INTRODUZIONE
Sin dagli albori del mondo della telecomunicazione, il messaggio mediale e quello
pubblicitario sono coesistiti, come si evince già dai primi tentativi della paleo-televisione
italiana con scopo pedagogico: la pubblicità appariva come un elemento imprescindibile
all’interno della narrazione televisiva, e doveva adeguarsi alle necessità di un pubblico
che oltre ad apprendere si divertiva ad assistere ad intervalli pubblicitari di qualsivoglia
genere di marca. Questa tendenza rispondeva al triplice mandato della televisione delle
origini: “educare, informare e divertire”.
Quando, negli anni Settanta, i paesi diventano avanzati dal punto di vista
dell’industrializzazione, la società non può che mutare, come muta il significato stesso
del consumo - la domanda è sempre più crescente, differenziata, specifica - e il pubblico.
La nuova figura dell’audience, sempre più partecipativa, getterà le basi, negli anni
Duemila, per l’affermazione del paradigma della digitalizzazione e della cultura
convergente.
Scopo di questa tesi è quello di accompagnare il lettore nel processo che ha segnato la
definizione dei rapporti tra il sistema mediale e quello dell’advertising, che sfocia al
giorno d’oggi in una logica alimentata dall’innovazione e dalla non convenzionalità: il
brand, “spogliatosi dalle vesti di comparsa occasionale all’interno di un più ampio
formato televisivo, diventa in prima persona editore e produttore di contenuti
mediali” (Giorgino, 2018), guidato da un fenomeno in continua evoluzione quale è quello
del branded content & entertainment.
Il nuovo panorama delineato appare multiforme e sfuggente, caratterizzato da una
moltiplicazione degli schermi che si accompagna a una crescita delle opportunità di
interazione da parte dello spettatore nel momento del consumo. Due sono i fattori
principali che hanno spinto il brand a relazionarsi in maniera più incisiva con i
broadcasters: il cambiamento del concetto di televisione e il ruolo sempre più attivo e
pervasivo dell’audience. La televisione è stata sempre oggetto di condivisione sociale, ma
solo oggi diventa concretamente smontabile, sopratutto grazie alla rete; infatti, la TV si
guarda sul web e si commenta sul web.
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Studiare un fenomeno complesso come quello del branded content & entertainment è
stato possibile anche, e sopratutto, volgendo lo sguardo alla strategia comunicativa messa
in campo dall’azienda Illycaffè. Prima di presentarne i risultati, a cui è stato dedicato
l’ultimo capitolo dell’elaborato, sono state ampiamente analizzate le potenzialità del
fenomeno del BC&E e il ricorso a questa procedura da parte dei brand, da un lato per
comunicare la propria brand identity, dall’altro per promuovere un prodotto o servizio.
Il primo capitolo lascia spazio a un inquadramento storico del fenomeno: il marchio è
passato dalle forme primordiali di product placement dei primi anni Ottanta all’ibrido
della brand integration nei primi anni Duemila fino alla nascita, ai giorni nostri, della
logica del branded content & entertainment.
Il secondo capitolo si concentra sui principali obiettivi connessi all’utilizzo di tale
strategia comunicativa, il cui punto di forza è l’attenzione per il consumatore, come si
evince dalla volontà di attrarre l’audience - ormai attiva - in una logica di engagement
basata sul modello pull e non push.
Una volta presentato il fenomeno in tutti i suoi aspetti teorici, inizierà la parte
sperimentale che sarà mirata allo studio dell’evoluzione odierna di questo nuovo modo di
agire del brand all’interno dell’universo mediale attraverso l’esempio dell’azienda
Illycaffè, appositamente scelta per aver fatto proprie esperienze pubblicitarie mirate, utili
e coinvolgenti.
Il terzo capitolo, quindi, presenterà il passaggio dell’azienda da semplice “brand” a vero e
proprio “lovemark”, in grado di restare a lungo nel cuore di chi lo sceglie perché sincero e
autentico. In particolare il capitolo verterà su un’analisi quantitativa: si studieranno
numeri relativi all’ambito finanziario, televisivo e comunicativo. I dati inerenti ai
programmi andati in onda, all’efficacia del sito web in termini di bounce rate e ATS
(Average Time Spent), ai dati di traffico dello stesso aiuteranno a trarre una conclusione
sullo sviluppo futuro negativo o positivo del fenomeno del branded content &
entertainment.
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Capitolo primo. Branded entertainment. Un inquadramento storico
1.1 La coesione tra il settore dei media e l’advertising
Content is king . Forse Bill Gates aveva ragione, come Sumner Redstone prima di lui: il
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contenuto è da sempre considerato sovrano della comunicazione, e a maggior ragione lo è
in quella contemporanea, dove le storie risiedono in ognuno di noi, sono tipiche del
nostro ragionare umano. Questo scenario apre le porte al branded entertainment, che
consiste nell’inserimento di una marca all’interno di un contenuto d’intrattenimento con
l’intento di rendere sfocata la sottile linea di separazione tra “intrattenimento” e
“pubblicità” (Moore, 2006); il risultato è un messaggio ibrido. Le aziende, da un lato,
risultano maggiormente coinvolte all’interno di contenuti audiovisivi; dall’altro
producono direttamente contenuti focalizzati sui propri valori, distribuiti attraverso la
televisione o altri media, capaci di soddisfare i gusti dell’audience (Scaglioni, Sfardini,
2017). La persona così si intrattiene, prova emozioni, viene stimolata e, al contempo,
vede il prodotto e/o la marca inserite nella storia, perfettamente integrate nell’architettura
narrativa (Landi, 2019, p. 63).
1.1.1 Le forme embrionali nel panorama radiotelevisivo
Il concetto di branded entertainment non è affatto nuovo; le sue origini storiche sono
facilmente riconducibili alla fine dell’Ottocento quando, già agli esordi del
cinematografo, alcuni film erano caratterizzati dalla presenza di marchi. Nella primavera
del 1896 i fratelli Auguste e Louis Lumiére stipularono un accordo di produzione e
distribuzione europea con François-Henri Lavanchy Clarke, uomo d’affari svizzero
conosciuto per il suo ruolo di rappresentante europeo per l’azienda di detersivi britannica
Lever Brothers. Nel mese di maggio dello stesso anno, nel giardino della casa ginevrina
di Lavanchy-Clarke, l’operatore cinematografico Alexandre Promio girò il primo
cortometraggio, intitolato Washing Day in Switzerland, con protagoniste due donne alle
Bill Gates ha pronunciato questa frase per la prima volta in un articolo del gennaio 1996, affermando: “i
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contenuti sono l’oggetto su cui mi aspetto che vengano sviluppati la maggior parte dei guadagni su
internet”. Prima di lui era stata usata, nel 1995, da Sumner Redstone, che ne diede una definizione piuttosto
ampia e variegata non circoscrivendola al solo contesto di internet, bensì comprendendo qualsiasi forma di
intrattenimento multimedia.
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prese con il lavaggio del bucato, con accanto due tinozze delle confezioni di sapone
Sunlight. Quest’ultimo non mancò anche in un secondo cortometraggio andato in onda in
autunno a Losanna, dal titolo Défilé du 8e Battalion (di Constant Girel, 1896). Si tratta
delle forme primordiali di product placement (Newell, Salmon, Chang, 2006). Esso può
essere definito come:
una tecnica di comunicazione aziendale mediante la quale si progetta e si realizza, a fronte di specifici costi
e nel rispetto di definiti contratti, il collocamento di un prodotto o di una marca all’interno di un contesto
narrativo precostituito (pellicola cinematografica, programma televisivo, romanzo, video musicale,
videogioco ecc.) (Gistri, 2007).
Tuttavia, è stato con Thomas Edison che questo fenomeno è diventato tendenza: i suoi
film furono un facile mezzo di promozione, sia per i suoi prodotti (come il fonografo), sia
per quelli di altre aziende, operanti ad esempio nel settore ferroviario statunitense.
A queste prime sperimentazioni che miravano a ridurre i costi di produzione, seguirono
negli anni Venti i primi accordi tra produttori cinematografici e aziende che si ponevano
lo stesso obiettivo: tale pratica è stata definita con una varietà di termini (l’espressione
“product placement” è stata coniata solo nel 1980), tra cui “publicity by motion picture”,
“co-operative advertising”, “tie-in advertising”, “exploitation” (Russell, 2007). Si trattava
di una scelta vincente per entrambe le parti, poiché l'industria cinematografica poteva
beneficiare dell'aumento delle vendite di biglietti grazie alla maggiore pubblicità per le
immagini, mentre i produttori ottenevano visibilità cinematografica per i loro prodotti e
un vantaggio sul mercato collegando i loro prodotti alle celebrità (attività di endorsement
degli attori delle pellicole). Un esempio è il film Dinner at Eight (di George Cukor,
1933), promosso attraverso una campagna da parte del brand Coca-Cola, che immortalava
l’intero cast del film mentre sorseggiava la bevanda.
La pratica del tie-in ebbe l’occasione di sfociare in programmi sponsor-owned, dove le
aziende avevano il pieno controllo sul modo in cui i loro prodotti venivano raffigurati: si
tratta di veri e propri branded films nei quali i brand, appunto, diventavano un elemento
imprescindibile all’interno della narrazione (Scaglioni, Sfardini, 2017). Un esempio è il
film animato A Coach for Cinderella (di Max Fleischer, 1936), dove gnomi e animali si
cimentano nella costruzione di un’automobile Chevrolet che conduca al ballo
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Cenerentola; quale miglior modo per un marchio di promuovere indirettamente i propri
prodotti?
1.1.2 La stagione delle soap opera
Intorno alla fine degli anni Venti del Novecento, le agenzie pubblicitarie statunitensi
iniziarono a servirsi della radio come medium principale in cui veicolare contenuti
pubblicitari (Lavin, 1995). Questo fu il motivo primario che rese possibile l’affermazione
delle soap-opera come nuove forme narrative e produttive di lunga serialità. Si trattava
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di un genere posizionato in fascia daytime e rivolto a un pubblico di casalinghe: gli
americani sostenevano che il ruolo più socialmente accettabile per le donne sposate fosse
quello di casalinga o madre di famiglia.
L’articolazione delle soap opera in episodi quotidiani introdusse delle personalità a cui il
pubblico potesse far riferimento: i personaggi si configuravano, da un lato, come amici
fidati per i consumatori e, dall’altro, come portavoce del prodotto per quanto riguardava
la marca. Poiché il messaggio di vendita era nascosto nella trama, si pensava che
suscitasse una maggiore credibilità e si traducesse in un risultato più efficace (Kretchmer,
2004, citato in Tuomi, 2010, p. 26), anche se i dibattiti in merito sono spesso sfociati in
un ripensamento delle modalità di veicolazione del contenuto, come si evince dalla
domanda di una segretaria di un’agenzia pubblicitaria:
Dovremmo intrattenere, e nel farlo sperare di vendere; o dovremmo continuare a vendere come in passato, e
fare uso dell’intrattenimento come una delle tante tecniche di vendita? (Kelly 1931, citato in Lavin 1995).
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Fu dunque sulla radio che inizialmente si convogliò il maggiore investimento da parte
degli inserzionisti; aziende come Procter & Gamble, Colgate-Palmolive, American Home
Products, Pillsbury e General Foods colsero fin da subito le opportunità offerte dal mezzo
L’espressione “soap opera” deriva dalla tipologia di prodotti pubblicizzati nelle prime produzioni
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statunitensi: detersivi e saponi che erano indirizzati tendenzialmente a un pubblico femminile. Inoltre, si
trattava di formati trasmessi durante il daytime, quando le casalinghe d’America erano solite dedicarsi alle
faccende domestiche. Da ciò deriverebbe il “soap time”, lo spazio giornaliero in cui erano mandate in onda.
“Shall we entertain, and in entertaining hope to sell; or shall we continue to sell as in the past, and make
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use of entertainment as one the several techniques of selling?”.
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