2
Appare chiaro quale funzione, assolutamente basilare, svolga la comunicazione
all’interno della vita sociale. A questo punto, come si può definire la comunicazione
di massa? Come un processo di comunicazione diffuso dai mass media, rivolto ad un
numero di destinatari potenzialmente illimitato, in cui il termine massa sta’ ad
indicare “una entità enorme”, mentre il termine comunicazione sta ad indicare
“trasmissione” di informazioni.
Comunicazione di massa non è sinonimo di “mass media”, che, invece, sono le
tecnologie utilizzate per rendere possibile la prima. Tecnologie della comunicazione i
cui usi possono essere di altro tipo oltre a quello di massa, ma i confini tra pubblico e
privato, con la nascita di mezzi sempre nuovi, in questo ambito sono sempre meno
netti.
La stampa è stata il primo (e per molti secoli l’unico) mezzo di comunicazione di
massa. Possiamo considerare la stampa la più antica industria culturale che, grazie al
suo inventore, l’orafo Johann Gutenberg, a partire dalla metà del XV secolo ha
favorito l’esplosione dell’umanità occidentale, diffondendo la cultura a 360º e
innalzando il livello culturale del mondo, dando così inizio all’età della
comunicazione, processo che verrà completato e modificato, dai media elettronici.
Il foglio commerciale è la forma che ha plasmato il quotidiano. Una migliore
tecnologia, l’alfabetizzazione, il commercio, la democrazia, hanno contribuito alla
penetrazione del quotidiano tra la “gente comune”, oltre nella cerchia dell’elitè colta.
Col XIX secolo comincia la grande corsa allo sviluppo delle tecnologie di
comunicazione sempre più nuove, più rapide e in grado di coprire grandi distanze.
L’avvento della radio fornisce un potente contributo alla realizzazione della civiltà di
massa. Non stupisce, pertanto, che alle origini della straordinaria fortuna del
fascismo in Italia, si trovino due fatti concomitanti: da una parte l’assassinio di
Matteotti e le leggi liberticide che mettono fuori legge i partiti politici e aboliscono
la libertà di stampa, e dall’altra l’inizio, in Italia, delle trasmissioni radiofoniche da
parte dell’ente di Stato Eiar. Potente mezzo che contribuisce ad immettere le masse
nella vita politica. Il giornale non è più il principale veicolo delle notizie.
3
L’invenzione del telegrafo e la sua rapida diffusione, seguita da quella del telefono,
ha portato notevoli cambiamenti sociali, modificando la struttura economica,
ampliando la possibilità di accesso alle notizie da parte dell’audience, e ha
contribuito alla creazione della moderna industria dell’informazione e della
pubblicità.
La televisione, invece, produce una serie di conseguenze di tipo sociale ancora in
fase di studio:
1. omologazione di culture e di valori su scala mondiale;
2. aumento del potere manipolatorio di chi possiede il mezzo;
3. la popolarità e la visibilità che la televisione fornisce, lo rendono uno
degli strumenti per conseguire il successo sia di tipo politico che
economico.
Dall’invenzione del telefono e della radio ad oggi, le telecomunicazioni hanno fatto
un grande salto di qualità, vi è, ormai, in tutto il mondo una rete efficiente e
consolidata che fonde insieme i vecchi sistemi a mezzo cavo con le comunicazioni
radio satellitari.
Nascono i media telematici, cosi chiamati perché combinano le telecomunicazioni e
l’informatica, definiti quindi elemento chiave nella comunicazione.
Internet è quella che oggi viene definita l’autostrada dell’informazione o rete delle
reti. E’ stata inizialmente ideata per esigenze di carattere militare. Il ministro della
Difesa degli Stati Uniti, nei primi anni Settanta, decise di realizzare ARPAnet, una
rete capace di comunicare dati anche in caso di una possibile guerra nucleare. Col
passare degli anni, diverse reti locali, appartenenti ad istituzioni di ricerca, si
attaccarono ad ARPAnet creando i primi siti che di seguito furono connessi tramite
linee telefoniche. Ma la distanza notevole rendeva la tariffa troppo alta, per cui
vennero creati i cosiddetti “nodi”.
4
Internet esplode definitivamente nel 1994 con l’apertura delle connessioni ad
aziende, enti privati e cittadini. Ecco la nascita del web, una modalità di connessione
con caratteristiche ipertestuali che hanno reso popolare la rete delle reti.
Può essere considerato, oggi, uno straordinario strumento di comunicazione sociale.
Per cui è opportuno usare le dovute cautele ponendo appropriati controlli. Proprio in
questa direzione, le autorità preposte stanno cercando di muoversi sul piano
normativo a livello internazionale.
E siamo alla guerra e alla comunicazione insieme. Un binomio nato ufficialmente
circa 150 anni fa, ma in realtà esistente, in forme diverse, da sempre. Scopo del mio
lavoro è proprio questo: cercare di descrivere e analizzare questo rapporto cosi lungo,
difficile ma, allo stesso tempo, molto affascinante. In particolar modo, analizzerò il
ruolo del reporter di guerra, personaggio entrato nell’immaginario di tutti diventando
quasi una figura mitologica. Ma quale ruolo riveste esattamente l’inviato?
Le crisi internazionali e le guerre potrebbero essere viste come prodotti di officine
militari-diplomatiche in cui il reporter di guerra si trova a “sbirciare”. L’inviato
potrebbe essere considerato lo storico del presente, ma oggi ha assunto un ruolo
ancora più essenziale. A detta di molti, oggigiorno i conflitti si combattono su due
fronti: la prima linea (ma è giusto parlare ancora di prima linea?) e a livello
mediatico. Più di qualcuno suppone che, addirittura, le guerre si vincano prima di
tutto con i media e poi con le “bombe intelligenti”. Questo perché l’opinione
pubblica ha assunto un ruolo sempre più importante., è diventata l’attore principale.
D’altra parte, l’importanza crescente dell’opinione pubblica si lega ad interrogativi
sull’evoluzione delle democrazie liberali fondate sul principio della rappresentanza,
sulla delega, ma sempre esposte alla pressione popolare. L’opinione pubblica si è
pone, sempre più, come protagonista sulla scena politica mondiale. Alla vigilia
dell’ultima guerra in Iraq, la stampa americana ha affermato che era in atto un
confronto tra due contendenti: Bush e, udite udite, l’opinione pubblica mondiale.
5
Come dice Giorgio Fabretti “non esiste, però, opinione pubblica senza qualcuno o
qualcosa che le dia voce, che la riveli”
2
. Ed è in questo contesto che si inseriscono i
“media” e i giornalisti che rappresentano gli eventi. Sono i media a formare
l’opinione pubblica, a darle, quantomeno, evidenza. L’informazione è ambivalente:
da un lato può condizionare, orientare le opinioni ma al tempo stesso sono una
risorsa per conoscere, comprendere. L’opinione pubblica è diventata l’altra potenza
in campo e i primi ad essersene accorti sono proprio i “signori della guerra”, che
quando fanno una cosa la fanno con un occhio ai sondaggi. Quindi, nei conflitti
odierni grande rilevanza rivestono i media, che dovrebbero, seguendo l’etica e la
deontologia giornalistica, non schierarsi o mobilitarsi, come è avvenuto, invece, in
diversi casi. Il compito del giornalista è quello di riportare i fatti, raccontare cosa
accade. L’esempio più eclatante di informazione al servizio è quella degli
“embedded”, i giornalisti in divisa al seguito delle truppe militari nell’ultima guerra
in Iraq. Quella degli “embedded” potremmo considerarla una vera e propria strategia
militare, un’arma utilizzata per condizionare l’informazione.
Ritornando al reporter, durante i conflitti ha uno status effettivo equivalente a quello
di un bambino curioso e fastidioso per qualcuno, a cui i grandi dicono “lasciaci
lavorare”. “Dire tutta la verità” è la formula del giuramento del giornalista : un
giuramento quasi impossibile, a meno che non si limiti a riferire solo quello che
vede. Ma non va sempre cosi. Il reporter vive tra mille contraddizioni esistenziali che
lo logorano: essere per la pace e seguire la guerra, voler aiutare e vedere morire e non
poter far niente, anzi provando il sollievo di essere vivi, essere curioso e spesso
dover ignorare, riferire solo versioni senza poterle analizzare alla luce dei fatti, voler
approfondire ed essere costretti alla superficialità o alla velocità dell’attualità.
La tesi, quindi, è stata cosi concepita: i primi due capitoli li definirei di
“ricostruzione storica”. In queste pagine ho provato a ripercorrere un secolo e mezzo
di guerre che hanno avuto risalto sui mezzi di comunicazione di massa.
2
Giorgio Fabretti “Il reporter di guerra: un testimone scomodo”, www.flipnews.org
6
Ma la mia attenzione non si è soffermata sui conflitti in sé, quanto sulle difficoltà dei
giornalisti a raccontarli. Ho cercato di seguire la linea evolutiva del giornalismo di
guerra attraverso le storie dei protagonisti, attraverso alcuni aneddoti simpatici o
crudeli, e con l’aiuto delle dichiarazioni di alcuni personaggi del mondo dei media.
Questo percorso, lungo 150 anni, ho deciso di suddividerlo in due capitoli, per una
ragione semplice: il Vietnam, con l’arrivo della televisione, ha segnato uno
spartiacque per l’informazione di guerra e l’inviato. Dal Vietnam in poi, le regole
verranno riscritte, un’era si chiuderà e se ne aprirà una completamente nuova e
diversa dalla precedente. Lo stile del racconto muterà, ma non solo. Il mestiere del
reporter di guerra subirà un’accelerazione in tutti i sensi, l’irlandese Russell,
capostipite della generazione, andrà definitivamente in pensione e si inizierà a fare
posto ai cyber-reporter. Quindi, il primo capitolo comincia dalle origini fino ad
arrivare alla II guerra mondiale, mentre il successivo ha inizio dal Vietnam e termina
ai giorni nostri, fino all’odierna guerra al terrorismo.
Il terzo capitolo è dedicato interamente alla figura del reporter di guerra. Il mio
proposito è quello di analizzare e spiegare l’evoluzione di questo mestiere. Ma non
solo. Infatti, attraverso le testimonianze raccolte direttamente dal sottoscritto, con
l’aiuto di alcune interviste ad inviati di guerra di un certo calibro, proverò a
raccontare come vive il giornalista “catapultato” in zone calde, come si muove, quali
sono i suoi “salvavita”, come riesce a raccogliere informazioni utili e ad evitare,
invece, le trappole della censura per non trasformarsi nell’arma della
disinformazione. Largo spazio sarà dato anche ai rischi del mestiere e alle sue dure
conseguenze. Il capitolo si chiuderà con una riflessione sul futuro di questo lavoro.
Prima di arrivare a parlare di televisione, ho ritenuto giusto ricordare l’importanza
della fotografia e del fotoreporter nell’informazione di guerra, dedicandogli il quarto
capitolo. Potremmo dire che la foto ha dato avvio alla società dell’immagine. Il suo
contributo è stato fondamentale, senza le foto forse conosceremmo la storia a metà.
Ovviamente non si può parlare di fotografia di guerra senza ricordare l’inarrivabile
Robert Capa, riconosciuto da tutti come il più grande. Qualcuno per caso non ha
presente la foto del miliziano scattata in Spagna? Suppongo di no.
7
Ed eccoci alla televisione e al penultimo capitolo. Parlare di tv non è mai facile,
illustri professionisti ci provano da decenni e, oramai, le teorie si susseguono e
sovrappongono una all’altra. Figuriamoci parlare di guerra in televisione. Il compito
è ingrato ma allo stesso tempo ricco di soddisfazioni ed intrigante. La televisione ha
cambiato il modo di combattere. Senza la tv la guerra sarebbe diversa. Oggi, c’è
quasi una commistione tra le strategie militari e quelle televisive, sono nate delle
vere proprie sinergie. La strategia mediatica è entrata a fare parte integrante della
pianificazione della campagna militare. La guerra si è trasformata in “media event”,
un nuovo “programma” del genere della neo-televisione, dell’infotainment. Le
telecamere sono diventate l’arma più adatta a creare consenso. Come asserisce Ennio
Remondino “la televisione non ha certo inventato la guerra, ma ne è diventata la
sublimazione, lo strumento indispensabile per confermare o distruggere le ragioni
stesse di un conflitto….”
3
Questi e tanti altri i temi affrontati nel quinto capitolo, dove ho dato anche largo
spazio all’analisi di due network che si sono affacciati prepotentemente sul
palcoscenico internazionale: Al-Jazeera e Fox News, una emittente del Qatar e l’altra
del magnate australiano Murdoch. Due network che, come vedremo, intendono il
giornalismo in maniera differente, e hanno un approccio alla news completamente
opposto. Ovviamente parlando di tv non si poteva non toccare l’argomento Cnn, la
madre di tutte le “all-news”.
Infine, nel sesto capitolo sono raccolte le interviste che personalmente ho effettuato
ad alcuni dei migliori inviati di guerra italiani. Altre avrei voluto realizzarne per dare
ancora più forza alle mie tesi e avere dei prestigiosi contributi. Ma, credetemi,
“pedinare” questa gente è più difficile che vincere la lotteria. Dopotutto il loro
mestiere li porta a non stare mai fermi, e quindi ringrazio tutti, sia coloro che mi
hanno concesso dieci minuti del loro prezioso tempo, ma anche chi, nonostante la
buona volontà, proprio non ce l’ha fatta. Grazie lo stesso. Per me è stata una
esperienza unica, e ascoltare le loro parole e i loro racconti una bella emozione.
3
Ennio Remondino “La televisione va alla guerra”, S&K Editori
8
Emozioni che spero di trasmettere anche a chi leggerà questo mio lavoro, che mi
auguro risulti coinvolgente.
Questo, brevemente, è il succo della tesi che va a suggellare cinque anni di studio.
Anzi direi diciotto. Fare una introduzione riassuntiva di 200 pagine di lavoro è più
difficile che a scriverle. Solo due ultime cose vorrei sottolineare.
La prima è che non ho la presunzione di spiegare o svelare quello che non riescono a
fare gli esperti e i professionisti del mestiere. Anzi, il mio lavoro è stato realizzato
grazie al loro contributo, anche se, naturalmente, ho cercato di mettere un po’ di
farina del mio sacco, e qualche mio pensiero a riguardo. Spero quindi di non
sembrarvi troppo presuntuoso nell’affermare alcune tesi che non vogliono essere
delle verità in assoluto. Sono solo le mie e sono pronto a metterle in discussione.
La seconda sottolineatura è più personale, ma ci tengo a renderla pubblica: la scelta
del tema da affrontare a conclusione del mio ciclo di studi universitari è avvenuta
tanti anni fa, in pratica al terzo superiore, quando ho deciso che da grande avrei
voluto fare il giornalista, e in particolar modo l’inviato di guerra. La motivazione che
mi ha spinto ad affrontare questo argomento cosi intrigante e affascinante è solo
questa: amo il mondo del giornalismo, voglio diventare un giornalista e ho studiato
per questo. Di conseguenza mi sembrava giusto concludere questo breve, ma intenso
quanto soddisfacente periodo della mia vita in questa maniera.
9
I CAPITOLO
“In tempo di guerra la verità è così preziosa che
bisogna proteggerla con una cortina di bugie”.
Winston Churchil
1.1 Russell il “pioniere”
La guerra, da Omero in poi, è stata sicuramente uno degli argomenti più narrati. La
lunga storia tra informazione e guerra ha radici profonde ed è convenzione darle
natività nel 1854. Il capostipite dei reporter di guerra sembra debba essere
considerato Bill Russell, giornalista del quotidiano inglese “Times”, che nel 1854 fu
inviato in Crimea per seguire le sorti della guerra che vedeva contrapposti, da circa
un anno, la Russia ad una coalizione di stati formata da Gran Bretagna, Francia,
Impero Ottomano e Regno di Sardegna. Fino ad allora le notizie erano pervenute dal
fronte solo grazie ai servizi di alcuni ufficiali incaricati dall’Autorità militare. Tutti
gli eserciti hanno sempre avuto qualcuno al loro seguito che si occupava di
raccontare, per il re, per i generali, per un pubblico, le gesta di guerra. Erano
resoconti pieni di retorica e di verità di comodo. Invece, Russell raccontò i corpi
straziati dalle granate, le urla dei feriti, il caos della prima linea, gli errori strategici
dei generali. Fece, insomma, il cronista. Il piccolo irlandese è considerato il
pioniere, e a lui è, addirittura, dedicata una statua di bronzo nella cattedrale londinese
di St. Paul, con una targa che ricorda come sia “stato il primo e il più grande”
4
.
Anche se è giusto ricordare come sulla genealogia dei corrispondenti circolino una
varietà di leggende. Molti accademici amano collocare le radici di questa figura
4
Mimmo Candito “I reporter di guerra”, Baldini&Castoldi pag 219
10
giornalistica nell’Anabasi di Senofonte, qualcuno attribuisce a Giulio Cesare
l’invenzione del racconto in presa diretta dal campo di battaglia. Ma entrambi erano
uomini d’arme prima che di penna. Lo storico Raymond Sibbad, invece, afferma che
il primo reporter da considerare sia il cavaliere Jean de Warin che, presente nel 1415
alla battaglia di Agincourt con il duca di Orlèans, ne raccontò le fasi più
drammatiche. Cronache asciutte, concrete, efficaci che avrebbero potuto firmare lo
stesso Russell o Crabb Robinson. Quest’ultimo inviò, agli inizi del 1800,
corrispondenze dalla campagna napoleonica contro la Prussica dove fu inviato dal
direttore del “Times”, John Walter. In realtà Robinson, in quella avventura, inaugurò
la lista dei reporter che, ancora oggi, scrivono di guerre dalla stanza di un hotel
lontani dal fronte
5
. Infatti, il suo lavoro non fu affatto una corrispondenza dalla prima
linea, ma si limitò ad un resoconto scarno e piatto elaborato grazie alle testimonianze
di chi in quella battaglia c’era stato davvero. Ma a parte questa genealogia un po’
controversa, oramai è prassi considerare capostipite l’irlandese di Dublino, titolo
conquistato con merito grazie alla cronaca del 14 novembre 1854, nella quale
raccontò il disastro della battaglia della Brigata Leggera: i cavalleggeri inglesi che si
lanciavano verso la morte, in quel impossibile assalto contro le linee russe. In
quell’ultimo galoppo tramontava anche l’epoca romantica delle sciabole per fare
posto al rombo dei cannoni. Russell fu testimone privilegiato e cronista superbo. Le
sue parole consegnarono alla storia la nascita della guerra moderna ed è giusto
ricordarle:
“Alle undici e dieci la nostra brigata di cavalleria leggera avanzò trionfante nel
sole del mattino, fiera in tutto il suo bellico fulgore. Dalla distanza che non era
nemmeno di un miglio, l’intero schieramento nemico vomitò da trenta bocche di
fuoco un inferno di fumo e di fiamme. Il punto d’arrivo dei colpi fu segnato da vuoti
improvvisi che si aprivano nelle nostre fila, da uomini e cavalli morti, dai destrieri
senza più cavaliere che galoppavano nella pianura. A ranghi ormai ridotti, con una
5
Mimmo Candito “I reporter di guerra”, Baldini&Castoldi pag 225
11
nube d’acciaio sulla testa dei nostri uomini e levando alto un grido che per molti di
questi generosi era anche l’ultimo appello della morte, i cavalleggeri si lanciarono
dentro le nuvole di fumo; ma prima ancora che si perdessero alla nostra vista, la
pianura era punteggiata dei loro corpi. Alle undici e trentacinque, non un soldato
inglese restava davanti alla bocca dei sanguinari cannoni moscoviti. Soltanto i morti
e i moribondi”
6
.
Le denunce di Russell furono molto efficaci e pungenti: fecero sostituire il
comandante in capo del corpo di spedizione e aprirono la crisi di governo. Nel suo
lavoro fu aiutato dal telegrafo elettrico, quello di Morse, messo a punto nel 1837 e
impiegato sistematicamente per la prima volta. Con questa nuova invenzione si
inaugurò una stagione del tutto nuova per l’informazione: le notizie potevano
spostarsi molto più rapidamente delle persone. Russell per perlustrare la zona dietro
la prima linea si comperò un cavallo. Il contatto con i soldati era difficile, ovunque il
giornalista era respinto dagli ufficiali. Era la prima volta che la retorica delle armi
veniva attaccata con forte spirito critico, e la censura cerco di limitare i danni. Le
notizie che si leggevano sulle pagine del “Times” erano solo un piccolo estratto di
quanto andava scrivendo Russell. Larga parte delle sue corrispondenze restava,
infatti, segreta e sottaciuta. L’ordine di servizio di sir Codrington, comandante in
capo della spedizione britannica, era in sovvertibile: “divieto di pubblicazione per
ogni notizia utile al nemico”.
Quel lontano giorno del febbraio 1856 si creò un precedente immodificabile. Le
istituzioni militari e politiche hanno sempre cercato di servirsi del potere dei media
per organizzare il consenso dell’opinione pubblica. Il tentativo è stato praticato
sempre con ogni spregiudicatezza fino all’utilizzo strumentale dell’“interesse
nazionale”. Russell fu il primo anche in questo. Ma non l’ultimo. E difficili furono i
rapporti con i comandi militari. Il povero irlandese riuscì ad avere ben poco dai
comandanti del corpo di spedizione che, anzi, lo evitavano come un appestato, lo
6
Mimmo Candito “I reporter di guerra”, Baldini&Castoldi pag 221
12
disprezzavano e lo ritenevano un “traditore”
7
. Alcuni ufficiali volevano sfidarlo a
duello, molti altri gli chiedevano bruscamente di allontanarsi dalla loro presenza. Fu
il primo ad essere appellato con il termine “scribacchino”, il primo di “questi nuovi
figurini inventati ora in appendice agli eserciti, che mangiano a sbafo le razioni dei
soldati e nemmeno sanno che cosa sia il lavoro”, come lo definì sir Carnet Wolseley
nel 1869
8
. Ma Russell ebbe il fegato di restare, e alla fine le sue cronache incisero
sulla conduzione delle operazioni militari, dandogli la fama che meritava. Fu
testimone di una realtà critica e ne raccontò ogni risvolto, non essendo ne uno
stratega ne un esperto militare. Il capostipite andava in giro a cercare storie, ad
interrogare i feriti e i reduci dal fronte, ricavandone, spesso, informazioni
contraddittorie. Fu accusato di avere svelato al nemico, tramite i suoi articoli,
elementi essenziali del dispositivo militare. Per screditare il suo lavoro fu incaricato
un famoso fotografo, Roger Fenton, di preparare foto-reportage che testimoniassero
l’eccellente situazione della truppa. Oramai da vent’anni la foto era comunemente
utilizzata nella ritrattistica e nell’illustrazione. Fenton, che pure in una lettera
riservata rivelò di aver visto scene terrificanti, svolse “bene” il suo lavoro, tanto che
alla fine l’opinione pubblica ebbe l’impressione di “una guerra come un picnic”. Ma
le cronache di Russell erano riuscite in quello che mai nessuna cronaca di guerra:
raccontare la verità e fare breccia tra la popolazione. Proprio per questo motivo, nel
febbraio del 1856, il governo britannico decise di mettere fine al libero esercizio del
giornalismo. Un decreto rese obbligatorio l’accreditamento da parte delle autorità
militari. Era l’embrione del giornalista-embedded. Dalla guerra in Crimea è prassi
universale che i giornalisti che seguono un esercito facciano legalmente parte di
quell’entourage. Se vengono catturati dalle forze nemiche devono essere trattati
come prigionieri di guerra. La Convenzione di Ginevra del 1949 stabilisce che i
corrispondenti di guerra devono essere equiparati “ai membri civili degli equipaggi
degli aerei militari” e “a tutti i partecipanti effettivi seppure senza divisa,
dell’impresa militare. I giornalisti possono essere fermati solo per imperative
7
Mimmo Candito “I reporter di guerra”, Baldini&Castoldi
8
Ibid.
13
ragioni di sicurezza. Appunti e fotografie possono essere sequestrate dal personale
militare”
9
. Le disposizioni della Convenzione erano concepite per i corrispondenti
accreditati ed in uniforme. Pur non essendo un soldato, quel tipo di reporter svolgeva
un ruolo ufficialmente riconosciuto all’interno di una forza militare organizzata. Nel
1977 fu aggiunto un protocollo in cui si affermava che le protezioni riconosciute ai
giornalisti in base alla convenzione di Ginevra “potrebbero non essere applicate se il
loro abbigliamento è troppo simile a quello del personale combattente. L’articolo 79
prevede, tutt’ora, una carta d’identità rilasciata dal governo che attesti lo status di
giornalista
10
. Prima il reporter era protetto perché equiparato al soldato. Ora si cerca
di proteggerlo distinguendolo dai militari.
9
Giorgio Fabretti “Il reporter di guerra:un testimone scomodo”, www.flipnews.org
10
Ibid.
14
1.2 La corsa al telegrafo
Con Russell iniziava una storia, ma non era il solo protagonista. Grazie alle sue
cronache i quotidiani registrarono un forte incremento delle vendite e questo
convinse altri editori a seguire la stessa strada del “Times”. Iniziò una vera e propria
gara di emulazione tra i giornali, gara tuttora aperta.
Fu il telegrafo il protagonista incontrastato dell’informazione durante la guerra
civile americana. Questa fantastica invenzione cambiò il mondo, lo restrinse, lo
rimpicciolì, accorciò le distanze. E cambiò anche il mondo dell’informazione. Siamo
alla prima vera svolta che ha costretto il reporter ad “aggiornarsi”, ad adeguarsi a
nuovi modi e tempi. Ora una notizia poteva essere pubblicata entro 24 ore in ogni
angolo del pianeta e questo imponeva di mettere via la vecchia mentalità, gli
atteggiamenti consolidati, i ritmi di lavoro, la ricerca delle fonti e anche il modo di
scrivere. Per uno come Russell adattarsi alle nuove tecniche non fu impresa facile. Il
patriarca era abituato a scrivere senza fretta, con tranquillità, dopo averci riflettuto a
lungo. Ora, invece, bisognava stringere i tempi, senza avere nemmeno il tempo di
riflettere, di ragionare. Il mondo era cambiato davvero. Il telegrafo bruciava il tempo
e imponeva notizie, fatti e uno stile diretto, senza troppi fronzoli.
Intorno al 1860 negli Stati dell’est del continente americano c’erano quasi
ottantamila chilometri di linee telegrafiche. Gli oltre 500 inviati al seguito della
guerra civile americana fecero a gara per sistemarsi nelle vicinanze delle stazioni
telegrafiche. Quest’oggetto della tecnologia era diventato così importante che i
redattori furono scelti in base alla loro capacità di usare i tasti e i segnali del nuovo
mezzo di comunicazione
11
. Fu un periodo di grande espansione per la carta stampata
americana. La guerra “tirava”, e ancora oggi è cosi. L’informazione sui giornali del
Sud era solo ufficiale: i cronisti erano tutti graduati dell’esercito del generale Lee. Al
Nord si instaurò, invece, tra i reporter una concorrenza spietata. Il telegrafo e il suo
uso erano oggetti di contesa.
11
Claudio Fracassi “Bugie di guerra”, Mursia
15
C’era una vera e propria gara a chi per primo riusciva a impadronirsi della linea. E’
entrato nella leggenda il memorabile racconto che vede protagonista Josep Howard,
inviato del “New York Times”. Si narra che quest’ultimo dopo avere trasmesso per
benino il suo pezzo al giornale, si mise a dettare tutta la genealogia di Gesù pur di
impedire ai concorrenti di prendere la linea. Gli altri inviati superarono, così, la dead-
line e il “New York Times” poté uscire con la notizia in esclusiva
12
. Naturalmente,
anche in questa guerra non mancò di entrare in funzione la censura, e con essa la
manipolazione dell’informazione. La censura militare fu introdotta nel 1861
13
. Gli
editori contrari alla guerra rischiavano di andare in galera senza apparente
motivazione. Il generale nordista, William Sherman, fu bloccato da Lincoln proprio
mentre stava per giustiziare un reporter del “Tribune” accusato di spionaggio. Gli
Stati Uniti erano, comunque, il Paese in cui più liberamente e aspramente veniva
esercitato il diritto di critica e d’indipendenza dal potere. Lincoln, addirittura, dai
giornali “non amici” fu definito come un “mostro” o come un “babbuino”. Furono gli
anni contrassegnati dall’espansione coloniale e, allo stesso tempo, dalla travolgente
estensione dei cavi telegrafici terrestri e sottomarini. Il giornalismo poté seguire
passo dopo passo tutte le fasi della guerra, anticipando spesso anche le conquiste
militari. Nel 1866 fu inaugurato il primo collegamento telegrafico intercontinentale
tra Stati Uniti e Inghilterra. Trionfo militare e rapidità informativa si presentavano
come l’accoppiata vincente. Il giornale che avesse raccontato prima e con maggiore
dovizia di particolari una battaglia avrebbe venduto di più e bruciato i rivali. Le
regole del mercato iniziarono a condizionare pesantemente quelle del racconto di
guerra. La velocità iniziò a fare da padrone, ma non solo nel raggiungere i punti caldi
dei conflitti. Anche trasmettere alla direzione le notizie diventava uno dei cardini su
cui si fondava l’efficacia del racconto di guerra.
Un ruolo di rilievo, durante questa guerra di metà Ottocento, lo ricoprirono le
agenzie di stampa. Quella che si organizzò meglio fu l’Associated Press (Ap), che si
impiantò tra i due fronti in lotta. L’Ap scelse il proprio staff non tra gente abile a
12
Mimmo Candito “I reporter di guerra”, Baldini&Castoldi
13
Giorgio Fabretti “Il reporter di guerra: un testimone scomodo”, www.flipnews.org