3
Premessa in forma di tributo
Una vita violenta spesa a rincorrere ragazzi di vita, morso da una disperata vitalità, nel tentativo di
sfuggire a un teorema borghese, inseguendo il sogno di una cosa. Una vita a vagare per Mamma
Roma, accompagnato dai canti di Uccellacci e uccellini e dall’olezzo di un Porcile umano. Era una
forza del passato, Pasolini, guidata da Passione e ideologia, che ha tenuto Comizi d’amore per le
strade di un’Italia, quella del Dopoguerra e del Boom, sporcandosi la pelle bianca secca con le
ceneri di Gramsci. Abbagliato dalla Forma della città, ha alzato gli occhi al cielo domandandosi
Che cosa sono le nuvole e come sarebbe apparsa la Terra vista dalla Luna. Per le borgate, nel rosa
assolato della Guinea e dentro il sogno dell’India, si è aggirato come un cane senza padrone
impegnato a Trasumanar e organizzar la Religione del suo tempo. Mentre tutt’intorno
l’Affabulazione lasciava ruderi martiri, lui camminava all’ombra di Sofocle, con gli occhi pieni di
Giotto e di Masaccio. Una bestia da stile, un corvo marxista, un Edipo in lotta con se stesso, col
mondo, con le stelle. Quelle stesse stelle che, in una notte del 1975, hanno assistito al martirio del
suo corpo, ridotto a un sacco di Stracci.
4
Introduzione
Che cosa non è stato detto su Pier Paolo Pasolini? Chiunque si approcci alla vicenda di quest’autore
nato a Bologna, vissuto in Friuli e innamorato di Roma e dell’Africa, deve porsi questa domanda.
Forse senza cercare a tutti i costi di darsi una risposta.
Autore di romanzi, racconti, saggi, articoli, interventi critici, poesie, lettere, film, sceneggiature,
opere teatrali, dipinti: Pasolini è stato il primo vero, autentico, consapevole autore multimediale e
transmediale della storia italiana. Sappiamo tutto. Che cosa ci sfugge, allora? Nel sarcofago
artistico di Pasolini è rimasto qualcosa di ancora non mummificato, sfuggito miracolosamente (o
quasi) alla retorica che lo ha inevitabilmente etichettato come un “intellettuale scomodo”. Pasolini è
finito nel dizionario. È stato istituzionalizzato, parafrasando uno dei suoi snodi analitici in
Empirismo eretico. Forse è qualcosa che non avrebbe voluto, perché il dizionario è borghese. E
diventare un qualcosa, peggio che qualcuno, di borghese, indica la morte. Come sfuggire allora alla
mistificazione? Semplice: programmandola, questa morte. La propria e quella delle proprie opere.
La prima fisica e bestiale, la seconda tecnica e procedurale.
Nel corso della sua multiforme carriera artistica, Pasolini ha lasciato dietro di sé un nutrito numero
di opere incompiute, tra le quali l’esempio più celebre è senza dubbio rappresentato dal romanzo
Petrolio. È in ambito cinematografico, però, che egli ha tramandato ai posteri il maggior numero di
progetti non realizzati. Si tratta di un insieme variegato di soggetti, trattamenti e sceneggiature
sparsi qua e là tra libri, riviste ed edizioni critiche che però non sono mai stati tradotti in film. E non
solo perché il poeta-regista-scrittore-giornalista-saggista ci è stato strappato prematuramente.
Se da un lato possiamo affermare che una persona muore quando smette di vivere, dall’altro come
possiamo definire “la morte di un’opera artistica”? Nel caso di un romanzo, di un fumetto, di un
disegno, di una scultura, di una chiesa è (ancora una volta) semplice: il suo mancato
completamento, il non essere finito. Ma nel caso di un film il discorso si complica. E si complica
perché il film si scrive, si disegna, si gira e si monta. Dunque in quale di queste fasi sopravviene la
morte di un film?
La tesi della “programmazione” della propria morte da parte di Pasolini anima il dibattito critico-
biografico da svariati anni. Il primo a teorizzarla con la necessaria tenacia è stato Giuseppe Zigaina,
intellettuale e pittore friulano amico intimo di Pasolini. Senza farla dunque troppo semplice – ma
neanche troppo complicata – possiamo dire che, secondo Zigaina, la morte dell’intellettuale più
“scomodo” del Novecento deve essere considerata la «valorizzazione semantica di tutta la sua
opera»
1
. Lo si evince chiaramente dai saggi scritti a partire dal 1984 e raccolti in Hostia. Trilogia
1
G. Zigaina – C. Steinle, Nota introduttiva, in Organizzar il trasumanar, Marsilio, Venezia 1999, p. 7.
5
della morte di Pier Paolo Pasolini
2
. Zigaina è stato compagno di giovinezza di Pasolini, ha
condiviso con lui gli entusiasmi della Liberazione e con lui ha militato nel Partito Comunista. La
sua tesi scandalosa e provocatoria, dimostrata attraverso un’accurata esegesi e condivisa poi da
(pochi) altri, parte dunque dal presupposto che Pasolini abbia concepito e programmato il proprio
trapasso, “inscenando” una “morte secondo valore”, un “martirio per autodecisione”. Una morte, in
altre parole, significante sul piano espressivo e intellettuale, fulcro dell’intera sua opera. E
rappresentata, resa viva, anticipata dalle immagini dei suoi film e dalle pagine dei suoi scritti. Si
pensi alla fine violenta dei protagonisti dei suoi racconti, cinematografici e non. Una ricerca – o
“scoperta”, come la definisce lo stesso Zigaina – senza dubbio euristica, estrema, provocatoria. Tre
parole che – pensiamoci – sono state tanto care al poeta. E allora provochiamo.
La notte del 2 novembre 1975 Pasolini moriva sul lungomare di Ostia, nell’orribile quadro di una
violenza che sembrava nata direttamente dalla sua penna. Il becero accanimento sul suo corpo
ricalca per certi versi l’ostracismo perpetrato nei confronti delle sue opere quand’egli era ancora in
vita. E infatti Pasolini aveva scritto, pianificato e immaginato tutto. Il giallo poliziesco della sua
morte «da oscuro fatto di cronaca si è trasformato, nella ricerca di Zigaina, in un rito di morte-
rinascita celebrato non a caso il Giorno dei Morti nel recinto sacro di un campo da calcio di Ostia»
3
.
Una morte «secondo valore», come l’ha definita Francesca Nesler, prima profetizzata e, dopo un
lunghissimo rituale, celebrata secondo una macabra liturgia di bastonate e cazzotti. Una morte che
sarebbe toccato ai posteri decifrare:
Il mio linguaggio [il linguaggio della mia morte] diventerà muto per eccellenza,
oltre che per l’eternità… Eppure chi domattina verrà, e alzerà gli occhi per decifrarlo
capirà quale terribile forza, mai pensata finora,
avrebbe avuto il mio desiderio di essere libero [di scegliere la morte],
se avessi vinto i mio istinto [di conservazione] attraverso cui la morte
aveva dichiarato inutile ogni speranza [di esprimermi con il mio sacrificio]
4
Una tesi scandalosa, letteralmente, del tutto diversa da quella ufficiale, istituzionale o “sensata”. Del
tutto lontana dall’opinione, in un’altra parola, borghese. C’è però – lo abbiamo detto – anche una
morte delle opere. E dunque: quali sono i film morti di Pasolini? Anche qui la critica istituzionale,
quella del dizionario per intenderci, ci impone di considerare “morti” quei film che non hanno mai
visto la sala. Vale a dire, quelle pellicole che pellicole non sono diventate e che sono rimaste segni
2
G. Zigaina, Hostia. Trilogia della morte di Pier Paolo Pasolini, Marsilio, Venezia 1995.
3
G. Zigaina, C. Steinle, Organizzar il trasumanar, cit., p. 8.
4
P. P. Pasolini, Orgia, in Pasolini. Teatro, a cura di W. Siti, Mondadori, Milano 2001, p. 311.
6
grafici su carta. E, a volte, neanche su quella.
Il presente lavoro parte proprio dal presupposto che Pasolini abbia previsto l’incompiutezza di
alcune delle proprie creature artistiche, lavorandone il contenuto in funzione di una fruizione
“incompleta”, perché continuamente in divenire, e offrendoci una prospettiva critica separata dal
circuito dei film fatti e finiti. Una sorta di elogio del non-finito, dove col termine “previsto” non va
affatto inteso come sinonimo di “cercato”, ma semplicemente “messa in conto” nell’atto stesso di
ideazione. Se si sfogliano i testi critici sulla filmografia di Pasolini, ci si trova di fronte a
considerazioni e trattazioni tra le più svariate. Quasi tutte, però, hanno una cosa in comune: parlano
di “film mai realizzati”. E in questo specifico elenco, propongono un dato numero di titoli. Alcuni
tre o quattro, altri sei o sette, altri di più, altri ancora meno. La lista forse più completa e rigorosa ci
è stata fornita da quel testo fondamentale che è Le regole di un’illusione, curato da Laura Betti e
Mario Gulinucci
5
.
Un altro contributo imprescindibile è fornito anche dai due volumi – in particolare il secondo – di
Per il cinema
6
, curati da Walter Siti e Franco Zabagli, i quali dedicano due intere sezioni ai soggetti
e ai trattamenti pasoliniani (oltre alla parte relativa alle sceneggiature). Ai titoli citati in questi due
tomi, chi scrive ne ha individuati altri, portando il computo totale a trentadue film non realizzati. Si
tratta di sceneggiature, soggetti, trattamenti e progetti affidati da Pasolini a libri, raccolte, lettere,
carteggi, riviste, giornali o soltanto alla testimonianza di chi ne è venuto a conoscenza. Da qui l'idea
di un saggio antologico, che approfondisca alcuni testi “meno battuti” dalla critica e che al
contempo riunisca un elenco più completo possibile delle opere cinematografiche incompiute,
nell'intento di fornire un utile punto di partenza per chi vorrà spingersi più addentro questa selva
analitica in larga parte inesplorata. Con la speranza e l'intenzione di riuscire nell'impresa, in futuro,
di approfondire tutti i trentadue punti dell'elenco. Ferma restando l'ingombrante difficoltà di
reperire, per alcuni testi, finanche una riga firmata dall'autore. Per meglio sostenere la
“progressione” dei titoli pasoliniani, e nondimeno per la comodità organizzativa di chi scrive, si è
scelto di catalogare i testi secondo la cronologia di “parto”: ogni opera riporta cioè l’anno di prima
stesura o di primo abbozzo. In altre parole l’anno dell’ideazione. Ad alcuni progetti, come a quello
sulla vita di San Paolo, Pasolini lavorò infatti per tutto l’arco della sua carriera artistica: dalla prima
idea nata nei Sessanta dalla lettura delle missive paoline e degli Atti degli apostoli all’ultima
revisione della sceneggiatura di dieci anni dopo, nel 1974. Data la sua trasversalità – testimone più
di altri delle fasi, susseguitesi negli anni, dell’evoluzione stilistica e contenutistica del cinema
5
P. P. Pasolini, Le regole di un’illusione, a cura di L. Betti – M. Gulinucci, Fondo Pier Paolo Pasolini, Roma
1991.
6
P. P. Pasolini, Per il cinema, a cura di W. Siti e F. Zabagli, 2 voll., I Meridiani – Mondadori, Milano 2001.
7
pasoliniano – si è scelto di dedicare al San Paolo maggiore spazio, significativamente in chiusura
del presente lavoro. L’intento è quello di restituire la cifra di film totale, il suo ruolo di summa del
percorso di Pasolini all’interno del genere cinematografico e, su una retta sovrapposta e
inscindibile, della sua riflessione di intellettuale del Novecento.
Allo stesso tempo, per cercare di rendere più fluida la trattazione, le sei opere ivi considerate sono
state raggruppate in tre macroinsiemi tematici: Pasolini e la borgata, Pasolini e il sacro e un terzo
gruppo di testi per film definiti «incerti» perché non perfettamente definibili in relazione a una
tematica. Si tratta di sceneggiature che, al limite, possono essere considerate un «ponte» tra una
categoria e l’altra (o le altre): essi sono Il giovine della primavera, il primo “timido” tentativo di
scrittura cinematografica di un diciottenne Pasolini, Il viaggio a Citera e Gilles de Rais. Si tratta,
ovviamente, di una suddivisione che implica un’interpretazione, quella del sottoscritto, “relativa”
nella misura in cui è consapevole della sostanziale impossibilità di separare in maniera netta “fasi”
o “tappe” della cinematografia pasoliniana. L’obiettivo è, ancora una volta, quello di offrire un
contributo finora inedito sulla filmografia incompiuta di Pasolini, che altri in futuro potranno
confutare o arricchire: insomma si pone, in ogni caso, come spunto di studio e di riflessione. Ne
consegue pertanto che tale interpretazione, essendo funzionale alla trattazione, non implica alcun
confine rigido, ma anzi invoglia e aspira a mantenere una certa fluidità di riflessione.
Alcuni di questi titoli incompiuti sono stati pubblicati (postumi) come sceneggiature fatte e finite,
come nel caso de Il padre selvaggio o del film su San Paolo. Altri sono comparsi su periodici del
calibro di Cinecritica, come nel caso del trattamento (sempre postumo) di Porno-Teo-Kolossal.
Dobbiamo credere che siano davvero morti questi film solo perché non sono stati editi e proiettati?
O perché non sono stati neanche scritti nelle forme canoniche e codificate dalla prassi
cinematografica? La domanda è lecita. L'incompiutezza della maggior parte dei lavori per il cinema
di Pasolini (trentadue mai realizzati versus ventidue film fatti e finiti) va intesa come «caratteristica
di ogni scrittura non finalizzata in se stessa, ma finalizzata a una resa visiva che trascende la
potenza della parola, diventa […] elemento di attesa, profezia di un’immagine a venire»
7
. Nessun
incidente di percorso, nessun imprevisto. Come per la morte del corpo, quella che il mondo
definisce “morte”, anche la dipartita delle opere fa parte di un piano sistemico, obbedisce a una
sorta di “Grande Idea”. L’intera operazione culturale portata avanti da Pasolini nel segno di
un’ossessione della morte ha fatto discendere tutta la sua produzione artistica da questa “Grande
Idea”, dalla pagina alla pellicola. Sottrarre Pasolini al dizionario vuol dire anche riconsiderare una
7
Ivelise Perniola, Partiture incompiute. La sceneggiatura, in Vito Zagarrio (a cura di), Utopisti, esagerati. Il
cinema di Paolo e Vittorio Taviani, Marsilio, Venezia, 2004, p. 121; anche in M. Ambrosini, La prefigurazione del film,
cit., p. 12.
8
sorta di primato del non finito sul finito. E la terminologia marxista non è affatto casuale.
Per Pasolini tanto il cinema quanto l’esistenza sono decifrabili e intellegibili unicamente dopo il
“montaggio” operato dalla morte. In questo senso potremmo (sempre provocatoriamente) dire che
l’opera filmica è viva fino al momento del montaggio, un istante prima di essere data in pasto alla
macchina della riproducibilità tecnica, al mezzo borghese del cinema, alla diffusione consumistica
del prodotto finito. Volendo essere estremi, si potrebbe considerare “vivo” il film che è ancora sulla
carta, potenziale, immaginato. Ma la morte è necessaria:
Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci. La morte compie un fulmineo montaggio
della nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti davvero significativi
8
.
Se il film ancora non esiste, esiste però il cinema. Pasolini lo intende come un piano-sequenza
«infinito come la realtà che può essere riprodotta da una invisibile macchina da presa»
9
, con infinite
possibilità espressive. Il suo ordine temporale è il presente. Il processo che dal cinema porta al film
è dunque il processo di riduzione dall’infinito al finito, dal presente al passato, dall’infinita
molteplicità di punti di vista potenziali alla scelta di uno o pochi selezionati angoli di visione. Il
processo, in pratica, che dalla vita precipita verso la morte.
Il continuo della vita, nel momento della morte – ossia dopo l’operazione del montaggio – perde tutta
l’infinità di tempi in cui vivendo ci crogioliamo, deliziandoci del perfetto corrispondere della nostra vita
fisica – che ci porta alla consumazione – col passare del tempo […] Dopo la morte, tale continuità della
vita non c’è più, m c’è il suo senso […] Bisogna dunque accettare la favola per forza. Il tempo non è
quello della vita quando vive, ma quello della vita dopo la morte: come tale è reale, non è un’illusione e
può essere benissimo quello della storia di un film
10
.
Perché dunque uccidere il cinema con il film? Perché realizzare un’opera, quando «è così bello
sognarla soltanto»?
11
Perché scegliere e tagliare la vita e la realtà per offrirne solo un pezzo, una
sensazione? Perché invece non lasciare a metà il processo, congelandolo nella forma scritta della
sceneggiatura (o soggetto o trattamento) lasciando che il calore del lettore contribuisca a
8
P. P. Pasolini, La paura del naturalismo. Osservazioni sul piano sequenza, in «Nuovi Argomenti», n. 6, aprile-
giugno 1967; ora in SLA 1 pp. 1560-61. Si tratta della relazione con cui Pasolini interviene alla Terza Mostra
Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, 2 maggio-4 giugno 1967.
9
P. P. Pasolini, Osservazioni sul piano sequenza, cit.
10
P. P. Pasolini, Essere è naturale?, in Empirismo eretico, Garzanti, Milano 2015, pp. 259-260.
11
E’ la battuta finale de Il Decameron, pronunciata da Pasolini-Giotto mentre rimira il suo affresco-film ormai
concluso.