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responsabile delle proprie scelte, e tutto il suo sapere fu sempre funzionale a questo specifico
impegno etico e politico. Castoriadis fu forse il primo a sostenere la necessità di una
democrazia radicale e ad avanzare la tesi della trasformazione autonoma della società, senza
mascherarne mai le implicazioni spiacevoli, i limiti e le aporie, anzi andando al fondo di
queste zone d’ombra fino a mostrare quale può essere la reale praticabilità ed il senso del
progetto democratico nel XXI secolo.
Infine, il terzo capitolo è riservato ad alcune riflessioni su problematiche di più
stringente attualità, come l’interrogativo sull’esistenza di una natura umana comune su cui
fondare i diritti universali o da cui derivare la necessità di una ‘democratizzazione’ generale, e
l’analisi degli effetti della ‘rivoluzione informatica’ e delle sue applicazioni multimediali sulla
vita politica ed in particolare sulla formazione del consenso nelle moderne democrazie
rappresentative.
La tesi che emerge da questo mio excursus è che le democrazie moderne si stanno
gradualmente trasformando al punto da essere quasi irriconoscibili e inclassificabili come
democrazie. Stando soprattutto alle considerazioni di Castoriadis, avanzo in conclusione
l’ipotesi che solo una riattivazione dell’interrogazione critica nei confronti dello stato di cose
presente possa dare ancora la possibilità di esistere ad una società che si voglia autonoma e
democratica.
Desidero ringraziare la prof. Marina Lalatta Costerbosa per avermi seguito e
consigliato nella mia ricerca; i miei genitori, il cui costante sostegno mi permette di seguire la
strada che ho scelto; Pasquino, che tante volte ha discusso con me queste pagine,
spronandomi nella riflessione e risollevandomi nelle difficoltà; il prof. Roberto Nistri che per
me è stato incomparabile maestro di filosofia e di vita.
C. V.
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“ Non è necessario che il paese faccia qualcosa per sé, purché non
faccia niente contro di sé (…) E’ il popolo che si fa servo e si taglia
la gola; che, potendo scegliere fra essere soggetto o essere libero,
rifiuta la libertà e sceglie il giogo; che accetta il suo male, anzi lo
cerca (…) Voi gente misera, popoli dissennati, nazioni che vi
intestardite nel vostro male, cieche al vostro bene (…) vivete in
modo tale che nulla più vi appartiene (….) e tutte queste
devastazioni, queste sventure, questa rovina non vengono dai vostri
nemici, ma da quel nemico che a voi deve la sua posizione, per il
quale affrontate così coraggiosamente le guerre e per la grandezza
del quale non esitate a offrire voi stessi alla morte, eppure questo
padrone ha solo due occhi, due mani, un corpo, niente di più di
quanto abbia l’ultimo abitante dell’infinito numero delle nostre città.
Ciò che egli ha in più sono i mezzi per distruggervi che voi stessi gli
fornite. Da dove gli vengono tutti quegli occhi che vi spiano, se non
da voi stessi? Come può aver tante mani per colpirvi, se non
prendendole da voi? Ha qualche potere su di voi, che non gli deriva
da voi stessi? ”
Etienne de la Boétie
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1. Democrazia come ideale normativo
1.1 Democrazia e metodo democratico
Quando parliamo di democrazia oggi, riferendoci alle forme dei governi
occidentali contemporanei, intendiamo, o quantomeno crediamo di designare
con questo termine, uno stato di cose che ha in sé un valore normativo, una
sorta di governo incontrastato dei diritti umani, il migliore dei governi possibili,
quello che ci assicura la massima libertà e il massimo benessere insieme; la
realtà dei fatti è, invece, ben diversa: libertà, uguaglianza e solidarietà non
hanno mai regnato sovrane in nessun luogo, determinando e manifestandosi in
ogni ambito della società. Ci si potrebbe allora chiedere se non sarebbe più
corretto intendere la democrazia soltanto come metodo democratico, strumento
di applicazione e di realizzazione dei valori e dei principi che la parola
“democrazia” evoca in noi, dei significati che tradizionalmente l’accompagnano
da secoli. Si verrebbero così a determinare una democrazia formale, ossia un
insieme di criteri procedurali per la produzione di norme, e una democrazia
materiale, che vincolerebbe invece il contenuto di tali norme in conformità a
principi costituzionali riguardanti quei diritti generalmente ritenuti fondamentali
per il cittadino: in primo luogo libertà e uguaglianza/giustizia. Pertanto, come
osserva Bobbio, “le norme costituzionali che attribuiscono questi diritti non
sono propriamente regole del gioco: sono regole preliminari che permettono lo
svolgimento del gioco” (Bobbio, 1989, pag. 7). Ed è questo che attualmente si
verifica. Tuttavia, il rischio nel quale s’incorre affidando a delle procedure (che,
per quanto si dicano democratiche, restano dei meri strumenti atti a formare la
legge) il compito di creare un ordine democratico, è quello di approdare
all’indifferenza rispetto ai contenuti intorno ai quali prende forma il consenso,
limitando l’istanza di democraticità al solo metodo, di fatto privandolo di ogni
validità. Analizzando, infatti, i cardini e le strutture di un regime democratico
ottenuto mediante applicazione di tale metodo, ritengo possano emergere
numerose contraddizioni ed insanabili tensioni, che dimostrano non solo
l’inefficacia, ma molto spesso addirittura l’antidemocraticità insita nella pretesa
di fare della democrazia il semplice risultato di un’equazione procedurale.
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I criteri normativi che dovrebbero assicurare la messa in atto dei principi
democratici, sono essenzialmente riconducibili a due fondamentali procedure:
la delega di potere, vale a dire la rappresentanza politica, ed il principio
maggioritario.
La delega di potere, di fatto, si traduce nel trasferimento della volontà del
soggetto rappresentato (il cittadino) ad un altro soggetto rappresentante, il quale
ottiene così il potere (e si potrebbe aggiungere la responsabilità) di decidere
della libertà del primo. L’effetto di questa trasposizione è di trasformare gli
elettori da superiori, in quanto depositari della sovranità popolare, in sottoposti,
e i rappresentanti, che dovrebbero essere “comandati”, in governanti, in virtù
dell’autonomia che viene loro assicurata. Ma l’aspetto preponderante è che i
rappresentanti agiscono in nome di una pretesa aderenza (che non può essere in
alcun modo verificata) ad un’altrettanto presunta volontà generale, che generale
non è, poiché essa non esiste, è una mera astrazione, il risultato di un
“procedimento razionalista che permette di trasformare in rappresentanza ciò
che spesso è solo cessione di volontà” (La Torre, 2000, pag. 192). Ne segue che
le azioni dei deputati non vengono determinate o almeno influenzate dagli
elettori, che conferiscono loro solo il diritto di volere nel proprio nome e nel
proprio interesse: i rappresentanti, in ultima analisi, pongono in essere delle
deliberazioni che sono indiscutibilmente loro e soltanto loro, decidono cioè in
piena libertà, senza alcun controllo e senza alcun vincolo specifico che non sia
di coscienza nei confronti dell’elettorato. Inoltre, nel caso di un mancato
adempimento ai propri doveri da parte dei rappresentanti, gli elettori non hanno
alcun diritto di revoca su di loro, poiché mediante l’elezione viene designato
non un delegato bensì un fiduciario, cioè qualcuno che ottiene la fiducia
dell’elettorato, ma agisce in libertà: ciò che gli viene affidato non è un mandato
imperativo. Si sostiene, allora, che il cittadino possa giudicare l’operato del
deputato cui aveva concesso la propria fiducia, riconfermandogliela o
negandogliela alle successive elezioni. Tuttavia, come nota LaTorre, “affinché
la mancata rielezione possa considerarsi come sanzione di un comportamento
inottemperante dei doveri dell’eletto e configurare dunque una forma di
responsabilità politica, dovrebbero verificarsi almeno due condizioni: (i) che il
soggetto eletto come parlamentare sia obbligato a ripresentarsi candidato alle
nuove elezioni; (ii) che l’eventuale rielezione sia soggetta istituzionalmente ad
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un giudizio di natura politica” ( ivi, pag. 209 ). Ma, poiché queste condizioni
non si verificano, non si può affermare che il cittadino abbia effettivamente la
possibilità di emettere un giudizio vincolante sull’operato dei suoi
rappresentanti, e, comunque, si tratta sempre di un dissenso o di un consenso
che sopravvengono dopo che i rappresentanti hanno ormai agito: in altre parole,
il cittadino non è soggetto attivo, nel migliore dei casi reagisce. Per questi
motivi è stata più volte sostenuta la necessità di un mandato vincolato, che
permetterebbe un maggiore controllo sull’operato dei rappresentanti e, a mio
parere, una maggiore democraticità; tuttavia, non appena viene prospettata una
tale eventualità, vengono sollevate da più versanti numerose obiezioni,
riconducibili essenzialmente all’osservazione che i comuni elettori
generalmente non sono in grado di tradurre i propri interessi in una coerente
domanda politica o sono insufficientemente informati sui processi e gli attori
della vita politica, e, pertanto, non hanno la capacità di emettere un mandato
imperativo ed esercitare un’adeguata vigilanza sui deputati (queste le
considerazioni di Domenico Fisichella, 1996, pp. 21-23). Eppure, chi sostiene
questi argomenti sembra dimenticare che gli attori della vita politica sono, o
quantomeno dovrebbero essere, proprio i “comuni” cittadini e che, per quanto
possa essere attendibile il dato relativo alla scarsa informazione di costoro, non
è certo un fatto imputabile alla loro volontà, bensì a quella dei mass media, i
quali, per motivazioni non certo casuali visto l’intreccio che ormai lega potere
mediatico e potere politico, fin troppo spesso fungono da fonte
d’intrattenimento/distrazione, quando non addirittura di intenzionale
occultamento, piuttosto che di (oggettiva) informazione. Inoltre, la tesi relativa
all’incapacità del cittadino di formulare una richiesta politica mi sembra frutto
di elitarismo e presunzione: equivale ad asserire che egli “può magari sapere ciò
che vuole, ma può non rendersi conto di ciò di cui ha bisogno”( Eulau e Karps,
1978, pag. 63) e, di conseguenza, porta a considerare il rappresentante come
(discutibile) interprete degli interessi e non esecutore della volontà degli
elettori.
D’altra parte, ma in modo del tutto speculare, la rappresentanza viene
spesso giustificata ricorrendo alla tesi che gli “esperti” in politica avrebbero il
diritto di governare perché unici soggetti competenti, oppure, il che è lo stesso,
all’idea della differenziazione funzionale dei ruoli sociali, per cui ad alcuni