2
Cinquanta e dal clamore suscitato dall‟arrivo della Pop art americana, da cui si
discosta Pistoletto, e della Conceptual art più rigorosa, a cui non deve essere
assimilato Paolini, impegnato in un‟indagine autonoma sul sistema dell‟arte e
della visione. Ad una città come Torino, fortemente influenzata dallo sviluppo
industriale, bisogna tuttavia riconoscere di essere divenuta un polo attorno a cui
gli artisti iniziano ad elaborare una nuova funzione dell‟arte, in una rete di
rapporti con la storia e la società, e che trova terreno fertile di sviluppo e
diffusione nelle numerose gallerie che fioriscono in questo momento (dalla
Bussola alla Sperone), favorendo il debutto di nuove personalità, in primo luogo
Paolini e Pistoletto, e l‟emergere di nuovi fenomeni artistici come l‟Arte povera.
A quest‟ultima è dedicato un paragrafo che ne delinea i fattori determinanti e
passa in rassegna le principali esposizioni torinesi a cui prendono parte i due
artisti insieme ad altri giovani esponenti di questo rinnovato clima culturale,
ricordati in un‟appendice finale, per quanto le opere in questione non rientrino
nella breve, ma significativa, fase poverista della loro produzione.
Il cuore della tesi è rappresentato dai due capitoli centrali in cui vengono
affrontate più in dettaglio Megara e Senza titolo (donna che fugge), grazie
all‟intervista coi due artisti, alle informazioni fornitemi dai rispettivi collaboratori
e dal restauratore Davide Riggiardi, nonché alle ricerche svolte su numerosi
cataloghi di mostre personali e collettive e sulle monografie a loro dedicate.
Punto di partenza è la biografia artistica dei due maestri, significativa ai fini
della ricerca e volta a dimostrare la formazione autodidatta, per Paolini, e presso il
padre pittore-restauratore, per Pistoletto, gli stimoli, gli esordi, l‟attività artistica
sfaccettata (dalla pittura alla scultura, dal teatro all‟editoria d‟arte), le principali
tappe della loro carriera, segnata dalle esposizioni nazionali e internazionali a cui
prendono parte.
Dopo averne dato un inquadramento all‟interno dell‟ampio lavoro dei due
artisti, si passa all‟analisi dei due manufatti, per i quali ho cercato di ricostruire le
vicende storiche ed espositive precedenti l‟acquisto da parte del CIMAC, partendo
dai dati riportati sulle schede di catalogo e di archivio, e di chiarire eventuali
dubbi circa la precedenti collocazioni, la datazione e i materiali di cui si
compongono. Un valido aiuto a tal proposito, oltre al colloquio coi due artisti, mi
è stato dato da Maddalena Disch, responsabile dell‟Archivio Giulio Paolini, e dal
3
gallerista Massimo Minini, per quanto riguarda Megara, e dalla Fondazione
Pistoletto-Cittadellarte di Biella.
Argomento chiave è poi rappresentato dalle questioni tecniche e di restauro,
dalle quali emergono i principali problemi conservativi e i fattori di degrado che si
verificano in lavori di questo tipo: l‟opera di Paolini ha richiesto un intervento di
restauro ad opera di Davide Riggiardi (2002), in quanto la struttura tela-telaio
aveva perso la sua assialità e il caratteristico andamento concavo, oltre a
richiedere un‟attenta opera di pulitura, di cui necessitano i dipinti monocromi;
mentre la lastra di acciaio inox di Pistoletto presentava una deformazione
nell‟angolo superiore destro, sempre rincollato da Riggiardi, e tracce di
ossidazione sulla superficie. Ulteriori informazioni su una conservazione e
gestione ottimali delle due opere sono emerse dall‟intervista.
Di seguito ho tentato di affrontare più in particolare la questione del significato
presente nei due quadri, a cui contribuiscono le tecniche e i materiali utilizzati,
avanzando ipotesi di confronto sia con altri loro lavori che con altri artisti.
Servendosi di un materiale tradizionale come le tele, Paolini affronta l‟indagine
relativa allo spazio del quadro e alla capacità della tela di articolarsi sulla parete
senza “soccombere” ad essa, avanzando, se permesso, un confronto storico con
Tatlin e i suoi Angolari e, in anni più recenti, con Fontana e Castellani,
recuperando la prospettiva delineata dalle quattro tele triangolari per farne il
soggetto del quadro.
La grande novità dell‟arte di Pistoletto consiste invece nell‟aver usato l‟acciaio
come piano bidimensionale, e non più in chiave plastico-scultorea, e nell‟aver
sfondato al tempo stesso il piano pittorico, combinando due materiali così lontani
tra loro, l‟acciaio per l‟appunto e la velina dipinta, a cui aggiunge un terzo
elemento ancora più effimero quanto reale, il riflesso dello spettatore. Fedele allo
scopo di far entrare la vita nell‟arte e di portare l‟arte ai bordi della vita, incolla le
sue veline al contrario, attenuandone l‟effetto pittorico, che avrebbe ostacolato il
rapporto arte-vita, e dando l‟impressione di un racconto sospeso tra “dentro/fuori”
lo specchio, che solo lo spettatore può portare a termine. Per farlo bisogna voltare
le spalle e allontanarsi dallo specchio, come fa la Donna che fugge, tanto che lo
stesso Fontana manifesta il suo interesse nei confronti dei quadri specchianti,
“capaci di cogliere la realtà che diviene di fronte al quadro” e dimostrando di aver
saputo superare il significato che la tradizione artistica ha dato allo specchio,
4
come si può leggere nell‟approfondimento riportato in chiusura di tesi, dedicato
ad esempi e possibili confronti con opere in cui è presente una superficie
specchiante.
Ulteriori approfondimenti volti a chiarire la funzione della tela come “luogo
della rappresentazione” per Paolini e l‟evoluzione dalle prime tele verniciate ai
quadri specchianti di Pistoletto, accanto ad alcune riflessioni sul ruolo dello
spettatore e dell‟autore, concludono i due capitoli centrali.
Sulla base di quanto rivelatomi dai due artisti nell‟intervista, spunti critici e
personali intuizioni ho portato a termine questa ricerca, facendo emergere aspetti
che accomunano i due artisti o che li distinguono e proponendo possibili temi di
confronto che mi auguro possano essere un stimolo per un‟analisi critica che
affronti sotto nuovi punti di vista l‟arte di Giulio Paolini e Michelangelo
Pistoletto.
Vorrei qui ringraziare la dottoressa Marina Pugliese, per avermi dato la possibilità di affrontare
l‟arte contemporanea da un nuovo e interessante punto di vista, e il professor Zanchetti, per avermi
dedicato più tempo di quello che gli era dovuto; Giulio Paolini e Michelangelo Pistoletto, per
avermi permesso di entrare nel loro articolato mondo artistico, tecnico e concettuale, ma ancora
oggi attuale. Un particolare ringraziamento va ai restauratori Davide Riggiardi e Andrea Carini,
per la loro disponibilità e le preziose informazioni tecniche e di restauro, senza dimenticare coloro
che mi hanno dato la possibilità di risolvere dubbi e questioni poco chiare relative alle due opere
oggetto di tesi, potendo così proseguire nel mio lavoro: Maddalena Disch, Massimo Minini e i
collaboratori della Fondazione Pistoletto-Cittadellarte. Per il sostegno, sia economico che morale,
che ho ricevuto in tutti questi mesi ringrazio la mia famiglia, Stefano e tutti gli amici e amiche che
mi hanno accompagnato tra le “gioie e i dolori” di questi cinque anni di studio.
5
Capitolo 1 - LE TECNICHE E I MATERIALI
La tela α La filatura e le fibre tessili α La preparazione delle tele α Degrado,
conservazione e restauro delle tele α Il telaio: funzione e problemi conservativi α I metalli α
Il ferro e l’acciaio nell’arte α Tecniche di lavorazione del ferro e dell’acciaio α Degrado,
conservazione e restauro
Giulio Paolini e Michelangelo Pistoletto si affidano a diversi
materiali per dar vita alle loro opere, da un lato tele e telai e dall‟altra
lastre di acciaio inossidabile. Se ne illustrano qui le caratteristiche, il
loro impiego nella storia e le tecniche di lavorazione, con particolare
attenzione ai problemi di degrado, alle pratiche di restauro e alla
conservazione degli stessi.
6
7
Prima di trattare in specifico delle tecniche e dei materiali di cui sono composte le due
opere in oggetto, Megara di Giulio Paolini e Senza titolo (donna che fugge) di Michelangelo
Pistoletto, ho ritenuto utile fare una breve premessa sulla conservazione e sul restauro delle
opere d‟arte contemporanea, temi ampiamente trattati in numerosi dibattiti e convegni a
livello internazionale e che vedono il nostro Paese pienamente coinvolto1.
Il tentativo di mantenere l‟opera in uno stato di “eterna giovinezza” non è una novità
dell‟età moderna: lo si è ricercato per secoli e un punto fermo è stato segnato da Cesare
Brandi con la Teoria del restauro (Roma, 1963 e Torino 1977), da cui non può prescindere la
moderna pratica di restauro e che prevede di salvaguardare i materiali originali con interventi
riconoscibili senza modificarne la figurazione originale. Brandi afferma che il restauro è “il
momento metodologico del riconoscimento dell‟opera d‟arte nella sua consistenza fisica e
nella sua duplice polarità estetica e storica, in vista della sua trasmissione al futuro”2: questo
principio continua a valere in linea generale per l‟arte contemporanea e il primo passo per una
corretta conservazione resta la conoscenza dei materiali e delle tecniche usate. La stessa
premessa era già stata individuata per primo da Gaetano Previati nell‟Introduzione del 1918 al
Restauratore di dipinti di Secco Suardo (1894), in cui le sue convinzioni sul restauro si
saldano strettamente alla conoscenza approfondita delle tecniche3.
Tuttavia la situazione a cui ci si trova di fronte oggi è molto variegata ed eterogenea perché
si passa da tecniche più o meno tradizionali, all‟uso di nuovi prodotti usciti dall‟industria,
all‟assemblaggio di materiali di diversa natura, a opere prodotte in serie o con parti di scarto
di oggetti quotidiani, a installazioni fatte con meccanismi naturali o industriali, all‟uso del
1
Per ulteriori informazioni sulle ricerche, sul dibattito, sui materiali e sullo stato attuale della conservazione
dell‟arte contemporanea si veda il sito www.incca.org.
2
C. Brandi, Teoria del restauro, Torino, Einaudi, 1977, p. 6.
3
S. Bordini, L‟”Introduzione” di Gaetano Previati a “Il restauratore di dipinti” di Giovanni Secco Suardo, in
Giovanni Secco Suardo. La cultura del restauro tra tutela e conservazione dell‟opera d‟Arte, “Atti del
Convegno internazionale di Studi” (Bergamo, 9-11 marzo 1995), “Bollettino d‟Arte”, (supplemento), 98, Roma,
Libreria dello Stato, 1996, pp. 115-118.
8
corpo come mezzo espressivo4. Dai papier collé di Picasso e Braques del 1912-13 ogni genere
di materiale di uso comune viene sperimentato in ambito artistico. L‟uso di materiali
innovativi e particolarmente deperibili, prodotti nel XX secolo, ha innescato meccanismi di
degrado imprevedibili, conferendo all‟opera contemporanea la sua appartenenza al nostro
vissuto, con la conseguenza di essere in costante mutazione nel tempo5.
Il ruolo del restauratore d‟arte contemporanea è diventato così più complesso e
problematico, ma anche più innovativo e creativo non essendoci più una tradizione
consolidata di tecniche artistiche. Come afferma Heinz Althöfer:
“Non basta più conoscere i materiali e padroneggiare le tecniche del restauro per fare
un lavoro a regola d‟arte. E‟ ormai necessario penetrare nell‟universo intellettuale, nella
filosofia dell‟artista, perché altrimenti lo stesso punto di partenza del restauro sarebbe
sbagliato […]. Nel presente, nell‟arte contemporanea, sono gli stessi materiali ad essere
espressione della soggettività artistica”
6
.
Con queste parole si vuole sottolineare il dovere del restauratore di preservare all‟opera, in
quanto documento, la sua identità estetica e storica e di interrogarsi sul significato originale
che l‟artista stesso ha voluto comunicare.
La prevalenza dell‟aspetto mentale-ideativo su quello concreto-manuale ha portato a
trascurare volutamente l‟uso di materiali ideati espressamente per l‟arte, tornando a quelli
“bruti” e in cui ciò che riscatta l‟operazione creativa è l‟idea. L‟artista passa così dall‟uso di
4
Cfr. M. Pugliese, Le tecniche e i materiali nell‟arte contemporanea, “Atti dell‟Accademia dei Lincei”,
“MEMORIE”, serie IX, vol. XII, fascicolo 2, Roma, (Roma) STI, 2000, p. 145-146; O. Chiantore, A. Rava,
Conservare l‟arte contemporanea. Problemi, metodi, materiali, ricerche, Milano, Electa, 2005, pp. 11-15.
5
A. Rava, Metodi tradizionali e innovativi nel restauro dell‟arte moderna, in Arte contemporanea.
Conservazione e restauro, a cura di E. di Martino, Torino, Allemandi & C. per la Fondazione di Venezia, 2005,
p. 79.
6
H. Althöfer, Il restauro dell‟arte moderna e contemporanea, in Conservare l‟arte contemporanea, a cura di L.
Righi, Firenze, Nardini, 1992, p. 76-77. Althöfer è uno dei restauratori più accreditati nel contemporaneo: presso
il Centro di Restauro di Düsseldorf, insieme a Hiltrud Schinzel, ha avviato dal 1978 al 1981 la raccolta di
informazioni relative ai materiali e all‟apparenza visuale dell‟opera attraverso un questionario a cui gli artisti
rispondevano illustrando supporti, tecniche, materiali usati, dando informazioni sulla possibile manutenzione e
restauro delle parti deteriorate. Al convegno sul restauro a Rivoli nel 1987 dichiarò che è l‟opera a stabilire i
metodi della sua conservazione e che ciò vale anche per i manufatti che si negano alla conservazione. Cfr.
Chiantore, Rava, 2005, p. 61.
9
materiali artistici tradizionali alle tecnologie più innovative, portando la materia dell‟opera al
centro del momento creativo. Non deve stupire perciò che gli artisti sperimentino nuovi
pigmenti appena inventati, nuove resine e smalti sintetici introdotti dalle industrie, che si
prestano ad effetti estetici completamente diversi dai precedenti. Alla molteplicità delle forme
e manifestazioni dell‟arte contemporanea corrispondono così altrettante tecniche e materiali
espressivi7.
Parlare di “restauro contemporaneo”, come afferma Giovanna Scicolone, vuol dire pertanto
applicare un diverso e articolato approccio metodologico e tecnico, non invasivo, tale da non
“disturbarne” le caratteristiche estetiche e comportamentali, come invece accade con l‟arte
tradizionale8. E‟ questa una delle principali difficoltà della conservazione attuale ma che può
essere affrontata tenendo presente alcuni prerequisiti fondamentali9:
ξ i materiali costitutivi, come sono stati applicati o combinati e come si trasformano nel
tempo;
ξ preservare l‟intenzione dell‟artista che deve essere documentata;
ξ ogni opera è unica nella sua struttura e comportamenti e questo dovrebbe portare ai
soli interventi assolutamente indispensabili per risolvere il degrado, che di volta in volta
saranno diversi perché diverse sono le finalità;
ξ ogni intervento richiede una conoscenza approfondita delle cause del degrado e le
relative conseguenze;
ξ bisogna scegliere il prodotto più adatto, che non deve essere per forza simile all‟opera,
ma funzionale alle prestazioni richieste, stabilendo anche come applicarlo;
7
A. Rava, Il restauro dell‟arte contemporanea dal Dopoguerra, nuovi materiali e nuovi criteri d‟intervento, in
Arte contemporanea. Conservazione e restauro, “Atti del convegno di Prato” (Museo Pecci, 1994), a cura di S.
Angelucci, Firenze, Nardini, 1994, p. 38.
8
G. Scicolone, Il restauro “contemporaneo” dei dipinti su supporto cellulosico tessile, “Kermes”, anno XVI,
50, 2003, pp. 34-39; Rava, 2005, p. 81. L‟uso di tecniche tradizionali nel restauro delle opere d‟arte moderne è
stato definito da un artista contemporaneo, Gilberto Zorio, in un‟intervista: egli afferma che si tratta di un
paradosso paragonabile al restauro di uno smalto graffiato di una carrozzeria di automobile con una tavolozza di
colori ad olio. Questo a dimostrare come mal si adattano i metodi tradizionali, pensati per tutt‟altro contesto,
all‟intervento su qualcosa che non ha nulla di tradizionale.
9
Vedi Scicolone, 2003, p. 35; Chiantore, Rava, 2005, p. 20.
10
ξ non bisogna applicare i nuovi materiali sintetici coi metodi tradizionali e secondo
sistemi standard, poiché si rischia di non raggiungere gli obiettivi conservativi ed estetici
previsti;
ξ stabilire il progetto di intervento sulla base di considerazioni confrontabili e discutibili,
cioè oggettive e non più soggettive.
Fondamentale per l‟arte contemporanea è proprio la presenza dell‟artista che può fornire
una documentazione più precisa sulle caratteristiche fisiche e concettuali dell‟opera
danneggiata. Tuttavia dovrebbe astenersi dall‟intervenire direttamente sui suoi lavori con un
rifacimento poiché l‟intenzione, l‟abilità tecnica, la creatività non possono essere più gli stessi
di quelle che hanno portato alla nascita di quell‟artefatto molti anni prima: ne deriverebbe
un‟opera nuova e diversa. E‟ il restauratore, in accordo con l‟artista, che deve procedere
affinché l‟opera possa mantenersi intatta ancora a lungo o possa essere ricostruita con le
stesse tecniche e materiali.
La conservazione dell‟arte contemporanea deve quindi rispettare l‟originalità dell‟opera e,
solo se pienamente rispettosa, può mantenerne intatti la collocazione temporale e il messaggio
sia sul piano estetico che su quello contenutistico e delle idee. A tal fine oggi si tende sempre
più ad intervenire con un approccio interdisciplinare tra storici dell‟arte, restauratori e
chimici-analisti allo scopo di giungere a decisioni coerenti e corrette nei confronti dell‟opera
stessa e della sua identità.
11
~ La tela ~
Ai fini dell‟analisi dell‟opera di Giulio Paolini, Megara (1966), conservata presso il
deposito delle Civiche raccolte d‟arte di Milano, e della tecnica con cui è stata realizzata,
sembra opportuna una breve introduzione alla tecnica della tela e ai telai10.
~ Cenni storici ~
Nel 1681 Filippo Baldinucci scrive che l‟uso della tela per dipinti “fu invenzione mirabile
trovata dagli Artefici da centottantanni in qua circa”, fissando implicitamente la data di
nascita della pittura su tela al 1500, anche se non mancano testimonianze precedenti11, dopo la
sua introduzione da parte dei veneziani per facilitare, tra l‟altro, il trasporto dei dipinti. Quindi
necessità pratiche e commerciali accompagnano l‟affermarsi della tela, come Vasari stesso
conferma parlando della pittura ad olio. In particolare a Venezia si utilizzano tele in lino, che
meglio si adattano alle condizioni ambientali della laguna12: i fratelli Bellini e il Carpaccio ne
danno la migliore dimostrazione con i grandi cicli di teleri di metà „40013 e grandi
protagonisti della tela sono Tiziano e, ancora prima, il Mantegna, che mediante una stesura
10
Tra i testi a cui far riferimento si veda G. Perusini, Il restauro dei dipinti e delle sculture lignee, Udine,
Edizioni Del Bianco, 1989, pp. 233-239; M. C. Coldagelli, N. Torrioli, Introduzione ai supporti tessili, in I
supporti delle tecniche pittoriche. Storia/Tecnica/Restauro, a cura di C. Maltese, II tomo, Milano, Mursia, 1990,
pp. 9-46; N. Torrioli, Le tele per la pittura, ivi, pp. 49-81; S. Baroni, Restauro e conservazione dei dipinti,
Milano, Fabbri Editori, 1992, pp. 40-44; s.v. Tela, in A. Conti, L‟arte (critica e conservazione), Milano, Jaca
Book, 1993, pp. 428-430; G. Scicolone, Il restauro dei dipinti contemporanei. Dalle tecniche di interventi
tradizionali alle metodologie innovative, Firenze, Nardini, 1993, pp. 135-144; T. Mazzoni, All‟origine del
problema conservativo dell‟arte contemporanea, la pittura del XIX secolo. Materiali, tecniche e alterazioni, in
Arte contemporanea. Conservazione e restauro…, 1994, pp. 17-24; C. Alliata di Villafranca, Restauro dei dipinti
e tecniche pittoriche. Teoria e procedimenti operativi, Palermo, Quattrosoli, 1997, pp. 101-111; M. Matteini, A.
Moles, La chimica del restauro, Firenze, Nardini, 1999, pp. 348-349; E. Parma Armani, I tessuti propriamente
detti e le stoffe, in Le tecniche artistiche, a cura di C. Maltese, Milano, Mursia, 2000, pp. 413-427; Chiantore,
Rava, 2005, pp. 112-125.
11
Cfr. Torrioli, 1990, p. 67; Alliata di Villafranca, 1997, p. 105. Gli usi della tela risalgono infatti all‟età egizia
ed era diffusa in epoca costantiniana. In tela erano i gonfaloni delle confraternite del XIII-XIV secolo, mentre il
Cennini, in un capitolo del suo celebre Libro dell‟arte (fine XIV-inizio XV), si sofferma sul modo di dipingere
“su tela o in zendado” e descrive la preparazione della tela, dando diversi suggerimenti per preservare il supporto
tessile da eventuali danni. Per “zendado” Cennini indica la seta, termine derivato dal dialetto veneto-padovano.
In particolare vedi C. Cennini, Il libro dell‟arte o trattato della pittura (fine XIV-inizio XV), a cura di
F.Frezzato, Vicenza, Neri Pozza, 2003, cap. CLXII, pp. 182-183.
12
Torrioli, 1990, p. 74.
13
Vedi Alliata di Villafranca, 1997, p. 106. A Venezia l‟umidità ambientale e quella che risaliva dal sottosuolo
per capillarità non permettevano grandi cicli d‟affreschi, perché i supporti murari non garantivano stabilità: per
questo le grandi decorazione vennero eseguite su grandi pannelli di teleri.
12
magra lascia emergere la trama del tessuto dando un effetto geometrico prospettico14. In altre
zone d‟Italia, invece, si tende a utilizzare maggiormente la tavola (Roma, Firenze).
Il XVII secolo segna il declino della tavola e la completa affermazione della tela,
sottoposta a sperimentazioni successive tra „700 e „800 per renderla via via più sottile e
rispondente alle esigenze degli artisti: la varietà di trame e tessuti rende la tela un mezzo
adatto ad ogni tipo di pittura.
Con la produzione su vasta scala di tele, frutto del processo di industrializzazione e del
generalizzarsi delle accademie, si accompagna la standardizzazione del formato15, in
particolar modo in Francia. Molti artisti, inoltre, iniziano a tagliare e montare le tele da sé,
come è solito fare Constable per i suoi bozzetti dal vero e Renoir, che dopo aver comprato la
tela a metraggio la fa montare su telaio dal figlio Jean16.
Anche se l‟arte del XX secolo si caratterizza per una molteplicità di tecniche e materiali
nuovi, fino alle installazioni e all‟arte concettuale, occorre tener presente che molte opere non
rinunciano alla tradizionale pittura su tela; ma anche in questo settore della produzione
artistica si verifica un‟evoluzione tecnica e materiale. I principali cambiamenti rispetto ai
secoli precedenti sono l‟inaridimento delle preparazioni, che danno ora maggior opacità e
neutralità alle superfici anche per l‟eliminazione della vernice, e il cambiamento del supporto,
che dal telaio di legno passa ai pannelli in legno e compensato, carta e cartone incollate su tela
e tele libere inchiodate direttamente al muro17.Nonostante ciò la tela rimane il supporto più
usato per i quadri di grande formato: tra gli esempi troviamo Guernica di Picasso (1937) e le
grandi tele di Pollock e Hockey18.
14
Conti, 1993, p. 429.
15
Cfr. Torrioli, 2000, p. 84. Uno dei formati più antichi è il toile de prix, sorto presso l‟Accademia di Francia per
un concorso periodico a premi per la promozione degli allievi ai corsi successivi. Un altro formato usato a Roma
era quello imperatore.
16
Conti, 1993, p. 430.
17
Cfr. Chiantore, Rava, 2005, p. 112. Anche il sistema di trazionamento delle tele sui telai, in uso ormai da due
secoli, sembra andare incontro a cambiamenti notevoli: le tele di grande formato sono prive dei sistemi di
espansione tradizionale
18
Conti, 1993, p. 430.
13
Lo stesso Lucio Fontana si fa interprete di quella nuova tendenza che non considera più la
tela come semplice supporto: attraverso i tagli e i buchi diventa parte integrante della
rappresentazione, veicolo per introdurci ad una dimensione “altra”19. Allo stesso modo Burri
deforma la tela per renderla partecipe allo spazio come accade nei suoi Gobbi (fig. 1 – Vedi
Elenco delle immagini); Manzoni negli Achrome (1958-59) fa sì che la tela perda la funzione
di supporto per diventare soggetto stesso dell‟opera (fig. 2); Castellani, attraverso le
estroflessioni e le introflessioni, rende la superficie parte costitutiva dello spazio (fig. 3).
Partendo forse dalle medesime suggestioni, ma muovendosi secondo intenti diversi, Giulio
Paolini nel 1966 realizza le sue tele bianche, in cui rientra Megara, montate su telai di legno e
che si adattano allo spazio circostante: questi lavori seguono le direzioni dello spazio
espositivo e annullano al tempo stesso il quadro, facendolo uscire dai suoi confini per
identificarsi con lo spazio stesso20.
~ La tela e le sue caratteristiche ~
La tela è un tessuto costituito dall‟intreccio di trama (i fili disposti in verticale) e ordito
(quelli in orizzontale) per mezzo di un telaio. Per intrecciarli occorre mantenere i fili
dell‟ordito in tensione e paralleli, sollevarne una parte e, insieme, abbassarne un‟altra così da
formare un‟apertura (passo) in cui si fa passare la spola o navetta.
I tessuti hanno determinate caratteristiche che li qualificano, quali la dimensione e la
densità21, a cui si aggiunge l‟armatura, cioè il modo in cui trama e ordito vengono intrecciati
secondo determinate regole dando luogo alla formazione del tessuto22.
19
E. Crispolti, Sull‟avventura creativa di Fontana, in Centenario di Lucio Fontana, catalogo generale a cura di
E. Crispolti, Milano (23 aprile-30 giugno 1999), Milano, Charta, 1999, p. 51.
20
Giulio Paolini 1960-1972, catalogo della mostra a cura di G. Celant, G. Paolini, Milano, Fondazione Prada,
(29 ottobre-18 dicembre 2003), Milano, Prada Progetto Arte, 2003, p. 166, 194.
21
Vedi Coldagelli, Torrioli, 1990, p. 35. Ogni tela ha due dimensioni: l‟altezza che corrisponde alla larghezza
della trama e comprende le due estremità cimose; mentre la lunghezza è la misura lungo l‟ordito e teoricamente è
illimitata. La densità è il grado di fittezza del tessuto (prodotto n° fili/cm²).
22
Ivi. I principali tipi di armatura sono: armatura tela, composta da un singolo filo per ordito e uno per trama;
armatura a reps, usa quattro fili per l‟ordito e due per la trama o viceversa e ha un andamento a mattoncino, col
14
Per realizzare una tela si utilizzano le fibre tessili che possono essere trasformate in filati e
tessute secondo vari tipi di intreccio tramite il processo di filatura23, cioè quel complesso di
operazioni con cui si tendono e si torcono le fibre in un filo continuo. Gli strumenti per la
filatura si sono sviluppati fin dall‟antichità24, passando dalla produzione domestica a quella in
serie in seguito alla Rivoluzione Industriale25. Nel corso dell‟Ottocento tutti i procedimenti
preliminari alla filatura sono automatizzati (cardatura, battitura e pettinatura) col vantaggio di
ridurre i costi e permettere l‟uso di fibre corte.
Dalla filatura si ottiene il filato26, di forma cilindrica, più o meno sottile, caratterizzato da:
titolo (cioè la finezza del filo); numero di capi uniti tra loro; numero di torsioni per unità di
lunghezza sul singolo capo; numero di torsioni sui vari capi27.
Nel processo di filatura le fibre tessili danno luogo al tessuto dopo essere state trasformate
in filati. Importante è considerare la loro diversa origine per ottenere il tessuto desiderato e a
vantaggio di essere più fitta e densa; armatura diagonale (o saia): sposta di un solo filo i punti di legatura ad
ogni passaggio della trama a destra o a sinistra (diffalcamento) formando nervature oblique; armatura a spina di
pesce (o scaglia, spinata, spigata), si caratterizza per un disegno a zig-zag; armatura a losanga, deriva dalla
diagonale e si ottiene riutilizzando il rimettaggio a rovescio della spina di pesce “senso ordito”.
23
Ivi, 1990, pp. 26-27; Parma Armani, 2000, pp. 415-416. Anche Leonardo nel Codice Atlantico ha lasciato
alcuni disegni in cui sembra voler stabilire i principi teorici della filatura.
24
Vedi Codalgelli, Torrioli, 1990, p. 28. Tra i primi strumenti si ricordano la rocca e il fuso, per passare poi al
primo perfezionamento nel Medioevo con il filatoio a ruota, quindi il filatoio ad aletta del XV secolo, che
permetteva una filatura con torsione e avvolgimenti simultanei, e infine il pedale per muovere la ruota. Nel
complesso tra XIV e XVIII secolo le tecniche di filatura procedono lentamente rispetto a quelle di tessitura; ma è
con la Rivoluzione Industriale che il settore tessile passa dall‟ambito di lavorazione domestica al sistema di
fabbrica.
25
Ivi, p. 28. Numerose sono le invenzioni che si susseguono, soprattutto in Inghilterra, dove nel 1733 fa la sua
comparsa la navetta volante di John Kay, per rispondere alla crescente richiesta di filato. Seguono le prime
macchine per produrre in una sola volta un gran numero di fili; la Spinning Jenny, in Italia detta Giannetta,
inventata e brevettata da James Hargreaves nel 1769; il filatoio lavoro continuo inventata da Arkwright nel 1768,
poi divenuta il filatoio ad acqua perché venne impiegata la forza idraulica. Queste due macchine vennero
combinate da Crompton nel 1779 per ottenere tessuti forti e uniformi con la sua Mule o filatoio intermittente.
26
Ivi, p. 29. I principali filati sono: i filati semplici, formati da un solo filo di torsione e spessore determinati;
filati ritorti: formati dalla torsione di due o più fili semplici; i filati pettinati, prodotti dalla filatura della fibra
pettinata, compatti e uniformi; i filati cardati, prodotti dalla filatura della fibra cardata, meno omogenei ma più
voluminosi dei pettinati; filati a bava continua, prodotti da un certo numero di filamenti elementari (bave) e non
dalla filatura, come per la seta.
27
La torsione è necessaria a garantire la coesione delle fibre che compongono il filato o per legare tra loro due o
più capi. La sua entità si esprime col rapporto tra il n° di giri di filo sul suo asse e l‟unità della sua lunghezza.
Essa influisce direttamente sulle proprietà del filo e del tessuto: maggiore è la torsione e maggiore è la resistenza
del filato alla trazione, mentre minore è la sua elasticità. I filati a torsione maggiore sono destinati di norma agli
orditi, quelli a torsione minore alle trame.
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tal proposito si distinguono in naturali, artificiali e sintetiche: tutte hanno determinate
proprietà da cui dipende la qualità del prodotto28.
a) Fibre naturali
Si suddividono in: fibre animali, composte da proteine (seta e lana); vegetali, costituite da
cellulosa29 e sostanze incrostanti da rimuovere (cotone, lino, canapa, juta, ramié); minerali,
che non sono propriamente fibre ma possono essere trattate come materiali tessili, ad esempio
negli arazzi (oro, argento, rame, ottone argentato). In questa sede mi soffermerò
principalmente sulla seconda classe di fibre naturali visto il loro utilizzo come supporto
pittorico.
Il lino30, ricavato dalla pianta omonima, è usato fin dall‟età neolitica e raggiunge un alto
grado di perfezione nell‟antico Egitto fino a raggiungere un‟ampia diffusione in tutta Europa
a partire dal 1300.31. Insieme alla canapa è il supporto tessile più usato in pittura, rimasto
quasi inalterato fino al XIX secolo. Le tele di lino più pregiate sono la batista, finissima e
serrata, supporto adatto per la pittura a cera, come afferma Diderot32, e il canovaccio, una tela
più scabra ma molto resistente, fatta in lino robusto o forse in canapa. Dopo l‟utilizzo
abbondante in campo artistico nel corso del XIX, soprattutto in Inghilterra, all‟inizio del
secolo successivo viene via via abbandonato a favore del cotone; tuttavia resta il materiale di
28
Cfr. Perusini, 1989, pp. 233-235; Torrioli, 1990, pp. 9-26; Alliata di Villafranca, 1997, pp. 103-104; Parma
Armani, 2000, pp. 413-414.
29
Vedi Coldagelli, Torrioli, 1990, p. 13. La cellulosa è un sostanza fibrosa di colore bianco ed è la componente
principale delle fibre vegetali. E‟ igroscopica, sensibile agli acidi e ai microrganismi e soggetta all‟ossidazione.
30
Ivi, p. 18; Alliata, 1997, p. 103. Il lino (Linus usitatissimus vulgare) appartiene alla famiglia delle Linacee e
contiene il 76-88% di cellulosa con fusto sottile e fistoloso e corteccia fibrosa a lungo tiglio, cioè a lunghi
filamenti tessili. La lunghezza può essere di 50 cm e può raggiungere il metro, ma è formato dalla
concatenazione di molte fibre elementari di diversa lunghezza e irregolari per spessore. La materia tessile si
ottiene per macerazione della fibra della pianta in acqua tiepida, in cui si decolora andando dal bianchiccio al
grigio chiaro; segue l‟asciugatura e la stigliatura (o battitura) in cui si separano i fasci di fibre tessili dalle parti
legnose dello stelo. Infine la pettinatura che separa le fibre in base alla lunghezza, eliminando quelle troppo corte
o di scarto dell‟operazione precedente.
31
Fra 1200-1300 la manifattura del lino si espanse nelle Fiandre, in Inghilterra e Germania, dando luogo alla
cosiddetta “fascia del lino”, che si estenderà poi al Nord e all‟Ovest.
32
Torrioli, 1990, p. 88.