1
Introduzione
Soggetto della ricerca
Mai chiamarle “borgate” di fronte agli assessori, ricordarsi che
sono “periferie”. Ti impongono anticamere moderate, sono affabili,
si scusano: illustrano con legittimo orgoglio le realizzazioni
raggiunte, mascherano le diffidenze, reclamizzano i risultati di
integrazione. […] La parola “borgata” ritorna, sulla bocca dei suoi
abitanti […]: “so’ tanti che vengono a fa ricerche sulle borgate, e
io je dico sempre famo a cambio… si volete capì qualcosa delle
borgate, ce venite a stà du’ anni e io me trasferisco a casa vostra”
1
Ciò che lega Torino alle sue periferie di edilizia pubblica è un rapporto complesso. Descritte
come luoghi difficili, cartine di tornasole dei contrasti sociali della città, in esse si leggono
tutte le potenzialità e le contraddizioni del vorticoso sviluppo del miracolo economico. Ispirate
da utopie politiche e innovativi prototipi di welfare, rappresentano oggi vivi
“monumenti/documenti” dell’architettura e dell’urbanistica italiana del Novecento
2
. Tuttavia,
paradossalmente, tra tutte le realtà che compongono il mosaico urbano, la storia di questi
quartieri è la meno conosciuta. In gran parte sviluppatesi nell’ambito di studi di taglio
architettonico dedicati all’intera città, le analisi si caratterizzano per un certo livello di
approssimazione
3
. Una superficialità conoscitiva che ha influito non poco alla nascita e alla
sedimentazione di tenaci luoghi comuni sviluppatesi in un reciproco gioco di riflessi tra
stereotipi, cronaca e memoria collettiva. Questi interventi urbanistici, non avendo raggiunto
pienamente gli obiettivi per cui sono nati, sono caduti spesso nel vicolo cieco
dell’identificazione negativa in un «circolo vizioso tra marginalità sociale, visibilità del
disagio e ostilità del resto della città»
4
. Raccontare Torino a partire dalle sue periferie, infatti,
obbliga ad incunearsi nelle molteplici contraddizioni vissute sulla pelle di quegli inquilini che
1
W. Siti, Il contagio, Mondadori, Milano 2010.
2
Riprendo questa chiave di lettura da: P. Di Biagi, La città pubblica e l’INA Casa, in La grande ricostruzione: il
piano INA Casa e l'Italia degli anni ‘50, a cura di P. Di Biagi, Donzelli, Roma, 2001, p. 28.
3
Mi riferisco, in particolare, alle guide sull’architettura torinese. Per un esempio si veda: G. Mezzalama,
Quartiere Le Vallette, case ad appartamenti INA-Casa, in M. A. Giusti, R. Tamborrino, Guida all’Architettura
del Novecento in Piemonte (1902-2006), Umberto Allemandi & C., Torino 2008, pp. 299-300.
4
F. Zajczyk, B. Borlini, F. Memo, S. Mugnano, Milano. Quartieri periferici tra incertezza e trasformazione,
Mondadori, Milano 2005, p. 25.
2
le hanno e ancora oggi le abitano: dagli errori di progettazione, alle speculazioni successive,
fino alla concentrazione di fragilità sociali. Ciò nonostante, leggere queste realtà solo con una
chiave di lettura del disagio è limitante. Ponendo l’attenzione sui singoli vissuti emergono, al
contrario, percorsi sociali più eterogenei che ci obbligano a riconoscere la complessità che
caratterizza questi luoghi. Una complessità che può essere valorizzata e compresa con un
approccio d’analisi capace di coniugare in un’unica prospettiva la storia urbana con quella
politica e sociale
5
. Una dimensione interdisciplinare che permetta, finalmente, di emancipare
la storiografia urbana italiana dalla «storia del costruito, dello spazio fisico»
6
per poter
approfondire anche le caratteristiche sociali, le condizioni di vita, le culture materiali, le forme
di socialità.
Negli ultimi anni innovative ricerche si sono mosse lungo questa direttrice, adottando quadri
analitici più ampi ma, a differenza di altri contesti come Roma
7
e l’area milanese
8
, per la
maggioranza dei quartieri torinesi una profonda ricostruzione e studio critico è ancora da
avviare
9
. In realtà, allargando lo sguardo, è una carenza che caratterizza l’intero panorama
degli studi sociali sulla Torino del miracolo economico. Ad esclusione di un limitato gruppo
di ricerche capitanate dal “classico” di Goffredo Fofi sull’immigrazione meridionale del
1964
10
, sappiamo ancora troppo poco, come denuncia Fabio Levi, dell’«esistenza concreta
degli uomini e donne, diretti protagonisti dello sforzo produttivo e del cambiamento sociale»
11
di quell’importante stagione storica. Il miracolo economico rappresenta una violenta cesura
nella storia cittadina e nazionale. Muta radicalmente il «modo di produrre e di consumare, di
pensare e di sognare, di vivere il presente e di progettare il futuro»
12
. Si afferma il capitalismo
fordista, mentre l’agricoltura perde la sua centralità. Allo sviluppo del settore industriale si
affianca quello del terziario dei servizi, in un’espansione sempre più rapida della società dei
consumi e di un benessere diffuso, seppur non generalizzato. Si alterano le geografie umane e
sociali: lembi del paese poco comunicanti si scoprono più vicini e accessibili. Gli imponenti
5
Un esempio per un approccio interdisciplinare alla storia urbana si rimanda a: L. Villani, Le borgate del
Fascismo. Storia urbana, politica e sociale della periferia romana, Ledizioni, Milano 2012.
6
C. Calabi, La storia urbana in Italia, consultazione sul sito: http://www.storiaurbana.it, citato in L. Villani, Le
borgate del Fascismo cit., p. 13.
7
Cfr. A. Sotgia, INA Casa Tuscolano: biografia di un quartiere romano, Franco Angeli, Milano 2010.
8
Cfr. F. Cumoli, Un tetto a chi lavora. Mondi operai e migrazioni italiane nell’Europa degli anni Cinquanta,
Guerini e associati, Milano 2012; J. Foot, Il boom dal basso: famiglia, trasformazione sociale, lavoro, tempo
libero e sviluppo alla Bovisa e alla Comasina (Milano). 1950-1970, in Tra fabbrica e società: mondi operai
nell'Italia del Novecento, a cura di S. Musso, Feltrinelli, Milano 1999, pp. 617-650.
9
Lo stesso giudizio in: P. Di Biagi, La città pubblica. Edilizia sociale e riqualificazione urbana a Torino,
Umberto Allemandi & C., Torino 2008.
10
Cfr. G. Fofi, L’immigrazione meridionale, Feltrinelli, Milano 1975 (seconda edizione).
11
F. Levi, Introduzione, in La città e lo sviluppo. Crescita e disordine a Torino. 1945-1970, a cura di F. Levi, B.
Maida, Franco Angeli, Milano 2002, p. 10.
12
G. Crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni tra anni Cinquanta e Sessanta,
Donzelli, Roma 2005, p. VII.
3
flussi migratori interni trasformano il volto dell’Italia e, in particolare, quello delle grandi città
settentrionali come Torino, le mete principali dell’esodo. Tra il 1952 e il 1962 sono più di
cinquecentomila gli individui che si spostano nel capoluogo piemontese
13
. Nonostante le
dimensioni, conosciamo ancora troppo superficialmente le modalità, gli indirizzi e gli effetti
del boom sulla città, intesa come spazio territoriale, economico e sociale.
Nelle analisi di questa stagione storica, prevale la rappresentazione di uno sviluppo mal
governato: il modello di integrazione sociale che si afferma si rileva carente sul piano dei
valori collettivi
14
. Lo Stato se da un lato riesce a favorire lo sviluppo economico, dall’altro
fallisce nella gestione delle sue conseguenze e dei costi sociali. Ai valori di cittadinanza e di
educazione civica, le singole famiglie trovano un’alternativa nei nuovi modelli più
individualistici della società consumistica. I consumi privati opulenti s’impongono,
confermando quella tendenza storica delle singole famiglie italiane di poter contare solo su se
stesse per raggiungere condizioni di vita migliori. A livello sociale, il boom rappresenta una
fase di grande trasformazione per l’istituzione famigliare. Le dimensioni medie si riducono
(dai 4 membri del 1951 ai 3,3 del 1971) e si afferma sempre più il modello nucleare e
monofamigliare, mentre declina la famiglia estesa
15
. Tuttavia, presumibilmente, le
trasformazioni più pervasive non riguardano la struttura ma il ruolo e l’azione dell’istituzione
famigliare all’interno del contesto sociale e istituzionale. Mi riferisco, in particolare,
all’evoluzione degli schemi di socialità delle classi popolari urbane e l’affermarsi del modello
di famiglia coniugale intima
16
. Sembra affermarsi, infatti, un modello che si qualifica per
essere “centrato sulla casa”
17
. I nuclei sembrano privatizzarsi, rinchiudendosi su se stessi e
13
Cfr. S. Musso, Il lungo miracolo economico. Industria, economia e società (1950-1970), in Storia di Torino.
Gli anni della Repubblica, a cura di N. Tranfaglia, vol. IX, Einaudi, Torino 1999, p. 54.
14
P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943-1988, vol. II, Einaudi, Torino 1989.
15
Ibid., p. 330.
16
Si è scelto di utilizzare “classi popolari urbane” al posto di “classe operaia” perché è un concetto più elastico e
onnicomprensivo di soggettività sociali come quelle delle donne e dei giovani. Concentrandosi su un ambito
lontano dalla dimensione produttiva della “fabbrica”, si sono studiati non solo famiglie specificatamente operaie
ma anche dipendenti pubblici o appartenenti al terziario urbano più marginale non sempre riconducibile alla
classe operaia tout court. Questa definizione “allargata” permette di non incorrere nel pericolo di applicare
categorie sociali anacronistiche che non sono condivise dai diversi gruppi analizzati. L’intento è far emergere il
“linguaggio” utilizzato e compreso dagli attori sociali secondo una lettura emic per quanto possibile “interna”. S.
Cerutti, Mestieri e privilegi. Nascita delle corporazioni a Torino (secoli XVII - XVIII), Einaudi, Torino 1992; M.
Spanò, Stranieri in pratica. Un’intervista con Simona Cerutti, in «Trickster. Rivista del Master in studi
culturali», La violenza dello straniero, n. 10, rivista on line, consultazione 18 febbraio 2013, sul sito:
http://trickster.lettere.unipd.it
17
Per questa definizione italianizzo l’espressione inglese home-centered family. Come rileva Goldthorpe, i
modelli di famiglia “centrata sulla casa” e “centrata sulla strada” sono strumenti d’analisi sociologica, non
storica. Il loro uso non implica, infatti, in alcun modo che in un determinato periodo storico tutti i membri delle
classi popolari urbane seguano un unico modello. Inoltre il passaggio da una tipologia famigliare all’altra non è
una transizione monodirezionale. A seguito di determinati fenomeni le tendenze in atto possono capovolgersi.
Cfr. J. H. Goldthorpe. G. Romagnoli, L. Trevisan, Classe operaia e società opulenta, Franco Angeli, Milano
1973, p. 258.
4
dimostrando una minore apertura a forme di vita comunitaria e di solidarietà intrafamigliare.
Le relazioni e le attività interne al nucleo ristretto, composto dalla coppia dei coniugi più i
figli, assumono una preminenza esclusiva a discapito dei rapporti e le attività svolte
all’esterno. A conferma di un processo già concluso si possono citare le parole di Bagnasco
che descrivono la popolazione torinese degli anni Ottanta:
La popolazione torinese, in tutte le categorie sociali, […] appare domestico centrica. Ciò risulta
evidente anche nelle pratiche del tempo libero, per le quali si nota pure una netta prevalenza di
attività a basso grado di organizzazione […] (televisione, scambio di visite). […] in generale, la
socialità praticata gravita intorno al nucleo domestico, e comprende specialmente incontri e
frequentazioni con parenti e amici
18
.
Questo schema si sostituisce gradualmente a quello preponderante nella prima metà del
secolo in questi gruppi sociali dove è predominante, invece, la famiglia “centrata sulla
strada”. I nuclei famigliari non sono privatizzati ma dimostrano una piena integrazione
comunitaria nel quartiere di residenza con una socialità effervescente. Le attività congiunte e
l’intimità tra i famigliari sono ridotte perché domina la dimensione esterna: dalla strada dove
si concentrano le relazioni dei figli, al vicinato delle donne, fino all’osteria e il luogo di
lavoro per gli uomini
19
. Questo passaggio non si realizza esclusivamente in ambito italiano,
ma sembra delinearsi con tratti comuni in tutto l’Occidente dei Trente Glorieuses. Proprio
dall’estero, e in particolare dalla scuola di antropologia sociale britannica, sono pervenute le
più interessanti analisi sul tema
20
. Queste ricerche, che hanno raggiunto risultati di grande
spessore tanto da diventare vere e proprie pietre miliari della sociologia a livello mondiale,
hanno tentato di spiegare la genesi di questa nuova forma famigliare e individuarne i fattori
scatenanti, provando a chiarire il perché si affermi in questa particolare contingenza storica.
In Italia, in netta controtendenza, questo tema appare accendere un fievole interesse da parte
dei ricercatori che si occupano della storia della famiglia contemporanea. Di conseguenza, il
dibattito non sembra essere mai decollato anche perché questo ambito di indagine è rimasto
18
A. Bagnasco, Torino. Un profilo sociologico, Einaudi, Torino 1986, p. 52.
19
Si allude alla socialità comunitaria delle barriere operaie torinesi di primo Novecento: M. Gribaudi, Mondo
operaio e mito operaio: spazi e percorsi sociali a Torino nel primo Novecento, Einaudi, Torino 1987; E.
Beltrami, S. Cavallo, E. Gennuso, M. Gentile, M. Gribaudi, Relazioni sociali e strategie individuali in ambiente
urbano: Torino nel Novecento, Regione Piemonte, Torino 1981; D. Jallà, S. Musso, Territorio, fabbrica e
cultura operaia a Torino (1900-1940), Regione Piemonte, Torino 1980; Torino tra le due guerre, a cura di Città
di Torino-Musei Civici, marzo-giugno 1978; N. Adduci, La “Cricca del Moro” Un giro da osteria negli anni
Trenta e Quaranta in via Giachino, in «Quaderni del CDS», VI, n. 10, fascicolo 1, 2007 , pp. 121-140.
20
Si veda: M. D. Young, P. Willmott, Family and Kinship in East London, Routledge & Kegan, Londra 1957; J.
H. Goldthorpe, G. Romagnoli, L. Trevisan, Classe operaia cit.; N. Dennis, F. Henriques, C. Slaughter, Una vita
per il carbone, Rosenberg e Sellier, Torino 1976.
5
appannaggio, come afferma Ramella
21
, di una corrente sociologica scarsamente permeabile
alla network analysis, preminente invece proprio in ambito britannico.
In realtà, nuovi studi recentemente hanno incominciato ad accendere i riflettori sul fenomeno
sulla spinta, non a caso, di alcuni storici di formazione inglese come, per esempio, Paul
Ginsborg. Lo storico, nato a Londra ma naturalizzato italiano, partendo da un’interessante
approccio “politico” alla storia della famiglia
22
, ha letto questa tendenza alla privatizzazione
domestica, rispolverando e aggiornando un’interpretazione molto controversa come quelle di
familismo amorale proposta da Edward Banfield. Questa tendenza familistica della società
italiana, figlia diretta di un rapporto patologico tra famiglie/società civile/Stato, è da
considerarsi come elemento determinante degli sviluppi sociali e politici del dopoguerra
italiano e della sua crisi istituzionale. Senza entrare nelle polemiche e nell’acceso dibattito
scatenatosi (che ha conosciuto anche una rilevante ribalta mediatica)
23
, è oggettivo rilevare
come questa interpretazione si fondi non su uno studio specifico “empirico” dell’autore ma su
un numero limitato di ricerche realizzate da altri studiosi. Esaminando i riferimenti
bibliografici, si nota come essi siano in larga parte opere datate pubblicate tra gli anni
Cinquanta e Settanta, o altre più recenti ma basate sempre sulla letteratura grigia del tempo,
come le rilevazioni di sociologi e assistenti sociali operanti in quegli anni
24
. Con questo dato
non si vuole sostenere l’infondatezza e la debolezza assoluta delle interpretazioni proposte, ma
denunciare come intorno al tema dell’affermarsi della famiglia coniugale intima si conservino
ampi margini di ignoranza che devono essere colmati attraverso nuove ricerche specifiche
capaci di sfruttare gli sviluppi e le innovazioni ottenute con l’avanzare in questi anni del
dibattito scientifico, in particolare all’estero. Una delle lacune più rilevanti che può essere
accennata preliminarmente è quella che riguarda l’analisi completa degli effetti della
trasformazione dei modelli di socialità sui rapporti tra generi e generazioni all’interno dei
nuclei famigliari e in relazione all’affermarsi, per esempio, di nuove soggettività sociali come
quella dei giovani e delle donne. Come dimostra la famosa ricerca di Young, P. Willmott
25
su
21
Cfr. F. Ramella, Appunti su famiglia, mobilità, consumi, in Microstoria. A venticinque anni da L'eredità
immateriale, a cura di P. Lanaro, Franco Angeli, Milano 2011, pp. 79-88.
22
Si veda oltre al già citato P. Ginsborg, Storia d’Italia cit.; P. Ginsborg, L’Italia del tempo presente. Famiglia,
società civile, Stato 1980-1996, Einaudi, Torino 1998.
23
Per una critica: G. Gribaudi, Donne, uomini, famiglie: Napoli nel Novecento, L’ancora, Napoli 1999.
24
Per esempio le opere più citate da Ginsborg sono: E. Banfield, The Moral Basis of a Backward Society,
Glencoe, 1958; L. Balbo, Stato di famiglia, Etas, Milano 1976; J. Foot, Il boom dal basso cit.; A. Pizzorno,
Comunità e razionalizzazione, Milano 1960.
25
Cfr. M. D. Young, P. Willmott, Family and Kinship cit.; sull’evolversi dei ruoli coniugali si rimanda anche a:
E. Bott, Ruoli coniugali e reti sociali, in Reti: l'analisi di network nelle scienze sociali, a cura di F. Piselli,
Donzelli, Roma 2001, pp. 79-114. Il testo in lingua originale è reperibile sul sito:
http://www.moderntimesworkplace.com/archives/ericsess/sessvol1/Spilliusp323.opd.pdf
6
alcune famiglie inglesi costrette a trasferirsi e a lasciare il proprio quartiere di antica
residenza, l’alterazione del tessuto relazionale all’esterno dei nuclei famigliari (e in particolare
il venir meno dei servizi erogati da famigliari e dal vicinato) determina una rinegoziazione
profonda dei rapporti tra i coniugi con l’affermarsi di una maggiore intimità e di ruoli meno
segregati. Inoltre sono da indagare anche gli effetti sulle singole comunità di riferimento. Lo
smembrasi delle reti sociali comunitarie quali opportunità apre alle singole famiglie? Ma allo
stesso tempo quali sono i suoi costi, per esempio, in relazioni a tematiche quali il controllo
sociale, la socializzazione delle seconde generazioni, i progetti di mobilità sociale individuali
e famigliari o la capacità di mobilitazione collettiva nei conflitti politici?
Tornando alle ricerche sul tema, in esse si ipotizza che questo mutamento sociale si sia
realizzato in primo luogo nei nuovi quartieri periferici delle città settentrionali sorti
rapidamente durante il boom e, in particolare, in quelli di edilizia pubblica. Come si vedrà in
quegli anni, il forte flusso migratorio aggrava l’emergenza abitativa in città e la “questione
casa” da obiettivo di progetti individuali assume il rango di problema pubblico alla cui
soluzione le amministrazioni dedicano risorse e sforzi di inedita portata, promuovendo
importanti progetti costruttivi che si concentrano nella fascia urbana periferica. Queste
iniziative contribuiranno nell’imprimere uno sviluppo “etnicamente” segregato alla città che si
verrà a comporre da un’estesa periferia abitata in prevalenza da famiglie di estrazione
proletaria e di origine meridionale. Proprio in questi luoghi, come scrive Fofi, si sarebbe
imposto il nuovo modello di socialità.
Il grande balzo avviene col passaggio ai quartieri periferici di case nuove. Alveari brutti finché si
vuole, ma con appartamenti puliti e riscaldati, con ascensori e finestre normali, con bagno
completo in casa e un aspetto decoroso. Solo più tardi ci si accorgerà delle insufficienze di queste
abitazioni: il momento del trasferimento non può che essere gioioso, costituire per l’immigrato il
segno di una lunga fatica superata, di sofferenze lasciate alle spalle, di sentirsi alla pari con gli
altri. Di aver concluso, insomma, il lungo, troppo lungo e disgraziato periodo di quarantena. In
realtà, esso segna quasi sempre un momento importante del distacco della famiglia dalla
comunità di immigrati paesani: contribuisce a chiuderla in se stessa, attraversi le condizioni che
l’abitare in un appartamento nuovo di una casa nuova pone a ciascuna. Circondati da estranei, in
quartieri dove vige come regola di saper vivere il non occuparsi gli uni degli altri e per buona
norma l’aver pochi amici, l’isolamento del gruppo è accelerato, anche se non concluso
26
.
Un processo che sembra iniziare nei quartieri di edilizia pubblica. La spiegazione è da
ricercare nelle modalità specifiche di insediamento in questi territori, i quali influenzano
Per un approfondimento: F. Ramella, Reti sociali e ruoli di genere: ripartendo da Elizabeth Bott, in La
costruzione dell'identità maschile nell'età moderna e contemporanea, a cura di A. Arru, Biblik, Roma 2001, pp.
79-87.
26
G. Fofi, L’immigrazione cit., p. 190.
7
direttamente le relazioni che vi si stabiliscono e ne condizionano l’indirizzo. Il reclutamento
della popolazione assegnataria si realizza, infatti, in base ad una selezione condotta con criteri
burocratici pertanto gli individui che giungono a risiedervi sono di conseguenza in
maggioranza degli estranei. In generale proprio il fatto che non ci sia un tessuto relazionale
precostituito in insediamenti che nascono quasi da zero (e il discorso da questo punto di vista
si può perciò allargare anche alle aree di edilizia privata) renderà più difficile la costruzione
delle relazioni sociali, favorendo la privatizzazione domestica. Pertanto in quei nuovi spazi
suburbani le famiglie, lì insediatesi, saranno le prime a sperimentare questi inediti stili di vita
che «divennero insomma sempre più un fenomeno capace di convogliare intorno a sé tutta una
serie di valori che dalla sfera privata confluiscono su quella pubblica e collettiva»
27
, e che
successivamente arrivano ad imporsi sugli altri quartieri della città.
Si è scelto di condurre un’indagine microstorica, concentrandosi su un caso specifico: il
quartiere delle Vallette di Torino. Costruito a partire del 1958 in un’area all’estrema periferia
della città, rappresenta uno dei più importanti interventi di edilizia pubblica a livello non solo
torinese ma nazionale. Inaugurato ufficialmente nel 1961, nella fase più calda del boom,
l’insediamento rappresenta, come racconta Fofi, «il primo quartiere di questo tipo a riflettere
una massiccia presenza di immigrati meridionali e, in certo modo, a essere progettato con
criteri residenziali, diversamente dai soliti quartieri-dormitorio del passato»
28
. Concepito come
città satellite e autosufficiente, nella speranza di rappresentare un “modello” urbanistico di
integrazione, a causa della carenza di servizi collettivi (progettati ma non ultimati), alla
concentrazione di nuclei disagiati e di una violenta campagna di stigmatizzazione, si trasforma
nell’immaginario collettivo cittadino nel paradigma della “periferia”. Una periferia, in senso
non solo spaziale, ma anche sociale perché percepita come focolaio di criminalità e degrado.
Andando oltre l’immagine cristallizzata di “ghetto” (una rappresentazione che coinvolge non
solo il discorso mediatico ma, come vedremo, anche la maggioranza delle indagini
scientifiche sul quartiere) si tenterà di tracciare una biografia urbana del quartiere,
ricostruendo il processo di insediamento dei primi assegnatari e le modalità in cui si è
realizzata la socialità interna, contribuendo alla costruzione della comunità di quartiere. Si
cercherà di ripercorrere lo sviluppo sociale negli anni Sessanta, cioè nella fase affluente dello
sviluppo fordista cittadino. Da valutare come le singole famiglie assegnatarie singolarmente e
27
F. Cumoli, Un tetto a chi lavora cit., p. 194.
28
G. Fofi, L’immigrazione cit., p. 183.
8
collettivamente si adattino e, allo stesso tempo, modellino il contesto sociale del quartiere,
cercando di massimizzare le opportunità di una società in pieno sviluppo economico
29
.
Per esaminare la socialità, le configurazioni relazionali e i sistemi di vincoli nello spazio
urbano si è scelto di adottare un approccio di comunità, un concetto che, come vedremo,
ricopre una particolare centralità nell’analisi proposta. La nozione di “comunità” è da sempre
uno dei concetti chiave delle scienze umane, utilizzato da padri fondatori come Tönnies,
Weber e Marx
30
. Nonostante un grande successo non solo in ambito scientifico ma anche, per
esempio, nei discorsi politici, non si dispone di una chiara e condivisa definizione semantica
del concetto, prigioniero di un immaginario idealizzato e pre-industriale. Il tema, tuttavia,
come osserva Bagnasco ha conquistato una nuova centralità perché rimanda ad una gamma di
problematiche sempre più rilevanti all’interno delle scienze sociali come, ad esempio, il
concetto di capitale sociale. Nonostante l’indeterminatezza semantica, pertanto, dimostra
un’«ambigua utilità»
31
, rappresentando uno strumento irrinunciabile per studiare i fenomeno
di interazione diretta su scala ridotta. Pertanto, prima di utilizzarlo, si deve chiarire il
significato che si è assegnato al concetto, in particolare, in relazione ad altri come quello di
“quartiere”. Per tentare di darne una definizione operativa si è scelto di ricostruirne
l’evoluzione semantica. Tra i primi autori non si può non partire da Tönnies. Nel suo pensiero,
la successione da Gemeinschaft a Gesellschaft – tra comunità e società, per l’appunto –
rappresenta la chiave di lettura per comprendere il fenomeno della “modernizzazione” che
vede il passaggio da una dimensione comunitaria “tradizionale”, retta sui legami di sangue, ad
una successiva societaria, figlia dell’avvento del capitalismo e dell’urbanesimo, fondata su
relazioni contrattuali e maggiore individualismo. Questo quadro interpretativo avrà un enorme
successo specialmente sotto forma di vulgata non perfettamente aderente alle definizioni
iniziali di Tönnies. Infatti, nonostante originariamente non si presupponga una diretta
corrispondenza spaziale, la comunità andrà in particolare ad indicare una tipologia di
organizzazione sociale localizzata in una dimensione territoriale circoscritta, in particolare,
rurale e preindustriale. Seguendo questo indirizzo la nascente sociologia urbana svilupperà un
filone di ricerca legato al tema della presunta scomparsa della comunità nella dimensione
urbana dominata, invece, dalla disorganizzazione sociale e dall’isolamento. Questa ipotesi
29
Ci si è concentrati sugli anni Sessanta perché il decennio successivo vede affermarsi un nuovo “attore”
principale: la seconda generazione composta dai figli degli assegnatari che si muoveranno in un contesto in
rapida trasformazione e su cui graveranno gli effetti più pesanti della crisi post fordista.
30
Per una ricostruzione dell’evoluzione del concetto di comunità e dei community studies si rimanda a: T.
Balckshaw, Key concepts in Community Studies, Sage, Londra 2010; C. Schrecker, La communauté: Histoire
critique d'un concept dans la sociologie anglo-saxonne, Harmattan, Parigi 2006; C. Bell, H. Newby, Community
Studies. An introduction to the Sociology of the Local Community, Allen & Unwin, Londra 1976.
31
A. Bagnasco, Tracce di comunità: temi derivati da un concetto ingombrante, Il Mulino, Bologna 1999, p. 9.
9
sarà smentita da ricerche successive come quella di Gans sulla Little Italy di Boston
32
.
Nonostante l’urbanesimo, gli immigrati d’origine italiana studiati riescono a mantenere una
vitale organizzazione comunitaria con forte solidarietà e senso di appartenenza. Tra le ricerche
della Scuola di Chicago, l’enfasi posta sul concetto di ecologia urbana rafforza
l’interpretazione della comunità come realtà spaziale e localizzata, identificandola con termini
quali “quartiere”. Tuttavia, in seguito, si registra con l’affermarsi della network analysis una
vera e propria rivoluzione copernicana
33
. Ponendo al centro l’individuo e il suo tessuto
relazionale, queste indagini emancipano il concetto dalla scala spaziale, aprendo nuove
direzioni di ricerca per i community studies. Come afferma Blackshaw, si inaugura una nuova
fase. La comunità si libera dalla «locality, place dependent»
34
e lo spazio diventa una variabile
tra le altre nello studio delle relazioni sociali.
Le ricerche di network analysis hanno individuato oggi differenti atteggiamenti e pratiche nel
“vivere” lo spazio urbano che dipendono da diverse variabili e, in particolare, dal grado di
radicamento territoriale degli attori sociali. Per “radicamento” si intende il processo di
costruzione delle reti sociali e dei legami personali alla base dell’integrazione in un contesto
sociale
35
. A seconda di come avviene questo processo si condividono, dunque, modalità
differenti di fruizione dello spazio urbano. Per descrivere questa eterogeneità si può parlare di
un continuum che vede ad un polo estremo chi ha uno scarso radicamento territoriale con
relazioni sociali privatizzate o diffuse nella città (comunque slegate dalla prossimità) e una
socialità proiettata lontana dal luogo di residenza, dall’altro chi, invece, è soggetto ad un forte
radicamento nel luogo di residenza ed è incapsulato nel proprio quartiere dove si concentrano
i legami personali e la socialità. Questo secondo caso può essere definito comunitario. Su
questa concentrazione (cluster) di relazioni dense e segregate spazialmente si fonda una
collettività sociale caratterizzata da un’autosufficienza minore rispetto alla società più ampia,
e dotata di un certo grado di associazionismo e di un senso di appartenenza collettiva. Una
comunità in cui regna una vicinanza di interessi, un attaccamento al luogo di residenza e
forme di solidarietà anche se naturalmente, ciò non significa che non sussistano
disuguaglianze, conflitti e un asfissiante controllo sociale
36
. Per comprendere il significato
32
H. Gans, The urban villagers: group and class in the life of Italian-Americans, Free Press, New York 1982. Si
rimanda anche a: H. Gans, The Levittowners: Ways of Life and Politics in a New Suburban Community,
Columbia University Press, New York 1982.
33
Su questa corrente di studi il riferimento obbligato è: Reti. L’analisi di networks cit..
34
T. Balckshaw, Key concepts cit. p. 84.
35
Cfr. A. Badino, Giovani nella città. Relazioni e appartenenze, in Culture quotidiane. Addomesticare lo spazio
e il tempo, a cura di G. Mandich, Carocci, Roma 2010, pp. 264-287.
36
Cfr. J. Foot, Il boom dal basso cit..
10
della dimensione comunitaria per l’individuo, riprendendo l’analisi di Bauman
37
, è necessario
analizzare la contrapposizione tra sicurezza e libertà, due valori cardine ma contrapposti della
condizione umana. Il prezzo da pagare per una maggiore sicurezza è una minore libertà e il
prezzo di una maggiore libertà è una minore sicurezza: ognuno deve costruire un proprio
equilibrio instabile tra questi valori. Vivere inseriti nella comunità se da un lato obbliga a
sottostare a obblighi, limitazioni e omologazione (poca libertà), dall’altro consente di godere
di maggiori sicurezze materiali e culturali. Al contrario una posizione più atomizzata permette
di muoversi con maggiore libertà e indipendenza ma obbliga ad affrontare i periodi di crisi
contando solo sulle proprie risorse e capacità (scarsa sicurezza).
Nella città contemporanea, caratterizzata da forti fenomeni migratori, mobilità residenziale,
spostamenti quotidiani imposti da una più marcata specializzazione spaziale, si indebolisce la
dimensione comunitaria. Le maggiori occasioni di socialità slegate dalla prossimità
favoriscono la diversificazione delle appartenenze e delle cerchie relazionali. Presumibilmente
la peculiarità della “modernità” è proprio la maggiore mobilità che impedisce il sedimentarsi
di relazioni dense e circoscritte necessarie per costruire e conservare le comunità. Al contrario
è incentivata una dispersione relazionale in reti con maglie più larghe e variegate. Questa
constatazione non vale però per tutti. I diversi gradi di radicamento e di mobilità dipendono,
infatti, dalle risorse di cui ognuno dispone. Una popolazione “forte”, dotata di risorse
economiche e di mobilità (dotata di un mezzo di locomozione privato, più giovane, ecc.) avrà
maggiori opportunità di costruire relazioni meno segregate, rispetto ad una popolazione con
più bassi livelli di reddito, di istruzione e di capitale sociale
38
. Nella Torino del boom
sprovvista di un’adeguata rete di trasporti pubblici (ad esempio), il quartiere di residenza
rappresenta un elemento centrale, sebbene non esclusivo, della socialità e delle esperienze di
vita delle classi popolari residenti nelle nuove periferie. In altre parole, la dimensione locale
rappresenta un ambito di ricerca imprescindibile sul fenomeno urbano di questi gruppi sociali.
Con chiare differenziazioni interne a seconde del genere e dell’età (donne casalinghe e
bambini sono i più “incapsulati” non lavorando fuori dal quartiere) il quartiere gioca un ruolo
predominante, essendo fonte di networks informali e punto focale di routines in cui si
soddisfano bisogni quotidiani. La dimensione locale influisce sulle scelte dei singoli,
nell’attribuzione delle risorse, obiettivi, vincoli e nella costruzione identitaria che si realizza
attraverso le cerchie di riconoscimento tra pari e il condizionamento normativo della moralità
comunitaria.
37
Z. Bauman, Voglia di comunità, Laterza, Roma-Bari 2001.
38
Cfr. C. Belloni, Una lettura trasversale tra usi e interpretazioni, in Culture quotidiane cit., pp. 225-238; L.
Todesco, Vivere la città. Modelli di frequentazione dello spazio urbano, in Culture quotidiane cit., pp. 239-263.