatti con altri
professionisti affermati, la conoscenza di persone in posizione strategica o ancora la
frequentazione di cerchie sociali d‟elite permettono a questi lavoratori di ottenere
commesse migliori.
Molto interessante notare che sembra esistere una correlazione fra salario e questi tre
livelli, in particolare al crescere della complessità della rete si assiste anche ad una
crescita nei livelli salariali. Questo quindi va a dimostrare come il capitale sociale ha un
rendimento anche sul piano economico.