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CAPITOLO PRIMO
Albori e sviluppi dell’istituzione penitenziaria
1.1 Excursus storico e sociologico del sistema e della pena carceraria
Multiculturale, senza tempo e pressoché irreparabile.
Nel tentativo di ricostruire i particolarismi che, attualmente, si celano all’interno
dell’incoerente ed enigmatica realtà penitenziaria occorre destreggiarsi nella
considerazione che la concezione della pena si sia evoluta unitamente a cambiamenti
socioeconomici delle società, le quali le attribuivano, conseguentemente e
contestualmente, differenti significati. L’istituzione carceraria del ventunesimo secolo e
i suoi attori sono primariamente il frutto di un processo di civilizzazione dell’uomo, che
ha permesso al sistema in oggetto di collocarsi in una più ampia ottica di
responsabilizzazione verso l’Altro, mossa dal rispetto verso la dignità umana e
culminando nel principio di educabilità del soggetto recluso.
La disciplina sociologica illustra e analizza il mondo del carcere come società a sé
stante, barricata nelle e dentro proprie contraddizioni. Definiamo l’oggetto come
un’istituzione sociale e totale, considerato il potere avvolgente e penetrante che riveste
nell’intimità dell’individuo colpevole di reato. Nell’effettivo, in effetti, il soggetto che si
trova nella condizione di dover scontare il proprio illecito è, doppiamente in uno stato di
costrizione per il dover “dividere una situazione comune […] in un regime chiuso e
formalmente amministrato”
1
. L’individuo, non avendo scampo a dover coabitare con
altri, si trova immerso in un ambiente innaturale, necessitante di giustificazioni circa la
propria esistenza e solida attuazione che detiene, sin dall’antichità, con minore o
maggior forza, il potere, in uno spazio delimitato che, Goffman E., in Asylums. Essay on
the social situation of mental patients and other inmates, sostiene essere atto a
“proteggere la società da ciò che si rivela come un pericolo intenzionale nei suoi
1
Goffman, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Torino, Giulio
Einaudi editore, 2010, p. 29.
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confronti”
2
.
Allora, a proposito, nell’ampio scenario della previa citata istituzione totale, quella
carceraria in particolare risulta essere la più conforme a caratteristiche dicotomiche,
proprio per la forte, indubbiamente, malavoglia del detenuto di trascorrere una parte
della propria esistenza dietro le sbarre con ciò che ne concerne e, parallelamente, la
resistente presa d’autorità di coloro che hanno il dovere di esercitarne sorveglianza.
È possibile ricondurre una prima origine del penitenziario, inteso come “luogo in cui
vengono eseguite le pene detentive”
3,
ai tempi a cavallo tra XVIII e XIX secolo, dove la
reclusione riveste il ruolo di principale strumento sanzionatorio a livello penale contro
la criminalità; sebbene, in principio, il trattamento nei confronti del reo si articolasse in
pene corporali e pecuniarie, senz’altro niente a che vedere, dunque, con il terzo comma
dell’art. 27 della Costituzione che incarna gli ideali della nostra attuale società, ben
lontani da quelli passati. Infatti, sono molti i decenni che separano i tali da quelli in cui,
sostiene Foucault M., le prigioni erano considerate “di sovranità”
4
, volte al massacro
fisico di coloro che non rispondevano agli allora atteggiamenti ritenuti consoni.
Ciononostante, oggi come ieri, il sistema carcerario è visto, dall’individuo privato della
libertà, come una punizione; con la differenza che, odiernamente, se sfruttate le proprie
potenzialità da istituzione democratica, può essere in grado di giovare all’esistenza di un
soggetto, momentaneamente, offuscato dal giudizio.
Certamente, è indubbio il primario compito dell’istituzione di difendere la società per il
considerevole periodo di tempo in cui lo si ritenga necessario, nonostante siano, tuttora,
molte le ricerche ad averne dimostrato, spesso, il fallimentare esito, dimostrabile dalla
consultazione dei risultati della ricerca quantitativa allo specifico riguardo dei dati
ISTAT sulla recidiva
5
, quale azione illegale effettuata da un soggetto a seguito di una
prima scarcerazione, in costante aumento. Paradossalmente, tale tasso, in Italia, sembra
essere annualmente sempre più accresciuto da detenuti autoctoni rispetto a quelli
2
Ivi p. 34.
3
Fonte https://www.treccani.it consultato in data 27 ottobre 2022.
4
Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Giulio Einaudi editore, 1976, passim.
5
“In Italia, il tasso di recidiva tra coloro che hanno scontato una pena in carcere è del 68%” Fonte
www.ristretti.it consultato in data 03/11/2022.
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stranieri, che pur trovandosi in una terra non propria con ciò che ne consegue e, spesso,
in una condizione di svantaggio di comprensione dialogica, riescono a redimersi,
penalmente e umanamente parlando, immettendosi presto su una più giusta via della
legalità.
Ad ogni modo, dobbiamo alla fine del Settecento del secolo scorso un primo intento di
trattamento contro la criminalità che sappia approfittare e sfruttare la detenzione ai fini
di rendere l’individuo un soggetto migliore, per il Sé e il collettivo; dovutamente a un
progressivo controllo dello Stato verso il crimine, nonché una categorizzazione dei
differenti modi dell’essere deviante, frutto di studi da esperti nel settore; una nascita di
istituti di esclusione e segregazione quali, a proposito, penitenziari, con la generale
accettazione dell’idea che la mente possa essere modellata per sua plasticità.
Leggiamo dunque, in questa chiave, un sostanziale processo di civilizzazione
dell’Uomo riconducibile al periodo dei lumi, rispetto agli strumenti fino a quel
momento adottati per affrontare la criminalità, riscontrabile a partire dalla seconda metà
del XVIII secolo, quando numerosi fra i più brutali mezzi, quali impiccagione;
marchiatura; tortura e maltrattamenti, cominciarono a subire una sempre più progressiva
riduzione, fino al culmine epocale dell’abbandono della punizione corporale e nascita,
in sviluppi successivi, del carcere così come lo conosciamo oggi.
1.2 La finalità rieducativa della pena
Al termine del paradigma classico sopraggiunge quello positivistico, che comporterà la
rinuncia alla funzione afflittiva, fino a quel momento protagonista dello scenario
dell’esecuzione penale. Dunque, diversamente da quella precedente sul diritto penale, la
scuola positiva associava il comportamento delinquenziale, o criminale, a stimoli
ambientali, sostenendo, pertanto la stretta connessione tra un soggetto e il proprio
contesto e, parallelamente, il condizionamento del primo dal secondo.
Il lungo viaggio verso la singolare individuazione e flessibilizzazione delle pene
condurrà l’uomo verso quella moderna penalità che prevede, odiernamente, una
funzione interventista e assistenziale da parte dello Stato nei confronti dell’individuo
privato della libertà, nonché un’umanizzazione del trattamento a lui rivolto; allo scopo
di un futuro reinserimento sociale, sorretto da un guidato apprendimento alla propria
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responsabilizzazione.
Per cominciare, è la Legge del 26 luglio 1975 n.354 a cambiare le carte in tavola: “Il
trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto
della dignità della persona. […] è improntato ad assoluta imparzialità, senza
discriminazioni in ordine e nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a
opinioni politiche e credenze religiose”
6
. E ancora, circa un sigillato abbandono alla
coercizione carceraria: “Non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le
esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non indispensabili a fini giudiziari”
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.
Ne consegue che, fino ad allora, il principio di rieducazione godeva unicamente di
teorizzazioni, per mano di correnti di ordine correzionalista.
Comunque, è riconducibile a tempi relativamente recenti l’effettiva pratica dell’art. 27
Comma 3 Cost., per cui le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”
8
. Il
suddetto, per l’appunto, per sua natura di essere umano, deve poter giovare, per diritto,
dell’opportunità di abbracciare una nuova esistenza. Dietro all’obiettivo della
risocializzazione del reo, si cela quello primario della pena: la ricostituzione del
rapporto, precedentemente danneggiato, con la società. Conseguentemente, essa
dovrebbe essere in grado di accoglierlo al suo ritorno e qualora egli, in condizione di
semilibertà
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, avesse la possibilità, nonostante la reclusione, di lavorare all’esterno delle
mura carcerarie. Buoni o cattivi: la società ha, da sempre, la tendenza a collocare un
individuo entro una certa macroarea, donando, di rado, il permesso a quest’ultimo,
nonostante proprietario della propria esistenza, di collocarsi in un’altra.
L’identità è, in questo senso, frutto di un’immagine approvata e riconosciuta dal Sé e
dai restanti individui.
Come afferma Colombo G., ai fini di un funzionamento coscienzioso della società è
necessaria una relazione avente una reciproca responsabilità e “chi perdona ha la
responsabilità di ri-accettare; chi è perdonato ha la responsabilità di usare
6
Fonte https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1975/08/09/075U0354/sg consultato in data 18 dicembre
2022.
7
Ibidem.
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Fonte https://www.senato.it/istituzione/la-costituzione/parte-i/titolo-i/articolo-27 consultato in data 20
dicembre 2022.
9
Il detenuto in semilibertà, per propria condizione, ha il permesso di partecipare ad attività esterne
all’Istituto Penitenziario cui collocato; per fini lavorativi o di istruzione.