2
valore nel soggetto, non ha più lasciato spazio al manifestarsi spontaneo di Dio. Nella
tensione presente nella filosofia heideggeriana verso una più originaria manifestazione
dell’essere, Penzo ritiene di poter riconoscere la tensione verso il Dio cristiano celato
dalla filosofia contemporanea. In questo capitolo, è analizzato il saggio nel quale il nostro
autore pone l’accento sulla profondità del rapporto e sulla vicinanza che egli ritiene di
poter scorgere tra il pensiero di Nietzsche e Heidegger, sull’interpretazione ontologica
data dal secondo alla filosofia del primo. L’aspetto propriamente religioso della disamina
di Penzo viene approfondito nel III capitolo (…)
Anche per Gianni Vattimo la discussione sul rapporto della filosofia heideggeriana con
Nietzsche rappresenta una tappa importantissima della sua filosofia, discussa in varie
opere (Il soggetto e la maschera, del 1974, Le avventure della differenza e in Al di là del
soggetto. Nietzsche, Heidegger e l’ermeneutica, del 1981 oltre che in alcuni saggi). Il
filosofo non crede che Heidegger possa liquidare il pensatore della «Volontà di potenza»
come colui col quale si compie il pensiero metafisico e porsi al di là del suo e di tutto il
pensiero della tradizione. Al contrario, Vattimo ritiene che, se entrambi rientrano in
quella che egli definisce «ontologia del declino», Nietzsche si ponga addirittura un passo
più avanti rispetto ad Heidegger, per essere stato in grado non solo di problematizzare,
ma piuttosto di superare realmente lo scoglio della differenza tra l’ essere e gli enti che
costituisce, lungo tutta la produzione di Heidegger, l’elemento caratterizzante della
metafisica, mettendo in discussione il quale, il filosofo ritiene di annunciare l’avvento di
una nuova epoca del pensiero. I due filosofi hanno un ruolo fondamentale nell’impianto
ermeneutico di Vattimo che ha intenzione di scoprire, nel pensiero della modernità, una
nuova concezione di essere successiva al concetto tradizionale della metafisica che i due
grandi autori del ‘900 hanno definitivamente messo in crisi. Secondo Vattimo, l’essere
nell’epoca della tecnica descritta da Heidegger ha perso i suoi caratteri «forti» di autorità,
dominio e valore assoluto e si appresta a lasciar il posto ad una sua nuova interpretazione
dai caratteri «deboli», mobile, flessibile, soggetta al divenire e adatta ad una nuova
concezione di umanità che pone l’essere umano nella sua caducità e finitezza al centro e
non piomba su di lui dall’alto del cielo della metafisica.
Il terzo degli autori considerati in questo capitolo è l’autore del saggio L’utopia del
nichilismo. Tra Nietzsche e Heidegger scritto nel 1983. Vitiello, così come Vattimo, al di
là della critica heideggeriana di Nietzsche, ritiene di poter scorgere nel pensiero dei due
autori un parallelismo per cui essi si troverebbero in una dimensione successiva alla
3
metafisica avendo, per primi, esperito le conseguenze ultime alle quali conduce il dubbio
cartesiano.
Il dubbio, relativizzando il mondo intero, travolge il soggetto dubitante stesso che ora
crolla, con tutti i valori una volta ritenuti assoluti, nell’abisso del nichilismo. Al di là
della «morte di Dio» nietzschiana e della furia distruttiva del suo «filosofare col martello»,
Vitiello ritiene però di poter intravedere una forte tensione ascetica nel percorso
filosofico di Nietzsche tale che la teorizzazione del pensiero abissale dell’eterno ritorno
non sarebbe che l’appiglio posto al di là del baratro del nichilismo, una fuga dal nulla per
la quale l’uomo abbandona la sua umanità, il suo essere razionale, interrogante e
dubitante, e si ricongiunge alla natura. Non è questo forse lo stesso abbandono dell’uomo
che in Heidegger «poeticamente abita il mondo»? L’abbandono heideggeriano all’Essere,
il lasciar apparire l’Essere e non pretendere di dominare gli enti nel limitato ambito
ontico, secondo Vitiello, rappresenta una seconda fuga dall’uomo e dal nichilismo, via
dalla potenza distruttiva del dubbio cartesiano. Nietzsche e Heidegger danno voce allo
«spaesamento» dell’uomo dell’U-topia, della «mancanza di luogo».
Recupero del cristianesimo. L’interpretazione di Giorgio Penzo pone l’attenzione sulla
premessa dell’ateismo nietzschiano che, secondo questo autore, costituisce, con
l’annuncio della morte di Dio, l’apice del movimento che all’interno della filosofia
moderna ha messo in discussione la figura del Dio cristiano, a partire da Cartesio fino a
culminare nei pensatori cosiddetti della «sinistra hegeliana». Secondo Penzo, la filosofia
nietzschiana che si scaglia contro il pensiero socratico-cristiano nella sua totalità può
essere messa in rapporto con la filosofia di San Tommaso d’Aquino che l’autore
considera il referente più autorevole di tale tradizione. Penzo è convinto che attraverso
l’interpretazione ontologica di Heidegger e di tutti i filosofi che sulla sua scia hanno
messo l’accento in primo luogo sull’evento della morte di Dio, problematizzandolo
(Penzo fa riferimento alle interpretazioni di Nietzsche date da Lotz e Welte, inseriti
dall’autore nel filone della «destra heideggeriana» che, sulla scia del maestro, vanno alla
ricerca del non-detto di Nietzsche, orientandosi nel rapporto della sua filosofia con
l’orizzonte tomista) si apra la strada verso un recupero dell’idea originaria di Dio.
In Nietzsche e in Heidegger, dopo l’annuncio della morte di Dio, l’essere si risolve ad
essere inteso come gioco, gioco che si trova ad essere l’ultima espressione problematica
del manifestarsi di uomo e mondo, il gioco come l’unica modalità possibile della loro
apertura verso l’essere.
4
Secondo Penzo, nel pensiero di Heidegger, a differenza che in Nietzsche, però, lo spazio
per la domanda su Dio resterebbe sempre aperto e la sua ricerca di una dimensione
autentica di svelamento dell’essere potrebbe essere ricondotta alla ricerca di una
possibilità di recupero di un’autentica religiosità, mascherata fino ad ora dalla pretesa di
onnicomprensività del pensiero rappresentante. La questione è, dunque, se veramente, il
senso dell’essere non possa che essere ricondotto, alla fine della metafisica, a un gioco
privo di finalità e di compiutezza a cui abbandonarsi, o se invece l’abbandono dell’ente
non possa avvenire nella partecipazione alla fede nel Dio cristiano, nella fiducia della
Provvidenza. (Questo argomento, come si è detto prima, sarà affrontato in modo più
approfondito nel III capitolo sul rapporto di Nietzsche col cristianesimo.)
Facendo eco a Jaspers, Penzo considera l’apertura nei confronti di Dio ancora possibile
nonostante l’annuncio Gott ist tot (che sembra invece non lasciare più spazio ad un suo
recupero) da intravedersi attraverso le interpretazioni nietzschiane che tentano di far luce
sull’ ascetismo del pensatore e sull’atteggiamento di condanna nei confronti della
religione, ma proprio per questo di continua ricerca in tal senso, attraverso l’intricato
linguaggio metaforico dell’autore, che cela la complessità del significato dietro frasi ad
effetto e immagini potenti.
Alla luce della sua prospettiva interpretativa, nella quale sono chiari gli intenti
programmatici di andare alla ricerca di una possibile via d’uscita religiosa, Giorgio Penzo
distingue tra i pensatori che definisce della «sinistra heideggeriana» (come Fink) che dopo
Heidegger si sono orientati verso il privilegiamento dell’ottica del gioco, dunque verso la
considerazione «estetica» dell’ontologia nietzschiana che, scavalcando i secoli della
filosofia metafisica, si rifà ad Eraclito per sostenere che il mondo può essere giustificato
solo come fenomeno estetico; e i pensatori, come Löwith, Lotz e Welte che hanno cercato
di vedere al di là del Gott ist tot, sollevando il dubbio che non fosse con esso proclamata
la sentenza di morte nei confronti del Dio cristiano, ma che, al contrario, attraverso
l’interpretazione ontologica fosse possibile aprire uno nuovo spazio nel quale mettersi in
cammino verso il riconoscimento di una dimensione divina più autentica. La dimensione
estetica nietzschiana capovolge i valori della metafisica tradizionale, il destino dell’essere
è «un bambino che gioca» e il gioco, come dirà Nietzsche nella conclusione de La volontà
di potenza è l’unico valido ideale per l’uomo.
5
Ontologia del declino e dissoluzione del soggetto. Nei suoi numerosi scritti su Nietzsche
e Heidegger, Vattimo ritiene di poter considerare i due autori come i portatori di una
nuova concezione del senso della storia, elaborata nell’ermeneutica contemporanea,
orientata a interpretare il passato non alla luce dei suoi caratteri «forti»di eternità dei valori
e dunque di autorità dispiegata e di dominio, ma piuttosto alla luce di una concezione
«debole» dell’essere tale che all’uomo non è più data la possibilità della liberazione
dall’apparenza, ma dove, al contrario, la libertà appare come la mobilità delle apparenze
sciolte da una concezione preordinata di verità. Nel dialogo con Nino Scianni, apparso nel
1980 sulla rivista Lotta continua Vattimo
1
vede l’uomo moderno della dimensione del Ge-
stell heideggeriana come appeso ad una rete, nella quale però a questi è data la possibilità
di non rimanere impigliato come un pesce, grazie alla facoltà creativa e versatile della sua
natura, con la quale egli può, forse, trasformare la rete in un trapezio, e lui stesso in
trapezista, cosicché le maglie diventino un reticolo di infinite possibilità delle «forme
simboliche» dei messaggi trasmessi dal passato, tra le quali l’uomo si può muovere.
Liberato dal giogo della verità.
La concezione residua della verità, nella modernità, secondo Vattimo, si rifà allora alla
concezione dell’esser-gettati heideggeriana, nella rete linguistica di ciò che dal passato ci
è tramandato, dove le strutture, che per Kant erano comuni alla ragione in ogni tempo,
perdono la loro assolutezza rivelandosi limitate nel loro essere Evento: in questo senso
l’essere si apre nella modalità del disvelamento, nel senso che, prima ancora degli
enunciati, vero è l’aprirsi e il mostrarsi stesso della verità.
L’ontologia del declino nella quale Vattimo vede uniti sia Nietzche che Heidegger giunge,
nello smantellamento di tutti i valori assoluti e eterni della metafisica, alla dissoluzione
del soggetto, l’ elemento centrale, fondamentale, di tutta la filosofia della tradizione
culminata nello Spirito assoluto hegeliano. La dissoluzione del soggetto si compie
massimamente nella figura dell’ Oltreuomo nietzschiano che l’autore più volte, sia ne Il
soggetto e la maschera che in Al di là del soggetto confronta con la figura, che a lui
inizialmente appare analoga, dello Spirito assoluto hegeliano, soggetto conciliato nel
quale, dialetticamente, si risolve il destino della metafisica. L’Oltreuomo, per Vattimo, è
il vero punto di arrivo della filosofia di Nietzsche che non può essere considerato, come
vedremo, il luogo della conciliazione dialettica nella quale il soggetto, inteso
hegelianamente come autocoscienza, si riappropri di se stesso dopo essere uscito fuori da
sé; ciò in quanto la dimensione temporale è stravolta rispetto al passato: l’avvento
1
G. Vattimo, La bottiglia, la rete, la rivoluzione e i compiti della filosofia. Un dialogo con “Lotta
continua” in id. Al di là del soggetto, Feltrinelli, Milano 1984, p.11-26
6
dell’Oltreuomo viene annunciato da Zarathustra come l’arrivo di colui che vive dopo la
morte di Dio e che riesce a pensare e accettare fino in fondo la comunicazione dell’eterno
ritorno dell’uguale. L’Oltreuomo vive oltre una concezione del tempo lineare nel quale
possa svolgersi un processo dialettico: al contrario, egli vive nell’Attimo, sulla porta nella
quale passato e futuro si scontrano, dove l’agire ha il carattere dell’eterno in quanto,
lanciandosi nel futuro, l’Oltreuomo sia in grado di non lasciar cadere il passato. «[…] Si
richiede un radicale cambiamento dell’uomo nella sua esistenza individuale e sociale, la
decisione eternizzante di cui parla Zarathustra, che implica anche la soppressione del
“soggetto” così come si è determinato in tutta la tradizione europea.»
2
Nella produzione degli anni ’80, dunque, Vattimo afferma più volte che una conclusione
dialettica in Nietzsche non è proprio possibile perché il concetto stesso di
«riappropriazione » non ha più senso di esistere: dopo la morte di Dio e il crollo di tutti i
valori non si può più parlare infatti di estraniamento (che può avvenire solo nell’ambito
della metafisica platonica nella quale sia dato un mondo di verità superiori sovrastante
l’apparenza da redimere) né tantomeno di un soggetto riappropriantesi nell’autocoscienza
poiché l’unità del soggetto come punto di riferimento cartesiano è ormai
irrimediabilmente dissolta.
Quali sono allora nuovi ideali di umanità possibili senza l’appoggio nel soggetto?
Questa è la domanda a cui Vattimo tenta di dare una risposta analizzando il pensiero di
Nietzsche e Heidegger tra i quali egli vede un’indiscutibile vicinanza. E’ proprio
sull’ elemento della dissoluzione del soggetto che, come vedremo, Vattimo incentra la sua
critica ritenendo di scorgere in maniera incontrovertibile la vicinanza del capovolgimento
di tutti i valori nietzschiano alla critica heideggeriana dell’umanesimo.
Nietzsche e Heidegger pensatori dell’U-topia. Fin dall’antichità, fu chiaro alla filosofia
che l’ essere umano è caratterizzato da un’intima e irrisolvibile duplicità: nell’animal
rationale convivono, infatti, la sua naturalità, il legame che il corpo costituisce con
l’origine e la natura, e la ragione, che invece sembra negare l’appartenenza al corpo, il suo
essere animale, la sua finitezza e corruttibilità. L’uomo studia e scompone i corpi, cerca di
dominarli e piegarli alla propria volontà. Il corpo umano è abitato da un estraneo che sente
la sua identità fuori di esso. Sia Cartesio che Kant e Hegel colsero la «seconda natura»
dell’uomo cosciente, per l’ultimo, però, questa non costituisce come per gli altri due, un
mondo altro, ideale, ma la somma della prima con la coscienza riflessa.
2
Vattimo G., Il soggetto e la maschera, Bompiani, Milano 1974, pp.277-278
7
Per quanto tenti di dominare la sua propria natura, l’uomo non giunge mai ad afferrare il
mondo sensibile. Il pensiero potrà infatti cogliere sì il concetto del sensibile, la sua forma
pensata, ma non afferrare il sensibile stesso, la sua «verità». Infatti, qualunque concetto
non esiste senza la percezione sensibile. Di conseguenza, il soggetto del giudizio si rivela
essere vuoto, privo della materia sensibile, necessitato dalla percezione per il pensare. E il
suo pensare capace di solo di creare concetti, non di cogliere alcunché al di fuori di se
stesso: solo immagini del sensibile.
Il pensare che vuole dominare il corpo si perde nella circolarità: si trova a brancolare nel
vuoto, se privato della mediazione dei sensi.
Hegel ha descritto nella Fenomenologia l’illusione della certezza sensibile: questa sfugge
sempre alla determinatezza singolare e dell’oggetto sensibile, all’uomo sarà sempre
possibile racchiudere concettualmente l’universale, ma mai il «questo» singolare che potrà
solo essere opinato dalla coscienza.
Solo una certezza fugge alla necessità del sensibile e riesce tuttavia ad essere universale:
l’ ego cogito. Il cogito cartesiano precede il pensiero e la parola ma così sfugge anche ad
ogni «presa» del pensiero. Rappresenta un «punto geometrico del pensiero» che, però,
nella sua validità inconfutabile, è anche inesprimibile e impensabile: non se ne può dir
nulla «positivamente». Nemmeno che «è», dato che dell’essere, in quanto supremo
predicato, a sua volta, non può essere detto nulla (l’essere infatti, in quanto supremo
predicato, non può mai porsi come soggetto, non gli si può attribuire alcun altro predicato,
resta un concetto vuoto, la X del pensiero.)
Dunque l’evidenza dell’ultimo rifugio del pensare, il cogito, cade e anch’esso è travolto
dal dubbio.
Il dubitare travolge l’argine del soggetto con la sua potenza distruttiva che connota di se
tutto il pensare: il pensiero, in quanto pensiero che dubita, può solo distruggere, la
certezza del pensiero in quanto dubbio travolge il pensare stesso. La certezza è spinta
allora più indietro, verso ciò che precede il pensare: l’essere animale dell’uomo, il corpo.
Il corpo può dirsi la certezza del pensiero perché verso di esso il pensiero che dubita,
dubitando, tende. Ma allora se nell’animal rationale corpo e pensiero sono infinitamente
opposti, la «verità» del pensiero risiede proprio in ciò che lo nega!
Questo risultato è per Vitiello il margine della metafisica e il suo superamento nella
filosofia di Nietzsche: la constatazione nichilista della doppia negazione presente
dell’uomo, del suo abitare l’U-topia. U-topia che l’autore considera nel suo senso
letterale, di «assenza di luogo» come è spiegato chiaramente nella premessa del suo saggio
8
«Il termine “utopia” [...] non indica nessuna contrapposizione all’esistente, nessuna tensione verso il futuro,
nessuna intenzione di modificare la realtà in vista di qualche mèta. Descrive per contro un fatto, una
situazione. Il fatto, la situazione dell’uomo che, in quanto tale, non ha “luogo”, non ha “natura”, non ha
“patria”. Utopia dice qui il medesimo che estraneità, differenza. Il riconoscimento di questa non storica, ma
strutturale, essenziale estraneità dell’uomo è l’ “utopia del nichilismo”».
3
3
Vitiello, V. , L’Utopia del nichilismo. Tra Nietzsche e Heidegger, Guida, Napoli 1983, p.5
9
2. Ontologia. Un interrogativo preliminare: e’ legittima l’interpretazione
ontologica heideggeriana della filosofia di Nietzsche?
Ne L’interpretazione ontologica di Nietzsche, Giorgio Penzo compie inizialmente un
excursus sull’interpretazione heideggeriana, mettendo in evidenza quelli che considera i
punti salienti della sua posizione su Nietzsche.
L’interpretazione della filosofia di Nietzsche data da Heidegger è decisamente
fondamentale per comprendere il suo stesso pensiero: Nietzsche infatti rappresenta la fase
culminante della storia dell’essere che Heidegger traccia attraverso il dialogo coi
pensatori del passato. Oltre a ciò che è da loro «detto» e che costituisce la metafisica
tradizionale, Heidegger scava nel loro «non-detto», in ciò da cui emerge la concezione
dell’essere come presenza, comune da Platone a Nietzsche compreso, e che, in quanto
caratterizzante la metafisica stessa, deve con essa, venir superata. La liquidazione della
metafisica in Heidegger, però, non è, in realtà, solo il suo superamento ma un tentativo di
liberarla dalla sua falsa interpretazione e sostituirla con un pensiero dell’essere autentico.
L’essere come tale si dimensiona sempre come evento, Er-eignis: un accadere necessario
che accadendo viene «tematizzato» e, da puro orizzonte di dimensione dell’essere, decade
a semplice dimensione ontica dell’essere dell’ente.
Per Heidegger, Nietzsche, del quale tenta di delineare un sistematico piano metafisico-
ontologico, non attinge ancora alla dimensione ontologica (dell’essere in quanto essere)
ma resta impigliato nella rete della metafisica, pur essendosi avvicinato al suo limite
estremo: in quanto la sua filosofia rappresenta il compimento della metafisica, attraverso
il rovesciamento del platonismo, Nietzsche è colui che più si avvicina all’orizzonte
autentico dell’essere, che può aprirsi solo dopo la fine della metafisica. Egli si trova tra la
vecchia metafisica e l’aprirsi della nuova era, ma ancora non è in grado di annunciarne
l’avvento.
Alla domanda metafisica che si interroga sull’essere dell’ente, Nietzsche risponde
definendolo come un «divenire» connotato dall’attività del Wille Zur Macht, mentre alla
domanda fondamentale che riguarda l’essere, Nietzsche risponde con la dimensione
dell’Ewige Wiederkunft des Gleichen, l’eterno ritorno dell’uguale. Nel primo libro del
Nietzsche, Heidegger mette in evidenza l’originaria unità di questi due elementi, il primo
caratterizzante il «che cosa» dell’ente, cioè la sua «costituzione», il secondo il «come»,
cioè il modo di rapportarsi, dell’ente, all’essere: il fondamento della volontà di potenza
quale fulcro della filosofia nietzschiana, è da ricercarsi nell’eterno ritorno quale suo modo
d’essere.
10
Nel Nietzsche Heidegger critica il tentativo del filosofo di trovare un fondamento
scientifico alla tematizzazione dell’eterno ritorno dell’uguale. Detta schematicamente,
questa è la spiegazione scientifica di Nietzsche: dal carattere generale di forza che
attribuisce al mondo, egli deriva la sua finitezza e dunque il carattere ricorrente di un
divenire che, per quel che sembra all’uomo, scorre all’infinito lungo un tempo infinito e
apparentemente lineare. Poiché dunque il divenire ha necessariamente il carattere della
finitezza e continua anche dopo la fine delle sue possibilità finite, si desume che esso non
possa che ripetersi in un moto eternamente uguale, senza mai raggiungere l’equilibrio,
poiché, altrimenti, questo si sarebbe già mostrato. Heidegger introduce l’esposizione della
dimostrazione scientifica del pensiero del ritorno con queste parole: «sia il rifiuto di
queste dimostrazioni, sia la loro approvazione si attengono allo stesso presupposto
comune, cioè che si tratti di dimostrazioni “ naturalistiche” ». Questa opinione preconcetta
è il vero errore che rende fin dall’inizio impossibile ogni comprensione, perché rende
impossibile ogni retto domandare»
4
. A tal proposito, Giorgio Penzo fa riferimento alla
differenza enunciata da Heidegger tra la dimostrazione (Beweis), che ha il carattere della
scientificità, e dunque rientra in un preciso e limitato ambito temporale, che non può
illuminare sulla verità dell’essere, che invece è l’ unico legittimo argomento del pensiero
filosofico, e Fragen, ovvero l’autentico domandare, che apre le porte ad esso: «pertanto, a
proposito della teoria dell’eterno ritorno, non ha senso […] tematizzare la dimensione
scientifica di essa […] poiché […] che si tratti di dimostrazioni scientifiche (è)
presupposto che rappresenta il vero errore che ci sbarra la via per ogni autentico
domandare.»
5
.
Il principio unificante della volontà di potenza e dell’eterno ritorno è l’Umwertung der
Werte, il capovolgimento dei valori, cioè la distruzione di tutti i valori della tradizione
metafisica e platonica, gettati nell’ordine della trascendenza, per riportare all’uomo la sua
facoltà di creare valori.
Il valore che non è più considerato come qualcosa «in sé », ma come «punto di vista »
necessario alla vita. (ne La sentenza di Nietzsche: Dio è morto, Heidegger riporta
un’annotazione di Nietzsche del ’87-’88 dall’aforisma 715 de La Volontà di potenza che
dice: «Il punto di vista del valore è il punto di vista delle condizioni di conservazione-
accrescimento in ordine alle formazioni complesse di relativa durata della vita in seno al
4
Heidegger M., Nietzsche, Adelphi, Milano 1964, pp.308-309
5
Penzo, G., L’interpretazione ontologica di Nietzsche, Sansoni, Padova 1967 p.279
11
divenire »
6
), e dato che la volontà di potenza è designata dallo stesso concetto del divenire,
essa è dunque il tratto caratteristico della «vita» in generale e, per la vita, la volontà crea le
«condizioni di mantenimento e di accrescimento». Porre valori significa porre nuove
condizioni di prospettiva utili alla vita: dunque tutto ciò che non può servire ad essa è da
considerarsi «non-valore».
Prima dell’Umwertung der Werte, il valore, nell’orizzonte platonico-cristiano,
apparteneva al mondo trascendente delle idee, posto in un ordine superiore rispetto
all’ambito terreno. Il capovolgimento dei valori porta con sé il crollo del mondo
ultrasensibile. Il vero scende al livello del mondo sensibile, l’apparenza non ha più motivo
di essere tale in quanto non esiste più un mondo vero rispetto a cui essa possa venire
svalutata.
«Il mondo vero lo abbiamo abolito: quale mondo è rimasto? Forse quello apparente?… Ma no! Con il
mondo vero abbiamo abolito anche quello apparente! »
7
Nel Nietzsche, Heidegger così commenta questo aforisma che egli considera conclusivo
della filosofia nietzschiana:
«Il “mondo vero”, il soprasensibile e il mondo apparente, il sensibile, costituiscono insieme ciò che si
oppone al puro nulla: l’ente nel suo insieme. Se entrambi sono aboliti, tutto cade nel vuoto nulla. Nietzsche
non può voler dire questo; vuole infatti il superamento del nichilismo in ogni forma. [...] Sennonché [...] il
“mondo apparente” è abolito. Certo, ma il “mondo apparente” è soltanto il mondo sensibile secondo
l’interpretazione del platonismo. Solo con l’abolizione di quest’ultimo si apre la via per affermare il
sensibile e con esso anche il mondo non sensibile dello spirito. [...] non è necessaria l’abolizione del
sensibile né quella del non sensibile. Invece bisogna togliere di mezzo il fraintendimento e l’anatema nei
confronti del sensibile, e parimenti l’eccedenza del soprasensibile. [...] In tal senso il rovesciamento del
platonismo deve diventare uno svincolamento da esso».
8
Si compie così, con Nietzsche, il destino dell’essere nell’evento della metafisica.
Rovesciando la gerarchia dei valori del platonismo, riportando al mondo sensibile la loro
istituzione, si compie l’atto finale del pensiero rappresentativo della metafisica: l’assoluto
oblio dell’essere in favore del predominio dell’ente. Con la sua massima espressione la
metafisica giunge al suo tramonto, si prepara ora il momento di un nuovo evento più
autentico dell’essere.
6
Heidegger, M., La sentenza di Nietzsche:”Dio è morto” in Sentieri Interrotti, La Nuova Italia, Firenze
1968, p.208
7
Nietzsche, F. Crepuscolo degli idoli, ovvero come si filosofa col martello, Adelphi, Milano 1981, p.241
8
Heidegger, M, Nietzsche, cit., p.205
12
Eppure Nietzsche non è in grado di uscire dalla metafisica: il capovolgimento di valori del
platonismo resta all’interno dell’orizzonte ontico, l’essere continua ad essere inteso come
«valore».
Nietzsche ha riconosciuto il nichilismo come la corrente fondamentale che appartiene a
tutta la tradizione del pensiero occidentale e si rivela con la morte di Dio e il crollo di tutti
i valori superiori, ma, essendo rimasto nell’orizzonte della domanda che Heidegger nel
Nietzsche chiama direttiva della metafisica, Leitfrage,
9
(la domanda che chiede «che cos’è
l’ente?») non ha potuto gettare le basi per il suo superamento, non avendo saputo
problematizzare l’essenza del nulla come momento del sottrarsi dell’essere ma avendola
considerata, con tutta la metafisica classica, come la semplice mancanza dell’essere. La
sua grandezza sta allora nell’aver posto l’uomo di fronte all’abisso che si è aperto con la
morte di Dio, il suo limite nel non aver saputo problematizzare, all’interno della
metafisica, il ritrarsi dell’essere.
L’elemento centrale della critica heideggeriana di Nietzsche, secondo Penzo, si trova nella
concezione dell’identità di pensiero e rappresentazione. Heidegger, infatti, accomuna
Nietzsche alla tradizione per aver egli considerato la verità nell’accezione
dell’aedeguatio.
Fin dai greci il conoscere fu considerato come rap-presentare («Vor-stellen»), mentre il
rapporto autentico con l’essere, col quale il livello ontico potrebbe essere superato, si
risolverebbe in un «presentare» che lasciasse accadere l’essere e non pretendesse di
attribuirlo all’ente: la concezione della metafisica nietzschiana che, pur capovolgendo
l’ontologia platonica, rappresenta l’essere come valore, rimane nella stessa dimensione
ontica della tradizione.
In ogni caso, «il conoscere nietzschiano rimane ancora un Vor-stellen, però il suo asse si
sposta verso i confini dell’orizzonte ontologico[…] poiché pur rappresentando lo stesso
mondo dei valori della metafisica tradizionale, egli riesce, grazie al duplice movimento
dell’Entwertung (svalutazione) e dell’Umwertung (capovolgimento dei valori) a portare
verso la sua “fine” la rappresentazione metafisica. L’aver superato la dimensione negativa
della rappresentazione, mettendo in luce la dimensione positiva di essa, è già per
Heidegger un merito grandissimo di Nietzsche. Grazie a questo merito Nietzsche può
venire annoverato tra i “pensatori essenziali”, tra quelli cioè alle soglie dell’orizzonte
9
Ivi, libro I, p.22
13
ontologico, dove la verità non è “correttezza del rappresentare” […] ma soltanto un
accadere dell’essere come occultamento-disoccultamento»
10
.
Il senso della svolta impressa da Nietzsche è evidente agli occhi di Heidegger nella figura
dello Über-mensch, il cui avvento è annunciato da Zarathustra e la cui dimensione è
anch’essa legata a quella dell’Eterno ritorno dell’Uguale, in cui l’Oltreuomo trova la sua
propria essenza. Ad esso Nietzsche attribuisce il senso di «trapasso» o «ponte»,
l’Oltreuomo si getta infatti al di là dell’ultimo uomo nell’orizzonte nel quale i valori
tradizionali sono capovolti e delegittimati.
«[...] Là fu, anche, dove io raccolsi per strada la parola “superuomo” e che l’uomo è qualcosa che deve
essere superato. / -che l’uomo è un ponte e non uno scopo: che si chiama beato per il suo meriggio e la sua
sera, come via verso nuove aurore. [...]»
11
Nel non poter essere l’Oltreuomo raggiungibile dagli uomini attuali, Heidegger vede il
peso «metafisico» dell’insegnamento nietzschiano, la sua appartenenza alla dottrina
metafisica dell’essere dell’ente. Giorgio Penzo ci fa osservare, infatti, come nello Über
del prefisso dell’Oltreuomo, sopravviva in Nietzsche la scissione tra l’essere e l’ente: si
può dire che esso corrisponda al prefisso Meta della metafisica, che sopravvive
nell’impianto concettuale nietzschiano, pur se riportato nella finitudine degli enti. «Il fatto
[…] che il Super-uomo debba procedere “oltre”[…] all’attuale spregevole uomo, sta a
significare soltanto che la dottrina del Super-uomo non è secondo la sua essenza un’
“antropologia”, ma un insegnamento “metafisico”, e come tale appartiene alla dottrina
metafisica dell’essere dell’ente»
12
.
L’Oltreuomo, come Nietzsche annuncia in Così parlò Zarathustra, vivrà dopo la morte di
Dio: con l’annuncio della morte del Dio (cristiano) il filosofo condanna l’intero mondo
dei valori ultrasensibili che da Platone e per tutto il pensiero metafisico hanno costituito il
contrappeso dell’ingannevole e caduco mondo sensibile. Gott ist tot è per Heidegger un
annuncio «epocale».
Penzo ritiene di poter vedere al di là della considerazione heideggeriana di Nietzsche, il
quale pur riconoscendone la grandezza pensa che egli non sia stato in grado di
oltrepassare la metafisica, ma solo di costituirne il «canto del cigno», di poter riconoscere
tra i due autori un indiscutibile parallelismo.
10
Penzo, G., L’interpretazione ontologica di Nietzsche, cit. p.136
11
Nietzsche F., Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 1968, p.233
12
Penzo, G., L’interpretazione ontologica di Nietzsche, cit. 117
14
Nell’appendice a L’interpretazione ontologica di Nietzsche, Penzo fa riferimento ad un
aforisma contenuto in Al di là del bene e del male in cui Nietzsche così si esprime a
proposito dell’eremita:
«Si riconosce negli scritti di un eremita ancora sempre qualcosa del deserto, qualcosa dei bisbigli e dello
spaurito guardarsi intorno della solitudine; dalle sue parole più forti, dal suo grido stesso risuona ancora un
nuovo e più pericoloso genere di silenzio, di occultamento. [...] L’eremita non crede che un filosofo – posto
che un filosofo sia stato sempre, anzitutto, un eremita- abbia espresso nei libri le sue reali e definitive
opinioni: i libri non si scrivono proprio per nascondere ciò che si custodisce in sé? »
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In queste righe, Nietzsche esprimerebbe ciò che Heidegger vuol fare nei confronti dei
grandi filosofi del passato, comprendere non ciò che essi dissero bensì ciò che da loro
non fu detto, giungere alla caverna, «abisso sotto ogni fondamenta, ogni fondazione»
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nella quale, come in uno scrigno, è racchiusa l’essenza del pensiero che non può essere
espressa direttamente. Ha qui luogo ciò che Heidegger esprime nella dimensione di
svelamento e occultamento dell’essere: la verità non si mostra mai in un’inconfondibile
luminosità, nello svelarsi, l’essere allo stesso si tempo si cela e si nasconde mostrandosi
solo nella dimensione inattuale dell’ente. «Secondo Heidegger, ogni interprete non deve
fermarsi a ciò che è stato detto dall’autor, ma deve saper scorgere il “non-detto” (ma
maschera, direbbe Nietzsche, che si nasconde dietro la parola), cioè deve mettere in luce
ciò che l’autore non ha espressamente detto ma che tuttavia si trova contenuto in qualche
modo nel suo pensare»
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. Sia per Nietzsche che per Heidegger la comunicazione
dell’essere avviene attraverso un offuscare. Secondo Penzo, l’eremita descritto da
Nietzsche esprime il concetto della differenza heideggeriana tra «interpretazione»
(Auslegung) e «esposizione» (Darstellung). La prima rientra nel campo dell’ontologico
poiché colui che interpreta il testo di un grande filosofo, senza presunzione, aggiungerà
qualcosa di suo che non sgorga dalla sua propria opinione, bensì dalla stessa problematica
del testo, dal non-detto che parla dalla profondità del pensiero del filosofo. Questo potere
è assente nella «mera» esposizione con la quale il testo, riportato fedelmente, non ha
modo di gettare uno sguardo oltre l’ambito degli enti, verso l’essere. Nei versi finali
dell’aforisma nietzschiano leggiamo
13
Nietzsche F., Al di là del bene e del male, Newton, Roma 1977, p.204
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Ibidem
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Penzo, G., L’interpretazione ontologica di Nietzsche, cit. p.273
15
«Ogni filosofia è una filosofia dell’apparenza – questo è un giudizio da eremita: «c’è qualcosa di arbitrario
nel fatto che egli si sia fermato qui, abbia guardato indietro, si sia guardato attorno, che non abbia qui
scavato più a fondo e abbia messo da parte la vanga, c’è anche qualcosa di sospetto in questo». Ogni
filosofia nasconde anche una filosofia; ogni opinione è anche un nascondiglio, ogni parola anche una
maschera. »
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E’ Nietzsche che indica la strada verso il nascondiglio in cui si trova lo scrigno del
pensiero più profondo dei filosofi e Heidegger colui che raccoglie la vanga per continuare
a scavare. Questa è secondo Penzo l’essenza della comunicazione profonda tra Nietzsche
e Heidegger, quest’ultimo è colui che nel modo migliore è in grado di rendere presente la
figura dell’eremita nietzschiano; d’altronde la sua ricerca verso il non-detto della filosofia
non è forse un voler vedere oltre la maschera?
Questa scoperta, nell’esposizione di Giorgio Penzo, ricopre un ruolo notevolmente
importante, in quanto è con ciò che egli ritiene di poter vedere legittimata
un’interpretazione ontologica di Nietzsche secondo la concezione heideggeriana.
Il metodo ontologico, o come è meglio dire, il procedimento, dato che più di una scoperta
si tratta, che di una posizione di regole, necessariamente legate ad un singolo ambito
epocale, per come è designato da Nietzsche e Heidegger, è un compito senza fine e senza
confini. La verità, infatti, non si dà mai nella pienezza della luce ma sempre nel
nascondimento, nella Mitteilung-Verschweigung (comunicazione-tacere) heideggeriana.
La conoscenza avviene dunque in un processo infinito che assume diverse forme a
seconda della situazione storica nella quale si colloca e che, ogni volta, conduce il
pensatore su una diversa di via di accesso alla verità.
L’interpretazione ontologica, osserva Penzo, talvolta può essere accusata dai
contemporanei di essere violenta o finalizzata a piegare il pensiero di un filosofo al
proprio: questo rischio, dice Heidegger, è necessario. L’interpretazione avviene, infatti,
attraverso un continuo porre il problema che si sforza di lasciar aperto l’orizzonte
all’irruzione dell’essere, evitando di cedere il passo alla scelta di facili sentieri che
conducono a posizioni stagnanti, dogmatiche o scettiche, che interrompono il procedere
del pensiero. Il ruolo dell’interpretazione è essenziale e va percorso anche quando si rischi
di uscir fuori dalla via segnata dal filosofo: solo attraverso questo lavoro, infatti, potrà
emergere la verità del suo pensiero, la cui essenza risiederà nel suo non-detto e mai nelle
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Nietzsche F., Al di là del bene e del male, cit. p.204