7
promozionale, hanno preferito mettere la testa sotto la sabbia pur di
evitare un tema tanto importante quanto sfuggente. Tale
comporatmento tuttavia, trova parziale giustificazione in alcune
considerazioni
Contrariamente a quanto avvenuto nella letteratura
cinematografica, nella quale l’analisi della musica da film vanta una
tradizione molto ricca e longeva (i primi trattati risalgono infatti agli
albori del cinema), la manualistica pubblicitaria e più in generale
quella relativa alla comunicazione, si è trovata per così dire ‘spiazzata’
dalla sfuggevolezza del tema, che necessita, per essere analizzato, di
strumenti e competenze che spesso si trovano separate negli addetti
ai lavori. Comunicazione, marketing e semiologia, in effetti , hanno
ben poco a che vedere con la musicologia, intesa in ogni sua forma.
A questa constatazione, si deve aggiungere che, anche all’interno
degli studi dedicati alla disciplina musicale, la macro categoria della
popular music è tenuta in ben poca considerazione rispetto alla
musica colta, sulla quale la letteratura di settore offre diversi spunti,
quasi ci fosse un diffuso snobismo (per certi versi adorniano) degli
addetti ai lavori, nei confronti dei fenomi di massa, ritenuti poveri di
contenuti.
Va inoltre sottolineato che, in Italia, non esiste un sistema di
conservazione dei materiali multimediali la cui ricchezza ed
accessibilità siano neppure lontanamente paragonabili a quelle che
ormai siamo abituati a considerare standard per il materiale librario
ed i periodici.
Questo stato di cose, mina alla base le potenzialità di sviluppo della
ricerca, cui questa tesi spera di fornire alcune indicazioni utili per
studi più approfonditi ed acuti su un tema di grande interesse e
rilevanza, che richiede pertanto risorse intellettuali e materiali più
ingenti di quelle che può offrire un semplice laureando.
8
Capitolo1
Il fenomeno musicale
1.1 Il Concetto di Musica
Sebbene la musica sia un fenomeno universale, appartenente in
modi differenti a tutte le culture, riuscire a darne una definizione
universalmente valida è un’impresa se non impossibile, comunque
assai ardua: i contorni appaiono infatti di difficile decifrazione,
mutando a seconda degli individui, delle epoche e delle culture.
Si possono individuare e descrivere dei canoni formali
universalmente accettati, ma non si potrà mai riuscire ad esprimere
in modo altrettanto esaustivo ciò che la musica, o un tipo di musica,
riesca a provocare dentro ognuno di noi.
Lo stesso termine ‘musica’ si presta a diverse definizioni.
Rousseau, nell’Enciclopedia Fasquelle, per esempio, la definisce così:
“Arte di combinare i suoni in maniera gradevole per l’orecchio”; Littré
invece ne dà questa definizione: “Scienza o uso dei suoni definiti
razionali, ovvero collegati in una successione detta scala” e conclude
con un riferimento alla Musica humana di Boezio: “Chiunque scenda
in se stesso sa di che si tratta” (J.J. Nattiez, 1987, pag. 32).
Anche senza discostarsi dall’ambito della cultura occidentale, il
concetto di musica appare già di per sé alquanto disomogeneo.
“[...] i contorni del concetto occidentale di musica variano a seconda
che vi si includano le variabili poietiche, immanenti o estetiche. ‘La
musica è l’arte di combinare i suoni in base a regole (variabili a
seconda dei luoghi e delle epoche), di organizzare una durata con
elementi sonori’ come si legge nel Dizionario Robert. Essa viene allora
definita dalle sue condizioni di produzione (è un’arte) e dai suoi
9
materiali costitutivi (i suoni). Secondo un’opinione diversa ‘lo studio dei
suoni compete alla fisica, mentre all’estetica musicale appartiene la
scelta dei suoni piacevoli’ [...]. Alla definizione coniata sulle condizioni
di produzione si sostituisce quella data dall’effetto prodotto sul
ricettore: i suoni devono essere piacevoli. Secondo altri ancora, la
musica si confonde quasi completamente con l’acustica [...]” (J.J.
Nattiez, 1989, pag.33).
Basta scorrere le mitologie di altre civiltà, per accorgersi di come
la musica sia stata spesso associata ai miti della creazione, che
vedono sempre l'intervento di un elemento acustico: l'abisso
primordiale, la bocca spalancata, la caverna che canta, la fessura
nella roccia ecc…
La natura dei primi esseri è puramente acustica: “[…] i loro nomi
non sono definizioni ma nomi e suoni propri: non sono dunque
solamente supporti vocali della forza vitale degli esseri, ma gli stessi
esseri” (M. Schneider, 1992, pag. 17).
Tutti i membri della specie umana sono fondamentalmente in
grado di danzare, cantare e far musica, così come sono in grado di
parlare la lingua nativa. Tuttavia, sebbene quello che noi chiamiamo
musica sia un fenomeno universale, riscontrato in qualsiasi società di
cui si abbia conoscenza, il concetto di musica non è affatto
universale.
Tagg
1
cita due esempi in proposito: gli Ewe del Togo e i
giapponesi. I primi non hanno bisogno di una parola speciale per
etichettare un fenomeno intimamente connesso al canto, ai tamburi,
al dramma, all’intero cerimoniale che include ciò che noi
chiameremmo ‘musica’. Né più né meno di come noi non abbiamo
termini più precisi di ‘neve’ per indicare ciò che gli Inuit chiamano
con decine di parole, a seconda del tipo di neve. In realtà, gli Ewe
usano il termine ‘musica’ in quanto importato dalla lingua inglese e
dunque non tradotto, per indicare fenomeni a loro estranei come i
1
In proposito cfr. P.Tagg, 2002.
10
suoni generati da un registratore a cassette o dalla radio, oppure il
cantare inni.
Neanche i giapponesi, almeno fino al XIX secolo quando vennero in
contatto con l’occidente, sentirono mai il bisogno di coniare un
termine equivalente al nostro ‘musica’. Quando introdussero la
nozione occidentale di musica, il termine prescelto fu ongaku,
composto da on – che significa suono – e gaku – che significa
divertimento. Ongaku traduce perciò un’idea di musica come ‘suoni
eseguiti per divertimento o intrattenimento’. Per i giapponesi dunque
lo nostra ‘musica’ veniva identificata con quella porzione sonora non-
verbale di ciò che per loro era parte di un più vasto insieme di
fenomeni e pratiche (dramma, rituale, canto, danza, ecc…).
In entrambi i casi – gli Ewe e il Giappone – si è trattato di
acquisire un concetto estraneo alla loro cultura, che identificava a
sua volta una pratica sconosciuta e che per gli europei era separabile
da altre pratiche culturali.
Sebbene i codici musicali possano esprimere ed evocare
sentimenti ed emozioni che sono simili in tutto il mondo, la musica
non è un linguaggio universale. I tentativi di inquadrarla in
un'evoluzione dal semplice al complesso o da scale monotoniche a
scale dodecafoniche hanno fallito. I San del Kalahari e i Pigmei della
foresta Ituri hanno tecnologie semplici ma anche la polifonia, la cui
invenzione pare essere prerogativa delle società avanzate.
“I codici musicali non sono derivati né da un qualche linguaggio
universale delle emozioni, né da stadi evolutivi dell'arte musicale: essi
sono modelli sonori socialmente accettati che sono stati inventati e
sviluppati da individui tra loro interagenti nel contesto di differenti
sistemi sociali e culturali” (P. Tagg, 2002, in
www.tagg.org/teaching/musdef.pdf).
Ci sembra dunque possibile asserire che la musica sia un
fenomeno universale e costante nella vita dell’uomo: infatti anche
laddove le funzioni, i generi o le tecniche tendono a discostarsi, la
11
musica si configura come un’espressione popolare assimilata e
compresa da tutti.
Tuttavia nella cultura che ci appartiene ritroviamo insieme
diversi concetti musicali, spesso anche incompatibili tra loro. La
ragione di ciò è da ricercarsi nel fatto che la cultura dominante tende
ad escludere o a relegare ai margini tutto quello che non rientra nella
propria impostazione ideologica
2
.
1.1.1 Il pensiero di Hegel, Schopenahuer,
Schonberg
Per Hegel la musica, come ogni altra cosa, non si sottrae alla
logica e non possiede fini didascalici avendo fine solo in se stessa. Per
Schopenahuer la musica, coerentemente con gli ideali romantici,
diviene linguaggio assoluto.
In Adorno si intrecciano criticamente elementi di filosofia e di
musica. Schönberg infine, incline apparentemente verso posizioni
formaliste, teorizza una concezione aristocratica della vocazione
artistica.
1.1.1.2 F. Hegel: un linguaggio diretto all’anima
Hegel individua nell’evoluzione artistica tre stadi: l’arte simbolica
(rappresentata dall’architettura), l’arte classica (la scultura) e infine
l’arte romantica. Quest’ultima si esprime a propria volta attraverso
tre tipologie di arti poste reciprocamente in rapporto dialettico:
pittura, musica e poesia, dove la musica occupa una posizione
gerarchica intermedia.
2
In proposito cfr. C.Santoianni, 1993.
12
L’arte secondo Hegel non ha nessun fine esteriore didattico o morale:
è fine solo a se stessa.
Per quanto riguarda la musica egli la considera un’arte
sostanzialmente romantica, insieme a pittura e poesia. Essa utilizza i
suoni come il linguaggio verbale ma non li piega ad un uso verbale. Il
suono acquista valore musicale solo nel momento in cui possiede
determinatezza e purezza.
Nel pensiero di, Hegel la musica rappresenta la rivelazione
dell’assoluto sotto forma di sentimento. Attraverso la temporalità
della musica e il suo ruolo unificante, l’Io può ritrovare la propria
identità profonda all’interno del caos della vita sentimentale. In
questo senso la funzione della musica diviene quella di svelare
all’animo la propria identità
3
.
1.1.1.3 A.Schopenhauer: un linguaggio assoluto
Nell’opera di Schopenhauer la musica occupa una posizione
fondamentale e ne rappresenta sia il vertice che l’epilogo. All’interno
della gerarchia da lui individuata, in cui ogni arte è rivolta allo stesso
obiettivo, la musica ne rimane esclusa per il semplice fatto che ne
occupa, in modo del tutto privilegiato, il vertice. Diviene linguaggio
assoluto.
Schopenhauer analizza anche il rapporto tra musica e parole:
egli ritiene che la prima non debba assoggettarsi al significato delle
seconde; non deve, in pratica, farsi descrittiva. La sua espressione
musicale prediletta è, come tutti i romantici, quella strumentale,
giudicata la sola pura e limpida.
3
In proposito cfr. E.Fubini, 1987.
13
1.1.1.4 A. Schönberg: un privilegio per illuminati
Arnold Schönberg è considerato l’ideatore della dodecafonia: egli
riassume in sé e nelle sue opere tutta la crisi e l’incertezza tipica del
mondo musicale dei primi decenni del Novecento. La sua personalità
complessa non ha mai sposato completamente una teoria per
escludere le altre: è passato da impeti rivoluzionari a successivi e
repentini ripensamenti.
Sotto certi aspetti pare incline verso un rigoroso formalismo,
sostenendo che la musica deve essere considerata in termini
puramente musicali. In ciò si coglie un atteggiamento aristocratico
rispetto alla musica e all’arte in generale. Infatti il linguaggio
musicale, in questo senso, è un privilegio esclusivo, dato solo a pochi
iniziati. La musica, esprimendo l’interiorità più intima dell’individuo,
deriva così dall’ispirazione, dall’illuminazione dell’autore.
Questa concezione aristocratica della vocazione artistica,
unitamente al valore profetico del messaggio, conferisce alla sua
teoria una tendenza romantico espressionistica, apparentemente in
contrasto con la sua posizione rigidamente formalista.
La questione si sposta sulla definizione e sul significato della libertà
nell’opera d’arte: la dodecafonia ha infatti riproposto questo tema per
i suoi tratti marcatamente numerici e combinatori.
14
1.2 L’Esperienza musicale
La musica, che è composta da suoni, diviene tale nel momento
in cui si fa esperienza. Un insieme di suoni diventa musica infatti
solamente nel cervello umano e in relazione alle capacità reattive che
esso ha in presenza di tale stimolo: suoni e note dunque, non hanno
valenza a priori rispetto al vasto campo di sensazioni, evocazioni ed
emozioni cui si associano nell’atto percettivo.
Ma affinché ciò avvenga è necessario che all’atto uditivo -
momento in cui il suono, attraverso il mezzo fisico dell’ aria, perviene
all’apparato recettivo - segua un processo di interiorizzazione che
porti alla ricezione del fatto sonoro in termini psichici. Tale
operazione presuppone quindi l’esistenza di un repertorio di
conoscenze, o meglio di esperienze, in base al quale organizzare
l’orizzonte percettivo e che darà vita alle innumerevoli associazioni
che connoteranno in maniera del tutto personale la ricezione.
Tuttavia questo patrimonio di conoscenze non è innato, ma è
frutto di un processo di sviluppo che, dalle prime sensazioni pure -
prive cioè di associazioni - porterà alla formazione degli affetti, in un
continuo modificarsi del rapporto con la realtà.
Il contesto sociale di riferimento sarà quindi l’asse portante per la
strutturazione dell’ orizzonte percettivo dell’ascoltatore ma anche, dal
punto di vista del compositore, terreno sul quale trovare delle
possibili corrispondenze tra, il senso della musica - triste, allegra,
mistica ecc..- e l’ambiente, inteso antropologicamente, da cui essa è
scaturita. In questo senso è possibile affermare che i canti di
montagna sono tristi perché la comunità montana, a cui essi
appartengono, risente di un ambiente circostante particolarmente
ostile, mentre, caso opposto, che i Beach Boys compongono musica
allegra perché sono pienamente integrati nel mite clima balneare di
Venice Beach.
15
Anche per quel che riguarda la teoria musicale il discorso è
sostanzialmente lo stesso.
Fin dall’antichità infatti, tra tutte le infinite serie di suoni
possibili tra una nota e la sua prima omofona acusticamente più alta,
è stata scelta una scala di sette toni, la cui immediata omofona nella
regione acustica superiore è detta ottava; ma mentre la suddivisione
in ottave è determinata da criteri naturali di ordine fisico-acustico ed
è perciò assoluta, la formazione delle scale è invece un fatto culturale
e come tale risente e rispecchia i tratti mutevoli e soggettivi di una
data società
4
.
“L’armonia, ad esempio, è un carattere tipico della musica della nostra
civiltà occidentale; vi sono però popolazioni che, come quella di razza
negra, hanno elaborato valori musicali di tipo ritmico enormemente più
raffinati ed espressivi di quanto abbiamo potuto fare noi. [...] Un ritmo,
del quale noi potremmo riuscire a cogliere soltanto gli aspetti più
grossolanamente esteriori, potrebbe determinare in un negro
rappresentazioni musicali per noi assolutamente insospettabili, ma
capaci di agire assai profondamente nella sua psiche, con implicazioni
razionali ed emotive a noi del tutto sconosciute” (M. Sansuini, 1991,
pag 28, 29).
Da quanto detto si evince che la capacità di esperire la musica
non è innata ma è frutto di uno sviluppo il cui ultimo stadio è
rappresentato dal contatto con l’ambiente sociale di riferimento.
Sembra dunque opportuno percorrere, se pur sinteticamente, le
tappe di questo sviluppo e quindi affrontare l’analisi del processo
musicale partendo da un punto di vista pre-sociale, domandandosi,
ad esempio, cosa sia la musica per un feto o per un neonato.
4
In proposito cfr. M. Sansuini, 1991.
16
1.2.1 Il rapporto pre-sociale con la musica
Un feto, immerso nel proprio liquido amniotico, non ascolta la
musica e nemmeno i suoni, ma questo non significa che lui sia sordo.
Egli si nutre di suoni particolari, che associa ad uno stato di
tranquillità, li sente e li vive naturalmente ma senza averne
coscienza.
Da questo punto di vista, la musica allora può essere
considerata come una particolare organizzazione del suono, riduttiva
dell'universo sonoro, che proviene dall'esterno. Essa infatti circola al
di fuori del mondo del feto, ma si prepara ad entrare nella precoce
psiche del neonato, per mezzo di una fitta rete di relazioni sociali.
Per un neonato dunque, la musica (il suono organizzato), non
vuole dire granché: la sua percezione è globale, e non orientata ad un
singolo canale uditivo. Infatti, prima di imparare ad ascoltare la
musica, il bambino tranquillamente sente e ammira lo spettacolo dei
flussi sonori, delle ritmicità del cuore, dei timbri e, in special modo, le
modulazioni del tono della voce della madre; ma mentre al di fuori
della sua vita emotiva c’è una comunità di orecchie sintonizzate su
frequenze diverse (i generi musicali), per lui tutto ciò è privo di senso
e non riesce a metabolizzarlo: “[…] se egli potesse, mescolerebbe
suoni, rumori, stili musicali con qualsiasi strumento (giocattolo) gli
capiti sotto tiro e ogni volta che riproverebbe a suonare ne verrebbe
fuori qualcosa di diverso” (E. E. Gordon, 2003, pag 18).
Il sentire del bambino non è quindi un processo mentale, bensì
coinvolge degli automatismi che trovano la loro sorgente in una base
corporea non relazionale e sono fondati sulla dialettica
emozioni/affetti.
Mereleau Ponty, appartenente alla scuola fenomenologica, parla
al riguardo, di una esperienza sensoriale del bambino, che precede
ogni categorizzazione operata successivamente in maniera cosciente:
17
prima che il bambino impari a farsi delle idee sulle cose – afferma il
fenomenologo – egli le sente.
“È il corpo a dare un senso non solo all'oggetto naturale, ma anche a
oggetti culturali come le parole. Se a un soggetto si presenta una parola
in uno spazio di tempo troppo breve perché egli possa decifrarla, la
parola caldo, per esempio, induce una specie d'esperienza del calore
che circonda la parola stessa, come di un alone significativo. La parola
duro suscita una specie di rigidità della schiena e del collo, e solo
secondariamente si proietta nel campo visivo e assume una figura di
segno o vocabolo” (M. Merleau-Ponty, 1965, pag. 314).
La tesi di Merleau-Ponty è significativa. Il bambino riesce, tramite
una percezione transmodale, a tradurre il suono di una parola in uno
stato d'animo preciso, sentendo o esperendo affetti vitali. Egli non ne
capisce il significato ma il timbro e la sua memoria gli permetterà di
essere maggiormente sensibile a quello più convincente.
1.2.1.1 Il battito cardiaco
Prima che l'uomo, attraverso la sua capacità simbolica, riesca a
farsi le prime idee sulle cose, vi è di fatto un ritmo essenziale che
scandisce la vita: il battito cardiaco.
Già al quarto mese di vita il battito cardiaco diviene il primo
regolatore dell'esistenza umana; il ritmo si configura quindi come una
disposizione alla vita stessa
5
.
Il battito cardiaco è il primo importante e regolare suono che il
bambino sente prima della nascita.
Salk arriva alla conclusione che “[…] durante il periodo uterino, il
bambino forse associa il battito cardiaco del cuore con lo stato di
tranquillità, o forse c'è un imprinting del ritmo del battito cardiaco
5
In proposito cfr. D. Stern, 1987.
18
cosicché più avanti nella vita suoni simili hanno una connessione
funzionale con la prima esperienza” (G. Porzionato, 1980, pag. 78-79).
Il ritmo cardiaco ha una propria funzione specifica per il
bambino, che è in grado di sentirlo ma non di ascoltarlo, di intenderlo
sensorialmente, ma non di comprenderlo coscientemente. Questa
sonorità, nella propria forma ritmica, approda prima della parola,
prima che la società possa educare ad ascoltare ed è qui che svolge il
proprio compito: far esperire il ritmo a livello sensoriale e non
razionale.
“Nel primitivo habitat il bambino vive costantemente immerso,
come avvolto da suoni, da ritmi di fondo: il battito cardiaco della
madre, i movimenti respiratori con le loro vibrazioni. Queste due
sonorità sono state un background costante, come una trama di base,
la cui assoluta costanza, ripetitività, ritmicità possono essere
considerate un elemento straordinario di benessere, un senso di
sicurezza e di contenimento” (A. Tomatis, 1996, pag.40).
Carlo Sini afferma che il bambino percepisce e riconosce già nel
ventre materno il battito cardiaco della madre e ne fa esperienza.
Secondo il filosofo, l'esperienza del ritmo non può avvenire al primo
battito, ma solo nel momento del suo riconoscimento, dunque non
prima del secondo: “[...] l'esperienza si può mettere in moto solo con un
secondo, non con un primo. È solo nel momento in cui avverto il toc che
comincio a esperire che la traccia è tracciata; ma lo avverto, appunto,
come il secondo di un altro; lo avverto nel momento in cui dico: eccolo il
toc! Senti come batte bene il cuore della mamma” (C. Sini, 1993, pag.
55).
Il tempo stesso che noi scandiamo con l'orologio scaturisce
dall'iniziale imprinting del ritmo cardiaco, cosi come la concezione del
battere/levare in musica, deriva dalla presenza/assenza del battito.
19
1.2.1.2 La voce materna
Quando il neonato si confronta per la prima volta con il mondo
dei suoni, scopre, e impara a riconoscere, la voce della madre, che gli
trasmette serenità, affetto e senso di protezione. Egli preferisce i
suoni della lingua materna e delle sequenze melodiche cantate dalla
madre, evidenziando una memoria e un apprendimento prenatale,
che gli consentono di selezionare, riconoscere e preferire le invarianti
acustiche alle quali era stato esposto nel periodo uterino, durante il
quale si può pensare che venga veicolata e appresa una prima
alfabetizzazione emotiva
6
.
Tomatis ha postulato che il feto può udire ed ascoltare la voce di
sua madre molto presto: l’orecchio è infatti il primo organo ad essere
totalmente funzionante a solo 4 mesi e mezzo di vita intrauterina.
La madre “[…] nutre il feto in ogni maniera possibile. Soprattutto lo
nutre di suoni. Si rivela al feto attraverso tutti i rumori organici,
viscerali e specialmente la sua voce. Il bambino è immerso in questo
ambiente sonoro. Dalla voce materna, in particolare, ricava tutta la
sostanza affettiva. È anche in questa maniera che assorbe il supporto
della lingua materna.[…] s'instaura la comunicazione audiovocale
primordiale. Quando il circuito si stabilisce perfettamente, l'embrione
attinge da questo dialogo permanente un senso di sicurezza che gli
garantisce crescita armoniosa” (A Tomatis, 1999, pag. 194-195).
Lo specialista (Alfred Tomatis era otorinolaringoiatra, ma amava
definirsi ‘professore dell'orecchio’) conclude che la voce materna non
solo agisce come una sorta di sostanza nutritiva emozionale, ma
prepara anche il bambino all’acquisizione del linguaggio dopo la
nascita.
In realtà, il feto non riconosce le singole parole, ma percepisce i
tratti prosodici della voce, rappresentati da altezza, intensità, timbro
e durata dei suoni emessi. Per lui, il veicolo di trasmissione di senso,
6
In proposito cfr. A. Tomatis, 1996.
20
è la musicalità del linguaggio, per cui, anche se non discrimina le
parole, ne può percepire il significato profondo.
“Winnicott sottolinea come un rapporto madre-bambino 'devoto',
rispettoso del bambino e della sua specificità, non riguardi tanto i
contenuti della comunicazione, non dipenda dalle parole (linguaggio)
che la madre dice al bambino, ma da come lei gliele dice, dal tono dolce
e rassicurante che usa, dal rinforzo di ciò attraverso altre modalità di
contatto, come quelle tattili dell'accarezzare, cullare, ecc..” (F.
Manattini, 1994, pag. 195).
La voce infatti, ha la proprietà di esprimere emozioni ed ogni
emozione è caratterizzata da un preciso distintivo profilo vocale
7
. La
collera produce un aumento dell’intensità della voce, la presenza di
pause molto brevi o anche la loro assenza e un ritmo elevato; la voce
della paura è sottile, tesa e stretta; la tristezza si esprime con un tono
basso, è una voce rilassata e stretta; la gioia comporta una tonalità
acuta e un profilo di intonazione progressivo, con un aumento
dell’intensità e un’accelerazione del ritmo di articolazione mentre la
tenerezza è caratterizzata da ritmo regolare, da una tonalità grave,
con un profilo di intonazione lineare e un volume tendenzialmente
basso.
1.2.2 Il passaggio al sociale
Come abbiamo visto, lo sviluppo ontogenetico dell’uomo
comporta una selezione sempre più raffinata di ciò che viene
percepito. Dal feto al neonato e poi al bambino, lo scopo di questa
selezione è quello di ridurre la complessità per trarne vantaggio,
stabilendo un ordine proprio, dando più importanza all'inflessione
della voce materna e ai ritmi cardiaci, rispetto ad altri stimoli sonori
lasciati sullo sfondo (la caverna sonora).
7
In proposito cfr. L. Anolli, R. Ciceri, 2000.