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Introduzione
Ho voluto incentrare il fulcro di questo lavoro su due aspetti particolari (nonché
personali) che caratterizzano la mia generazione, ma non solo. La depressione e i
meme. Il motivo che mi ha spinto a voler trattare l’aspetto relativo alla depressione è
dovuto (a parer mio) al fatto che, parlare di disturbi mentali non sia mai stato un
argomento semplice da affrontare, sia dal punto di vista di chi deve trattare questo tema,
ma soprattutto dal punto di vista di chi ne soffre in prima persona. Questi disturbi a cui
mi sto riferendo, che ancor oggi vengono visti come veri e propri tabù sociali in buona
parte del mondo – e per comprendere ciò, basti pensare che in passato le malattie
mentali venivano associate al soprannaturale, a qualcosa che trascendeva la sfera della
realtà e che pertanto dovevano essere estirpate e ‘curate’ con metodi ortodossi e a dir
poco discutibili – possono essere molti e diversi tra loro e generalmente vengono
caratterizzati come una combinazione di pensieri anormali, quali possono essere
percezioni, emozioni, comportamenti, relazioni con gli altri e non solo. I disturbi
mentali sono vari e possono includere: depressione, disturbo affettivo bipolare,
schizofrenia e altre psicosi quali: demenza, disabilità intellettive e disturbi dello
sviluppo. Fatto questo preambolo, ho voluto focalizzare (o meglio, affrontare
timidamente) una parte di questo lavoro sulla depressione per tre motivi principali, di
cui il primo è relativo ai numeri che risultano alquanto spaventosi: si registra che oltre
350 milioni di persone al mondo soffrono o manifestano disturbi depressivi (numero
che equivale a più della popolazione degli Stati Uniti) e dato ancora più spaventoso
registra che due persone su tre rifiutano l’idea di una cura o terapia che possa consentire
a queste persone di poter svolgere una vita sociale ‘normale’ (ammesso che di normalità
possiamo parlare).
Per molti la depressione viene definita come la malattia del secolo e negli ultimi
anni ha visto un incremento spaventoso soprattutto tra i giovani, i quali, si sentono
sempre più precari e incerti nei confronti del futuro che li attende, e questo mi porta al
secondo motivo. Se stabilire il livello di intensità con cui si manifestano i disturbi
dell’umore per poterli analizzare, affrontare, classificare e superare è compito di
specialisti – e non è e non sarà lo scopo di questo lavoro – cercare di comprendere il
punto di vista di chi ne soffre, permettendogli di vivere e di integrarsi allo stesso modo
di una qualsiasi altra persona al mondo, dovrebbe essere compito di ognuno di noi.
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Molto spesso si cade nel pregiudizio di etichettare le persone affette da disturbi e disagi
mentali come persone ‘diverse’, conducendo le stesse a sentirsi emarginate dalla
società e di conseguenza a rifiutare un percorso di cura poiché spaventate da quello che
potrebbe essere il (pre)giudizio altrui, in cui piuttosto che riconoscere un depresso allo
stesso modo di un malato di diabete, lo si preferisce allontanare ed etichettare come un
malato di serie B, portandolo nella maggior parte dei casi a chiudersi e a isolarsi in se
stesso – con le conseguenze più frequenti che lo conducono ad aver timore di accettare,
riconoscere e a riuscire a parlare della sua condizione sia con se stesso che con il mondo
circostante. Questo pregiudizio viene chiamato ‘stigma’, parola di etimo greco che
significa ‘marchio’ e nell’antica Grecia veniva utilizzata per distinguere i ruoli
gerarchici tra servo e padrone; oggi con questo termine si fa riferimento ad un tratto
discreditante, in cui si declassa una persona sotto un altro rango sociale, in altre parole
è come se una persona affetta da una patologia mentale valesse meno di una persona
relativamente ‘normale’, il che alimenta stereotipi e discriminazione sociale, come
sosteneva a gran voce Erving Goffman. Tra le cause più comuni che portano alla
stigmatizzazione nei riguardi delle persone affette da disturbi mentali vi sono dunque
due fattori principali: da una parte il pregiudizio, e dall’altra l’emarginazione. Una
mancanza di una conoscenza chiara sui disturbi mentali aumenta e intensifica il
manifestarsi di pregiudizi e di idee distorte, spesso alimentate dai mass media e della
disinformazione; il problema dovuto all’emarginazione risulta chiaro come accennato
pocanzi, se il malato mentale, ergo il depresso, venisse considerato come un malato
qualsiasi si accetterebbe senza troppe difficoltà il concetto di cura e di terapia, sia per
esso che per la società in cui si trova, ma a causa dello stigma il ‘malato mentale’ viene
screditato piuttosto che aiutato.
La soluzione potrebbe sembrare alquanto semplice, ovverosia considerare la
depressione come una qualsiasi malattia non diversa dalle altre, che può essere
affrontata e trattata normalmente e di cui non ci si dovrebbe vergognare nel parlarne
apertamente – anche perché una persona su quattro al mondo ne soffre e soprattutto a
causa della sua manifestazione che non può essere preveduta ma che può palesarsi in
qualsiasi momento della vita in ogni individuo – e magari cambiare attitudine e
percezione, e se in alcuni paesi al mondo come la Cina questo cambiamento sta
avvenendo, in cui i disturbi mentali iniziano ad essere percepiti come ipotetiche fasi
della vita, in cui la mente segue un percorso differente, talvolta caratterizzato da una
maggiore creatività (come aveva individuato Aristotele nella melanconia), nel resto del
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mondo ciò non accade, e ancora oggi si fa fatica a parlare apertamente di depressione,
ancora oggi chi ne soffre fa fatica a comunicarlo ad altri e si preferisce evitare di
affrontare un problema – o un disagio – che sta diventando parte integrante del nostro
tempo e che non può più essere sottovalutato, ma che necessita assolutamente di essere
normalizzato. Il che mi porta al terzo nonché ultimo motivo.
Risulta paradossale che nella cosiddetta era della comunicazione che stiamo
vivendo non si comunica a sufficienza, o che si comunica solo ciò che si vuole o si
preferisce comunicare, ma se questo dato risulta alquanto scoraggiante, negli ultimi
anni si sta diffondendo – in quella sfera di mondo che potremmo chiamare digitale –
un fenomeno alquanto bizzarro quanto estremamente potente, che riesce a contenere in
sé una grande forza comunicativa e discorsiva, in grado non solo di poter parlare e
trattare qualsiasi argomento – anche quelli che solitamente vengono ritenuti scomodi e
‘disturbanti’ – ma soprattutto che consente di creare tramite delle semplici operazioni
di condivisione e riproduzione delle vere e proprie interazioni e connessioni virtuali in
cui le persone possono dar voce alle proprie emozioni, ai loro turbamenti e alle loro
angosce e così facendo riescono a sentirsi unite, partecipi e comprese. Questo
fenomeno a cui mi sto riferendo viene descritto come il fenomeno di Internet, o
semplicemente ‘meme’.
Che i meme abbiano acquisito popolarità e fama è ormai cosa nota e
consolidata, tant’è che qualsiasi utente che si imbatte quotidianamente nella sua
homepage di Facebook (giusto per citare un social network qualsiasi) sarebbe in grado
di riconoscerne i più famosi e i più iconici. Ma qual è il segreto di questo successo?
Questo lavoro verrà suddiviso in tre parti. Nella prima, che sarà incentrata sui
meme, partiremo analizzando proprio questo termine da un punto di vista etimologico
inizialmente, e seguiremo la sua evoluzione a partire dalla sua nascita nel 1976 –
quando il biologo britannico Richard Dawkins lo coniò nel suo libro The Selfish Gene
sostenendo che, proprio come i geni che si trasmettono da generazione a generazione,
il meme (o i memi) sarebbero delle unità culturali che si replicano nei cervelli umani e
quindi, la moda, gli atteggiamenti, le tendenze e le usanze che conosciamo oggi non
sarebbero altro che memi che si propagano tra gli esseri umani attraverso la copia e
l’imitazione che sono in continua evoluzione – fino ad arrivare ad analizzare la nascita
e la disfatta della memetica; che dovrebbe porsi come lo studio dei modelli culturali
che riguardano l’evoluzione (culturale per l’appunto) dell’essere umano, e di come
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questa sia caratterizzata da un continuo binomio tra assimilazione ed evoluzione, in cui
fattori esterni, le idee, esperienze e conoscenze che ci circondano vengono assimilate e
incorporate nella nostra esperienza che a sua volta sarà assimilata da altri e così via in
un processo ritenuto simile a quello biologico (ma vedremo che non sarà proprio così);
e dunque, partendo da questo rapporto non troppo simmetrico tra il gene e il meme, e
di conseguenza tra biologia e cultura, vedremo come il concetto di meme sia riuscito a
distaccarsi dal suo alveare scientifico per approdare – portandosi dietro alcuni dei suoi
elementi e delle sue caratteristiche in tutt’altro campo – su Internet.
Attraverso un’analisi storica analizzeremo i primi meme di Internet, fino ad
arrivare a quelli più fortunati e iconici del Web 2.0, tra cui All your base belong to us,
gli Advice Animals e i Rage Comics, e proprio da questi vedremo come, con delle
semplici faccine (che venivano utilizzate a mo’ di fumetto per creare per lo più
immagini e vignette comiche e satiriche) si inizia a consolidare il concetto di meme
come forma di espressione, propaganda e comunicazione, ed è proprio da questo
momento storico in poi che i meme iniziano non solo di circolare qua e là sul web e sui
social network ad una velocità senza precedenti, ma iniziano a diventare delle vere e
proprie grammatiche narrative (ironiche) in grado di attirare a sé una fetta sempre
maggiore di utenti che, conoscendoli e utilizzandoli con costanza iniziarono a dar vita
alle prime forme di (ri)condivisione e alla cosiddetta ‘meme culture’ all’insegna
dell’ironia più totale. Vedremo come la sua struttura sia stata soggetta a diverse
modifiche nel corso degli anni, ma ci soffermeremo per lo più sulla iconica e famosa
formula dell’immagine macro ‘top/bottom text’, ovverosia immagini (o semplici
template) basiche sulle quali vengono appiccicate sopra diverse frasi e scritte (a mo’ di
didascalie) che solitamente vengono utilizzate per far letteralmente parlare il meme;
fino ad arrivare ai meme contemporanei, che, si differenziano dai loro predecessori
tramite un nuovo uso dell’ironia (o meglio della post-ironia come vedremo).
Nella seconda parte il focus verrà focalizzato sul tema della depressione,
compiendo un breve studio di carattere storico-sociale in un primo momento, e
successivamente fondendo la depressione con i meme, nel tentativo di dimostrare che,
proprio grazie a questi ultimi, possiamo oggigiorno parlare e trattare temi delicati come
ad esempio la depressione. Ritengo che, grazie alla loro universalità e tramite il loro
carattere ironico, i meme rappresentano in questo particolare momento storico, lo
strumento ideale per smontare determinati pregiudizi e che possono consentirci di poter
arrivare a normalizzare determinati aspetti e tematiche del nostro tempo.
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Nell’ultima parte di questo lavoro l’attenzione verrà focalizzata su un tema,
nonché argomento, comune un po' a tutti, il 2020, o per essere ancora più specifici, la
pandemia. In questa parte oltre ad analizzare alcuni degli effetti e delle conseguenze
che la pandemia ha avuto, e che in un certo senso continua ad avere sulla nostra psiche
e sulla nostra esperienza quotidiana – in cui proveremo a proporre alcuni spunti su
come affrontare un problema che risulta ancora presente – analizzeremo e prenderemo
in considerazione alcuni tra i meme più famosi che ci hanno accompagnato (a aiutato)
durante l’anno, e proveremo ancora una volta a rintracciare nella dimensione collettiva
e solidale dei meme una vita d’uscita da quello, che per molti, verrà ricordato come
uno degli anni più deprimenti di sempre.
Ciò che ritengo è che, se i meme sono riusciti a spopolare e a diventare un
fenomeno collettivo di massa negli ultimi anni, è proprio perché questi non devono
essere pensati semplicemente come delle immagini o dei frammenti di testo ai quali si
fa ricorso per fare un po’ di sano umorismo o della satira (o meglio, sono molto più di
questo), ma sono strumenti discorsivi molto potenti che possono essere in grado di
parlare (e anche manipolare delle volte, come ad esempio nella campagna elettorale
americana del 2016) alle masse – grazie al loro linguaggio universale e al tempo stesso
semplice – ma soprattutto hanno la capacità di creare un forte legame autoreferenziale
del tipo ‘vedo un meme e mi rivedo in esso’. Queste nuove forme di comunicazione, o
queste grammatiche se si preferisce, sono in grado di riuscire a dar sfogo ai propri
pensieri, alle proprie emozioni (spesso oppresse o censurate) e consentono di arrivare
a parlare apertamente di ciò che ci circonda grazie al carattere ironico e spesso sincero
che caratterizzano i meme e l’intero processo memetico di Internet. E tra i tanti temi
che vengono toccati e presi di mira dai meme, non mancano quelli che potremmo
definire ‘più esistenziali’, che nel nostro caso parlano appunto di depressione e disturbi
mentali, e in virtù di ciò ritengo che molto spesso questi meme che comunicano temi
complessi e attuali quali depressione, ansia e isolamento sociale (e delle volte anche
suicidio), non vengono compresi a sufficienza, o vengono definiti di cattivo gusto; e
proprio quel che vorrei dimostrare è che ci si dimentica che, in realtà, questi vengono
utilizzati per dar voce ad un pensiero represso, un pensiero difficile da esternare senza
rincorrere nel rischio di essere giudicati, fraintesi, disprezzati o addirittura isolati. In
questo caso le proprie debolezze e le proprie fragilità non solo vengono esternate e
condivise in uno spazio interattivo in cui orbitano migliaia di altre persone che possono
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comprenderle e che ne riconoscono l’importanza, ma soprattutto in uno spazio in cui,
queste persone, che ironizzando e in un certo senso che si prendono gioco di alcuni
aspetti della propria esistenza, possono sentirsi più sicure e meno sole, e al tempo stesso
sono in grado di poter comunicare la propria condizione e il proprio disagio
condividendolo con altri in una sorta di terapia collettiva all’insegna dei meme.
Lo scopo di questo lavoro è dimostrare che, se le persone che combattono e che
convivono con depressione (o più genericamente con disagi che incidono sulla propria
vita personale e sociale) tendono a rifugiarsi dagli altri attraverso una sorta di
meccanismo di difesa – mascherando il loro ‘problema’ e la loro condizione con
l’indifferenza, o camuffando la gravità del loro peso psicologico, e ancora più spesso
tramite l’isolamento dal mondo che altro non fa che aggravare la loro situazione – il
semplice portarlo allo scoperto, comunicandolo grazie a dei meme o grazie ad altre
pratiche sempre più comuni come lo ‘shitposting’ e il ‘textposting’, che ne parlano e
quasi ne ridicolizzano l’entità del problema potrebbe essere un primo passo per
accettare la propria condizione e magari potrebbe, in una certa misura, minimizzarne il
peso. Per riuscire a compiere questa analisi e questo rapporto tra meme e depressione
(ma anche tra meme e sofferenza come nel caso del 2020) faremo riferimento ad un
aspetto fondamentale: la New Sincerity che caratterizza quella post-ironia che sta
prendendo sempre più piede nella nostra epoca. Questo aspetto ci consentirà di
individuare che, sviluppando e facendo ricorso all’auto-ironia sui propri problemi e
sulla propria condizione esistenziale, si può arrivare a sviluppare una maggiore
autoconsapevolezza di sé e della realtà circostante, da utilizzare come arma con il quale
affrontare un abisso che delle volte sembra invalicabile.
Analizzando le varie pagine presenti sui social network, che sempre più spesso
fanno ricorso ai meme per comunicare e parlare di temi ‘scomodi’ in un modo che
potremmo definire ‘meno pesante’, arriveremo a (di)mostrare che in tutto il mondo vi
sono persone che si sentono esattamente allo stesso modo, che lottano con problemi
simili o addirittura identici, e che uno dei modi più semplici ed efficaci per comunicarli
e affrontarli è fare ricorso a dei semplici meme. Per sostenere questa analisi voglio
citare brevemente Cori Amato Hartiwig, ricercatrice sui disturbi mentali e curatrice
della famosa pagina Manicpixiememequeen «A lot of people who go through mental
health issues are tired of being pathologized, and memes are a way to ignore all the
stigma», in questa breve frase troviamo un sunto di quello che sarà il lavoro che mi
sono prefissato di dimostrare, ovverosia riuscire a rintracciare proprio nelle potenzialità
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discorsive e narrative dei meme una via di fuga dalla stigmatizzazione nei confronti di
tutte quelle persone che convivono con disturbi e disagi mentali, che risultano essere
sempre più incombenti nella mia generazione, ma nel complesso, nel nostro tempo.
Ciò che vorrei dimostrare con questo lavoro è che i meme potrebbero dunque
aiutare (in parte) le persone a normalizzare le brutte esperienze con cui devono
convivere quotidianamente aiutandole a vedere la loro condizione in modo differente,
arrivando a ironizzarci sopra piuttosto che farsene una colpa. Se tra le cause della
depressione si trova quasi sempre la difficoltà nel socializzare è proprio perché uno dei
sintomi più comuni è quello di sentirsi socialmente inutili, provare poco interesse nelle
cose comuni e di conseguenza risulta complicato comunicarlo e farlo comprendere agli
altri, ma con l’ausilio dei meme si possono condividere le proprie esperienze e i propri
pensieri nel modo più semplice possibile.
Questo lavoro non vuole avere la pretesa di potersi applicare a tutte le persone
che ogni giorno soffrono e convivono con una forte depressione e con altri disagi
mentali, poiché ognuno ne soffre e affronta la propria condizione in maniera differente,
ma voglio pensare che fare del black humor e dell’autoironia un correlativo del proprio
stato d’animo e della propria vita può giovare ad affrontare le proprie debolezze, paure
e il rapporto che si intrattiene quotidianamente con la realtà. Molto spesso le persone
depresse – o più generalmente le persone caratterizzate da un certo grado di sofferenza
interiore – tendono a confrontare i loro pensieri e i loro stati d’animo negativi non
attraverso le esperienze positive ma tramite quelle ancor più negative rispetto alle loro,
e questa potrebbe essere proprio la chiave di svolta di una piccola rivalutazione
cognitiva della propria condizione e della propria esperienza di vita, facendo ausilio
proprio all’umorismo e all’autoironia che si cela dentro i meme come un vero e proprio
strumento regolatorio delle proprie emozioni e dei propri stati d’animo.
Mi piace pensare ai meme come a dei piccoli strumenti terapeutici che ogni
giorno ci consentono di fronteggiare una realtà che diventa sempre più sofferente, ma
rendendocela in un certo senso meno sofferente, e perché no, più divertente.
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The universe is a cruel, uncaring void
The key to be happy isn’t a search for meaning
It’s just to keep yourself busy with unimportant nonsense, and eventually, you’ll be dead.
Mr. Peanutbutter in Bojack Horseman
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Prima parte:
I meme
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Capitolo 1
Genesi dei meme
Quando moriamo, due sono le cose che possiamo lasciare dietro di noi:
i geni e i memi.
Richard Dawkins
When you imitate someone else, something is passed on. This “something” can then
be passed on again, and again, and so take on a life of its own.
We might call this thing an idea, an instruction, a behaviour, a piece of information...
but if we are going to study it we shall need to give it a name.
Fortunately there is a name. It is the “meme”.
Susan Blackmore
In questo capitolo andremo a compiere uno studio di carattere storico-etimologico,
per cercare di tracciare una sorta di storia teorica (se mi si passa l’ossimoro) sul
concetto di meme, partendo dalla sua nascita nel campo biologico-evoluzionistico fino
ad arrivare alla comparsa del primo, o meglio dei primi, meme di Internet. Tale studio
servirà per scovare delle analogie sulle varie accezioni che il concetto di meme ha
assunto nel corso della sua storia, per metterle successivamente in relazione con le più
comuni e sarcastiche immagini che ormai tutti conosciamo. In questo capitolo per
evitare fraintendimenti di senso e di significato mi riferirò a meme/i quando ne parlerò
da un punto di vista biologico/culturale, e a meme di Internet per fare riferimento ai
loro omologhi più ‘fortunati’.
1.1. Dal gene al meme
Quando nell’ormai lontano 1976 Richard Dawkins, zoologo e biologo britannico,
scrisse quello che diventerà il suo best seller The selfish gene (Il gene egoista), in cui
teorizzò per la prima volta il termine meme, non avrebbe mai potuto immaginare che
circa cinquant’anni dopo un’immaginetta che mostra una donna che urla a squarciagola
ad un gatto isterico potesse venire associata a quel neologismo che era stato all’epoca