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Gustavo Bontadini (Milano1903-1990), ha insegnato filosofia teoretica
all’Università Cattolica di Milano. Tra le sue opere ricordiamo “Saggio di una
metafisica dell’esperienza” e “Metafisica e deellenizzazione” in cui egli si
oppone radicalmente al “pensiero debole” di Vattimo, il quale sulla scorta di
Heidegger afferma il superamento del momento del crollo delle verità
metafisiche e dei pensieri forti e vede nell’ellenizzazione del Cristianesimo un
errore. Bontadini si spinge in tutt’altra direzione, verso cioè un ritorno alla
metafisica o al “pensiero forte”, definendosi “un metafisico radicato nel cuore
del pensiero moderno”. Legandosi alla tradizione della metafisica platonico-
aristotelica, c’è una domanda alla quale la sua riflessione filosofica vuole
trovare una risposta, ed è la chiave del suo sistema filosofico: “l’unità
dell’esperienza è la totalità dell’essere? o esiste qualcosa di diverso
dall’esperienza?”
A questa seconda domanda occorre rispondere anzitutto che qualcosa di
diverso o altro dall’esperienza non può essere “dato”: in effetti, in quanto
dato, sarebbe comunque dentro l’esperienza. Tuttavia, l’altro dall’esperienza
può venir pensato. Sorge così, in Bontadini, la distinzione tra esperienza e
ragione, e dunque la distinzione tra l’esistenza di idee che appartengono
all’esperienza e di idee che invece la trascendono.
Ora, per Bontadini il concetto di unità dell’esperienza (come punto di
partenza del sapere) appartiene non all’orizzonte dell’esperienza, ma
all’ordine teoretico, che è governato dal principio di non-contraddizione. Si
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può dunque affermare che la condizione formale affinché ci sia esperienza è
che il pensiero non sia contraddittorio.
Sennonché, il contenuto dell’esperienza è il divenire, il quale implica “il non
essere dell’essere”. Ciò significa che il divenire è contraddittorio e lo è in
rapporto proprio al principio di non- contraddizione, cui Bontadini, anche qui,
riallacciandosi alla tradizione aristotelica, conferisce un rilievo non solo
logico-gnoseologico, ma metafisico-ontologico. Il principio di non-
contraddizione, infatti, prescrive alla realtà la necessità di essere, e l’essere
esige di esistere in quanto opposto al non-essere (non a caso Bontadini chiama
tale principio “principio di Parmenide”).
Ma se l’essere esclude, e non può non escludere, il non-essere, sussiste però
qualche ente che invece è in divenire (dunque non è essere) e di cui si deve
dare ragione.
A questo punto, la struttura del sapere, per assolvere al suo compito, deve
risolvere l’opposizione tra i dati dell’esperienza e quelli della ragione.
Secondo Bontadini tale risoluzione è data dal teorema della Creazione, che
permette di mediare l’esperienza e il principio di non contraddizione. Ciò
equivale a dimostrare l’esistenza di Dio e la sua trascendenza rispetto al
mondo: Dio è infatti l’Essere assolutamente necessario e assolutamente
autofondato, coincidente con la “Verità prima e totale”, o con “l’assoluto”.
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Quanto al divenire, esso è possibile se se ne trova la ragione, il fondamento;
vale a dire se si rimuove la sua contraddizione attraverso il riferimento a Dio
come Essere creatore. Scrive infatti Bontadini: «In rapporto alla tesi che il
divenire non può essere contraddittorio, perché reale, si accetta la premessa
sottintesa di questo entimema, e cioè che il reale è incontraddittorio
(razionale!). Se ne evince, o si riconferma, che ciò che deve essere eliminato
non è il divenire, ma la contraddizione. Ed è in tale eliminazione che si
costituisce la mediazione metafisica, l’affermazione speculativa dell’esistenza
di Dio».
1
Infatti «la dose di realtà dell’essere - misurata dalle essenze -
sussiste oltre l’esperienza, separata dall’empirico diveniente».
2
Secondo
Bontadini, l’operazione platonica del trasferimento in un mondo oltre
l’esperienza, implica che «l’esperienza è abbandonata al suo destino,
all’irrazionalità».
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Ne deriva quindi un’aporia che sarà risolta, alla fine, dalla
filosofia cristiana: «Il salvataggio è compiuto con la dottrina della Creazione
[…] nei due momenti dell’affermazione dell’Immobile e nell’affermazione
della Creazione».
4
Egli aggiunge: «la tesi è, integralmente, che l’Immobile
crea il mobile, ovvero che il mobile è reso intelligibile, cioè incontraddittorio,
solo se pensato come creato dall’Immobile».
5
Come fa notare Alessandro Ghisalberti nella sua introduzione a “Metafisica e
deellenizzazione” di G. Bontadini, «accogliendo il non-essere, l’esperienza
1
G. Bontadini, Metafisica e deellenizzazione, Vita e pensiero, Milano 1975, p. 12
2
Ibidem
3
Ibidem
4
Ibidem, p. 13
5
Ibidem
6
non può essere originaria; l’originario è da collocare in Dio, affermato come
l’essere assolutamente immune dal non-essere».
6
L’unico modo, dunque, secondo Bontadini, per risolvere la contraddizione del
divenire, sta nell’ammettere l’esistenza di un ente trascendente, immutabile ed
eterno, creatore del divenire stesso. Tale ente è appunto Dio.
Ma è proprio questa posizione ad essere rovesciata dal suo allievo Emanuele
Severino.
Egli accetta la necessità espressa da Bontadini di un “pensiero forte”, ma nega
che l’esperienza possa influire sulla struttura del sapere; che possa, cioè, avere
una sua funzione epistemologica. L’esperienza, infatti, è frutto del ‘divenire’,
che Parmenide negò, quando affermò che “ l’essere è e non può non essere”.
Il divenire, per essere, dovrebbe presupporre che l’essere insieme ‘è e non è’,
cadendo così in una contraddizione logica, che il “pensiero forte” non può
ammettere.
Da qui, secondo Severino, la necessità di un “ritorno a Parmenide”. Soltanto
nel suo pensiero noi ritroviamo l’affermazione dell’Essere eterno e
immutabile, dietro il quale il mondo dell’esperienza si nasconde, per poi
ricomparire; ma mai per essere e poi non essere. La conoscenza vera, dunque,
è conoscenza dell’essere. Ogni altra è pseudo conoscenza. Persino quella
della scienza, che tenta di studiare e capire il divenire. La scienza, però, ci dà
l’illusione di dominare, con la tèchne, il mondo del divenire. Questa illusione
6
Ibidem, p. IX
7
ci fa dimenticare dell’ ‘essere’, ma proprio per questo ci ‘aliena’ e ci spinge
su quella che Parmenide definiva la “via della notte”. La via, cioè, che può
portare alla doxa, ma non all’epistême.
Da qui inizia il pensiero di Severino, che si sviluppa dal pensiero greco, le cui
radici egli pone nell’Oriente, fino all’ultimo tentativo di Heidegger, al quale
egli rimprovera «l’arbitrarietà della sua posizione, perché nella filosofia greca
egli ravvisò un’identificazione tra essere e presenza».
7
L’impressione che si ricava dalla lettura di “Essenza del nichilismo” e di una
lunga serie di interventi e d’interviste rilasciate a riviste e quotidiani, è che
Severino con il suo “ritorno a Parmenide” voglia dare della sua filosofia
un’interpretazione che gli consenta quasi di scavalcare venticinque secoli di
filosofia, come nati da un’interpretazione errata del pensiero parmenideo.
Scrive Severino: «la storia della filosofia occidentale è la vicenda
dell’alterazione e quindi della dimenticanza del senso dell’essere,
inizialmente intravisto dal più antico pensiero dei Greci».
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Egli vede in Parmenide il filosofo dell’essere, che nega il divenire. L’essere
di Parmenide è, infatti, eterno e immutabile e, in quanto tale, non può essere
in divenire. Se lo fosse si tratterebbe di una contraddizione logica, in quanto
tale divenire implicherebbe che lo stesso essere possa nascere dal nulla e
ritornare nel nulla. Se le cose stanno così, è evidente che il mondo che
percepiamo coi nostri sensi - e la sua percezione equivale alla percezione del
7
E. Severino, Essenza del nichilismo, Adelphi Milano 1982, p. 20
8
Ibidem, p. 19
8
divenire - non esiste. Ciò è difficile da accettare, eppure, afferma Severino: «è
proprio nei pochi versi del poema di Parmenide che si nasconde la parola più
essenziale e più dimenticata di tutto il nostro sapere»
9
, che appunto sono i
seguenti: «έστι γάρ είναι, µηδέν δ’ ούκ έστιν (fr. 6, vv. 1-2)»
10
ossia, “l’essere
è, mentre il nulla non è”; «l’essere è appunto ciò che si oppone al nulla, è
appunto questo opporsi».
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Ma per Severino «nella casa dell’essere tutto è
ugualmente ospitato e vi convivono i mondi più opposti».
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Egli, a differenza
di Parmenide, non ritiene il divenire come il non essere, incompatibile con
l’essere. Dice infatti: «Se dunque esiste un momento dell’immutabile - l’
apparire attuale -, in cui si realizza una rivelazione processuale
dell’immutabile, questo divenire non è più incompatibile con l’immutabilità
dell’essere, perché in esso - non più inteso secondo la definizione alienata
della non verità dell’essere - non va perduto nulla dell’essere e quindi non va
perduto nemmeno nulla di quell’essere che è l’apparire dell’essere».
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Resta il fatto che noi su questo mondo interveniamo, e interveniamo
considerandolo nel suo apparente divenire, “inteso secondo la definizione
alienata della non verità dell’essere”.
E’ chiaro allora che questo intervento è frutto di una nostra illusione. Come
sia stato possibile lasciarci ingannare da questa illusione, Severino crede di
poterlo ricavare, risalendo quasi a un periodo antecedente a quello di
9
Ibidem, p. 20
10
Parmenide, Sulla natura
11
E. Severino, Essenza del nichilismo, op. cit., p. 20
12
Ibidem, p. 109
13
Ibidem