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Anche perché, se è vero che la biologia evoluzionista è la disciplina che più è solcata da tale
dibattito, è anche vero che le implicazioni teoriche che tale dibattito comporta vanno ben oltre i
confini che demarcano e limitano tale area disciplinare.
Biologi, antropologi, psicologi, geologi, sociologi, filosofi, dimostrano che l’evoluzione come teoria
non “appartiene” a nessuno, a nessun individuo come a nessuna disciplina in particolare, e le voci
che contribuiscono all’articolazione di questo discorso collettivo sono davvero complesse e
molteplici.
Così il dibattito sull’evoluzione, proprio perché composto da una variegata pluralità di voci e punti
di vista non sempre componibili, presenta una particolare vivacità, segno evidente di quanto il
paradigma evolutivo sia tuttora in espansione, di come stia conquistando una sempre maggiore
centralità nel nostro modo di comprendere e interpretare il mondo, articolandosi anche negli
approcci un tempo alternativi dei paleontologi e dei genetisti moderni. Alternativa a cui si possono
ancora in parte ricondurre le diverse scuole di pensiero che ne tengono acceso il dibattito.
Due sono i filoni che si contendono l’egemonia del paradigma di studi dell’evoluzionista moderno e
contemporaneo. Il primo, ancora egemone, è quello riconducibile alla genetica moderna ed è
caratterizzato da un approccio essenzialmente riduzionistico alla spiegazione evolutiva Dawkins,
1986, Maynard-Smith, 1978, Dennet, 1997), e potremmo definire questo approccio al tema
dell’evoluzione, prendendo in prestito la terminologia usata da Niles Eldredge (che pur essendo
parte in causa si è occupato di fornire una dettagliata ed equilibrata cartografia del dibattito in
corso), l’approccio ultradarwinista (Eldredge, 1999).
Il punto di vista alternativo a quello ultradarwinista invece annovera tra i suoi seguaci una schiera di
studiosi afferenti a numerosi settori disciplinari; paleontologi, filosofi della biologia, genetisti dello
sviluppo, ecologi, tutti accomunati da una visione critica del modo in cui l’atteggiamento
riduzionista degli ultradarwinisti porti a semplificare eccessivamente il processo evolutivo fino al
punto da distorcerlo. Sempre secondo Niles Eldredge, definiamo questo settore di studi come
l’approccio naturalista.
In realtà potrebbe essere pericolosamente fuorviante individuare un diretto rimando al darwinismo
soltanto in uno dei due approcci, cioè quello ultradarwinista, dal momento che entrambe le scuole
fondano la legittimità delle loro tesi in una comune rivendicazione dell’eredità teorica darwiniana.
Questo per alcuni aspetti rende poco comprensibile l’acredine che caratterizza il dibattito in
questione, poiché il richiamarsi ad una comune eredità teorica non coincide con le differenze interne
al confronto in atto.
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Le differenze reali stanno infatti nel trattamento diverso di uno stesso nucleo di questioni di base
concernenti il modo di operare della selezione naturale, e comportano spiegazioni diverse in merito
e metodo e teoria evoluzionista.
Gli ultradarwinisti sono i legittimi eredi di quel paradigma conoscitivo che prende forma nella prima
metà del secolo scorso muovendo dall’allora nascente genetica delle popolazioni, e che si delinea
come egemone a partire dalla metà degli anni cinquanta: la Sintesi Moderna1.
Il programma ultradarwinista, in concordanza con la tradizione della Sintesi, si attesta
sostanzialmente su tre nuclei fondamentali: il gradualismo, la selezione e l’adattamento, che
vengono intesi come nuclei su cui lavorare sia a livello di ricerca sul campo che a livello teorico.
Naturalmente, a nessun naturalista verrebbe in mente di mettere in discussione la selezione naturale
come processo fondamentale e basilare del cambiamento evolutivo, e il pomo della discordia
dell’intera querelle non è ovviamente l’esistenza della selezione naturale, ma l’effettivo modo di
operare della selezione naturale nella realtà.
Da parte naturalista si privilegia un’ottica più olista, che favorisce uno sguardo d’insieme e tenta di
comprendere la complessità evitando di eluderne alcuni aspetti fondamentali, mentre dall’altra si
mette in risalto come unico vero motore del processo evolutivo quella che è la competizione tra
linee geniche per il successo riproduttivo, senza eccezioni a questa dinamica, con il rischio di vedere
così ogni competizione, anche quella per il cibo o per le risorse, come nient’altro che un
epifenomeno di quella che è la vera gara suprema: quella per il successo riproduttivo. Secondo la
genetica ultradarwinista infatti non sarebbero gli organismi ad entrare in competizione tra loro,
quanto le varie linee genetiche di discendenza che cercano di massimizzare la loro diffusione a
1
Tra gli anni venti e gli anni trenta si formano le linee guida della futura genetica delle popolazioni, e i primi importanti
progressi di questo settore disciplinare permettono alla biologia di raggiungere importanti conoscenze empiriche
seguendo delle vie sperimentali, una modalità conoscitiva finora ad esclusivo appannaggio dell’esperimento da
laboratorio proprio delle scienze “senza tempo”, come ad esempio la fisica. Le ricerche condotte in quegli anni in
genetica hanno poi il ruolo fondamentale di rimuovere la barriera tra la il mendelismo e l’evoluzionismo darwiniano,
permettendo di definire le mutazioni come comparsa graduale e ininterrotta di nuovi alleli all’interno di una
popolazione, su cui agisce la selezione naturale con la dinamica evolutiva ipotizzata da Darwin. L’analisi
computazionale delle frequenze geniche poi ha contribuito a ridurre il vasto processo evolutivo esclusivamente ad un
cambiamento delle frequenze geniche delle popolazioni, cosicché gradualismo evolutivo e selezione naturale intesi
come una vera e propria “forza attiva” guadagnano un posto centrale proprio grazie alla spiegazione genetica.
Il successivo consolidarsi di questo paradigma e l’eliminazione di ogni forma di evoluzione non strettamente
selezionista e gradualista intorno agli anni cinquanta – sessanta coincide con il formarsi del nocciolo duro della Sintesi
Moderna (Dawkins, 1986; Maynard-Smith, 1976; Dennet, 1997), che seppur cercando di essere il paradigma unificante
dell’intera biologia (il nome stesso “Sintesi” vorrebbe dare quest’impressione), non riuscirà mai fino in fondo in questa
impresa, anche perché la stessa Sintesi tenta in qualche modo di espellere dalla legittimità darwiniana ogni
evoluzionismo non strettamente selezionista e gradualista. L’idea forte della Sintesi è infatti proprio che tutti
cambiamenti osservabili a livello macroscopico siano interamente riconducibili a piccole innovazioni accumulatesi nel
corredo genico, da cui potremmo sintetizzare il manifesto della Sintesi nello slogan «la macroevoluzione è totalmente
riconducibile alla microevoluzione» (Pievani, 2005, pag. 14).
Così la contesa tra una chiave naturalista che pone al centro della riflessione l’elemento della contingenza storica e una
che pone al centro esclusivamente un selezionismo genetico e graduale ha caratterizzato e caratterizza tutt’ora lo stato
dell’arte della biologia evoluzionista.
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scapito di altre, tanto che la replicazione genica «è vista come il target primario della selezione,
mentre l’interazione organismo – ambiente assume una connotazione strumentale» (Pievani, 2005,
pag. 75).
È interessante notare fin da subito come, in realtà, già si sia verificato un piccolo ma significativo
spostamento semantico del concetto di selezione tra Darwin ed i neo-darwinisti più ortodossi, uno
spostamento che, se valutato opportunamente ci aiuterà a comprendere meglio i punti di vista in
questione liberandoli dalle ideologie che spesso li sottendono .
La selezione infatti nell’accezione strettamente darwiniana è un filtro passivo, una forma di
registrazione e conservazione delle modifiche evolutive che hanno meglio funzionato e vincola la
diffusione dei geni tra una generazione e l’altra (questo non ce lo dice direttamente Darwin ma dopo
la scoperta dei meccanismi dell’ereditarietà dei caratteri possiamo affermarlo tranquillamente come
meccanismo tipicamente darwiniano): nell’ottica del gene egoista (parafrasando l’opera di uno dei
più autorevoli esponenti del programma ultradarwinista, Richard Dawkins), invece la selezione
diventa qualcosa di molto più attivo del semplice “registro darwiniano” dei fatti evolutivi. Per gli
ultradarwinisti infatti la selezione è una vera e propria forza agente che diventa quasi in grado di
plasmare attivamente gli organismi in direzione del maggior successo riproduttivo possibile, e gli
organismi diventano così i portatori passivi di quelle che sono le vere e proprie unità fondamentali
dell’evoluzione: i geni, il cui codice informazionale è un vero e proprio programma in codice
dell’adattamento all’ambiente, finalizzato alla massima diffusione e riproduzione. In questo modo,
gli organismi non sarebbero che delle comparse nella scena dell’evoluzione, mentre i veri
protagonisti sarebbero i geni che formano le linee di discendenza in competizione fra loro: come se
«nascosti dietro i corpi degli organismi vi fossero miriadi di brulicanti unità di codice genetico attivamente
impegnate nella loro replicazione» (Pievani 2005, pag. 76).
Il processo evolutivo, diversamente da come teorizzato da Darwin, (passivo, che non si intende di
futuro, e che si limita a registrare l’accaduto), diventa un processo unicamente selettivo, che opera
secondo uno scopo: quello della massimizzazione della diffusione delle proprie linee di
discendenza2. Un’evoluzione questa, dove non c’è più spazio per il caso, la contingenza,
l’imprevedibile e la storia.
2
È interessante notare come questa concezione tutta adattativa del processo evolutivo, basata sulla competizione ad
majora tra linee genetiche, demarchi una preoccupante somiglianza con i creazionisti dell’ultima ora, cioè i sostenitori
dell’Intelligent Design. In entrambe le scuole di pensiero infatti gli individui appaiono come i portatori passivi del
codice che informa l’evoluzione, dove l’adattamento è una corrispondenza ottimale organismo – ambiente ed è
precisamente finalizzato a qualcosa di pre-ordinato, sia esso la realizzazione del disegno divino (come nel caso dell’
Intelligent Design) piuttosto che la replicazione del codice genetico, che nella visione genecentrica è tutto ciò che conta.
11
Non a caso proprio due acuti critici del riduzionismo genetico, come Lewontin e Gould, in omaggio
al “Candido” di Voltaire, definiscono questo paradigma condizionato dalla perfezione della
corrispondenza punto per punto adattativa tra uomo e ambiente, un programma “panglossiano”.
Come nella visione che il dottor Pangloss sostiene nel Candido, nell’ultradarwinismo ogni carattere
è esattamente come deve essere per raggiungere il proprio obiettivo di ottimizzazione. Nel caso
specifico quello di diffondere il maggior numero possibile di geni. Tutto ciò che succede è in vista
del miglior adattamento possibile, e nulla in quest’ottica è né potrebbe essere mai fuori posto (ma
allora come spieghiamo l’estinzione di specie che hanno avuto una vita lunghissima come i
dinosauri?), poiché l’imperativo della massima diffusione genetica possibile controllerebbe quasi
meccanicamente “le magnifiche sorti e progressive” dell’evoluzione.
Ma è davvero corretto affermare che la vita non è altro che un processo di trasmissione dei geni da
una generazione all’altra? Per gli ultradarwinisti evidentemente sì, e
«questa trasformazione del concetto darwiniano di selezione naturale, spiegherebbe non soltanto come si
realizza l’evoluzione, ma anche la natura e la struttura di ogni sorta di sistema biologico» (Eldredge, 1999,
pag. 43).
Questa trasformazione del concetto di selezione ha anche un’altra conseguenza teorica, che
distanzia ulteriormente il programma ultradarwinista dal padre fondatore della teoria
dell’evoluzione, si tratta del radicale cambiamento che subisce il concetto di adattamento.
Diventando la selezione unicamente un processo che riguarda il pacchetto genico di un organismo
che supera i propri rivali nel lasciare alla generazione successiva un numero relativamente maggiore
di copie dei propri geni, e in ciò starebbe il suo essere adatto, di fatto anche il termine adattamento
cambia significato rispetto all’originale accezione darwiniana. L’adattamento, a differenza della
fitness darwiniana che è interpretabile come un processo riguardante il vigore complessivo
dell’individuo nel corso della storia, nell’ottica gene-centrica diventa un qualcosa che riguarda
esclusivamente l’aspetto riproduttivo (a cui evidentemente ogni altra forma di successo deve essere
in ultima analisi ricondotta) e che, in base a quanto visto finora, va a ricoprire un ruolo
predominante nell’evoluzione delle specie, poiché assolve ad una vera e propria funzione di guida
dell’intero processo evolutivo, dal momento che tutto quello che succede diventa spiegabile nei
termini del “miglior adattamento possibile”.
La centralità che si attribuisce al concetto di adattamento così inteso è tale da riconfigurare la
complessa e multiforme dinamica darwiniana in un’ottica funzionalista, dove il determinismo che fa
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da sfondo epistemologico a questa riscrittura di Darwin, lascia intravedere una sorta di
provvidenzialismo.
Egemone in questa biologia evolutiva è dunque un selezionismo che cerca in qualche modo di
prevedere la direzione dell’evoluzione, secondo il principio per cui la selezione premia gli
organismi più adattati al proprio ambiente, fornendo loro una migliore combinazione delle proprie
basi geniche, ai fini della riproduzione differenziale. Pertanto, seguendo queste argomentazioni
“adattamentiste”, dovremmo avere un’evoluzione lineare, progressiva, in cui in maniera lenta ma
costante si accumulano gli adattamenti che direzionano il percorso ottimale della storia evolutiva
senza possibilità di altre vie percorribili. Un adattazionismo questo, che per funzionare ipotizza per
il codice genetico la scomponibilità in unità di base separate, alle quali poter assegnare un valore
specifico complessivo di adattamento, ipotizzato come misurabile e idealizzato dall’equazione “un
gene un carattere”; ma il problema, per gli adattazionisti, è che entrambe le cose non sembrano
essere vere, così come non vera risulta la postulata linearità dell’evoluzione, costantemente smentita
dai dati e dalle riflessioni paleontologiche.
Se l’organismo fosse esclusivamente un veicolo programmato per la sopravvivenza dei suoi geni, la
selezione dovrebbe agire sulle singole parti organiche “programmate” da unità genetiche discrete; se
così fosse, non sapremmo come spiegare perché la percentuale di DNA predisposta per la codifica
di proteine è estremamente bassa. Il DNA di trascrizione è risultato infatti poco meno del due per
cento, mentre il rimanente, circa il novantotto per cento, è costituito da sequenze ripetute, disperse
su vari cromosomi (DNA ridondante); né sapremmo ipotizzare come mai a livello molecolare la
maggior parte dei cambiamenti sia provocata dalla deriva casuale di geni mutanti.
Ecco allora «cosa sono gli adattamenti agli occhi degli ultradarwinisti: espedienti per facilitare la
diffusione genetica di un organismo» (Eldredge, 1999, pag. 43), riducendo così la complessità del
vivente alla sola facoltà riproduttiva, vista, tra l’altro, come pre-programmata a livello genico, come
se l’interazione uomo-ambiente non influisse nell’espressione genica3.
Massimizzare l’adattamento come riproducibilità dell’organismo in quest’ottica sembra dunque
essere il solo scopo della selezione in qualunque momento. Ma questa interpretazione “adattativa”
sorvola sulla contingenza che interviene a tutti i livelli dell’evoluzione, dal gene al più complesso
3Da diverso tempo, grazie ad alcuni filosofi della biologia si discute di come le distinzioni tra il dominio dell’innato e
quello dell’acquisito si fondano su assunzioni discutibili circa i meccanismi che producono il cambiamento nei sistemi
in evoluzione. La loro è una visione che vede lo sviluppo come una miscela di livelli interdipendenti che possiamo
distinguere tra loro solo per comodità epistemologica (Oyama, 2004);. Proprio secondo Oyama il principale attore
dell’evoluzione è il sistema di sviluppo genetico-ambientale, una miscela eterogenea che non riguarda tanto i tratti
discreti di informazione, quanto un vero e proprio bagaglio complesso dello sviluppo che comprende i geni, i
meccanismi e le strutture cellulari, l’ambiente extracellulare, e anche elementi propri della cosiddetta natura secondaria
come le cure parentali e in generale le relazioni col mondo. La materia soggetta a eredità diventa così qualcosa che è
veramente impossibile separare in tratti discreti, e pertanto non può nemmeno essere ipotizzato alcun piano prefissato
nei geni, poiché contribuiscono all’informazione che viene trasmessa nel ciclo della vita anche fattori non genetici.
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ecosistema, e proprio per il suo indebitamento teorico con una trattazione di tipo matematico è
costretta a mettere in secondo piano aspetti rilevanti dell’interazione con l’ambiente, e così la
dialettica organismo-ambiente sparisce dall’evoluzione. Questo modello epistemologico considera
gli organismi come una somma additiva e dunque scomponibile di caratteri ottimizzati (cioè adattati
in modo ottimale) dalla selezione naturale, mostrando così come nell’adattazionismo un organismo
sembri corrispondere alla somma delle sue parti, più che alla loro integrazione.
Il programma adattazionista risponde sicuramente alle caratteristiche di predittività che spesso si
chiedono alle scienze, tuttavia non tutti gli oggetti di studio si prestano alla predizione, e il vivente
probabilmente è tra questi. I cosiddetti ultradarwinisti hanno sicuramente il merito di saldare il
legame tra Darwin e la genetica, ma nel far ciò elidono altre parti del programma darwiniano, quelle
non assiomatizzabili.
Di tutto l’impianto ecologico e dinamico con cui Darwin spiega i modi del cambiamento e della
conservazione, quello che resta è sostanzialmente solo la selezione naturale, e proprio in ragione
dell’egemonia adattazionista all’interno della biologia evolutiva lo stesso Darwin è stato spesso
dipinto come un selezionista radicale, che non ha mai mostrato particolare interesse per altri
meccanismi evolutivi. Ma a ben guardare questo modo di vedere che trova giustificazioni solo nelle
trincee interessate degli ultradarwinsti, non corrisponde a verità.
Sebbene Darwin considerasse la selezione come il meccanismo più importante, nessun argomento
degli oppositori lo inquietava quanto il tentativo di fare della sua teoria un insieme di dogmi basati
solo sulla selezione naturale. Proprio nell’ultima edizione dell’Origine egli scrive:
«Poiché le mie conclusioni sono state in seguito largamente male interpretate, ed è stato affermato che io
attribuivo le modificazioni delle specie alla sola selezione naturale, permettetemi di far notare che nella prima
edizione di questo lavoro e nelle successive, ho messo in posizione rilevante, ossia alla fine dell’introduzione
le seguenti parole: - Sono convinto che la selezione sia stata il mezzo principale, ma non esclusivo, del
cambiamento-. Ciò non è servito a nulla. Grande è il potere delle interpretazioni costantemente sbagliate»
(Darwin, 1989, pag. 431).
Il potere delle interpretazioni sbagliate è davvero grande se oggi, i difensori ortodossi della teoria
darwiniana sono coloro i quali per primi ne hanno dimenticato l’originaria vocazione pluralista
schiacciando tutta la complessa e variegata teoria dell’evoluzione sulla selezione naturale, una
selezione che, tra l’altro, nel programma adattazionista risulta essere piuttosto distorta da quella che
troviamo negli scritti del naturalista britannico.
Alla luce di quanto visto fino a qui, possiamo vedere come il modo in cui troviamo un Darwin in
qualche modo distorto non è affatto casuale, poiché i nuclei tematici alla luce dei quali le teorie del
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naturalista inglese vengono reinterpretate a un secolo dalla loro formulazione originaria, sono
esattamente quelli che dobbiamo a una lettura del processo evolutivo sbilanciata verso il paradigma
genetico. Fu infatti il genetista di popolazioni Fisher che propose
«la selezione come algoritmo universale del vivente, in vista di una biologia assiomatizzabile e dunque
capace di rispondere a un ruolo previsionale e perciò stesso più “scientifico”» (Gagliasso, 2001, pag. 159),
riducendo così la complessa dinamica dell’evoluzione a una legge di riproduzione differenziale del
genotipo.
La visione gene-centrica ha inoltre permesso lo spostamento del significato per nulla neutro del
termine selezione, che diventa una forza guida in grado di plasmare attivamente il processo
evolutivo in direzione adattativa, un processo dove anche il soggetto-oggetto della selezione si
sposta e non è più l’individuo, come in Darwin, ma il gene e le linee di discendenza.
Pertanto è evidente che il dibattito in corso all’interno della biologia evolutiva e una conseguente
“epistemologia di parte” hanno partorito una rielaborazione di alcune parti del programma
darwiniano, che nella versione genetista e sotto l’apparente strenua difesa della teoria del padre
fondatore che è stata analizzata fin qui, viene ampiamente riformulato fino a farne una vera e
propria ideologia scientifica, che si distanzia notevolmente dall’originario spirito pluralista che ha
caratterizzato il lavoro di Darwin.
La nozione di ideologia scientifica sembra particolarmente calzante per descrivere la rielaborazione
gene-centrica del darwinismo che abbiamo analizzato, e la dobbiamo al grande epistemologo della
biologia e della medicina Georges Canguilhem, che dedica un saggio della raccolta «Ideologia e
razionalità nella storia delle scienze della vita» proprio a tale figura epistemologica.
Citando le parole dell’autore,
«un’ideologia scientifica non è una falsa coscienza come lo è invece un’ideologia politica di classe. Non è
nemmeno una falsa scienza. La caratteristica di una falsa scienza è di non incontrare mai il falso, di non
dover rinunciare a niente, di non dover mai cambiare linguaggio […] l’ideologia scientifica sta
evidentemente nel non riconoscere le esigenze metodologiche e le possibilità operative della scienza nel
settore di esperienza che cerca di occupare» (Canguilhem, 1992, pag. 31-32).
Seguendo l’argomentazione di Canguilhem l’adattazionismo non è infatti una forma di falsa scienza
o di credenza; ha a tutti gli effetti un posto nella conoscenza scientifica, ma come programma di
ricerca, abbiamo visto, è costituito dall’estensione del paradigma epistemologico che è proprio della
genetica di popolazioni ben oltre il proprio dominio di applicazione, ovvero la «genetica dei
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sottogruppi di specie quando la competizione per il successo riproduttivo è il fenomeno in esame»
(Eldredge, 1999, pag. 13). Questo è infatti il contesto giusto per la genetica di popolazioni.
«È soltanto quando gli ultradarwinisti estrapolano acriticamente a domini più estesi, o non appropriati, che le
loro formulazioni cominciano a mancare il bersaglio» (Eldredge, 1999, pag. 13).
L’improprio spostamento del campo di applicazione di un paradigma epistemologico, quello della
genetica di popolazioni, fuori dal proprio dominio, introduce una componente di ideologia
scientifica in questo paradigma. Ma come mai questo spostamento avviene?
«Se si opera un’estensione di conclusioni teoriche locali staccate dalle loro premesse e liberate dal loro
contesto, a che scopo questo contagio di scientificità viene ricercato? A scopo pratico» (Canguilhem 1992,
pag. 36).
Ma dovremmo quindi chiederci sulla scorta delle considerazioni di Canguilhem che senso abbia alla
luce del dibattito in corso questa estensione della genetica oltre la genetica, e proprio come ci
suggerisce il grande epistemologo francese, l’analisi del programma adattazionista come ideologia
scientifica trova conferma nel suo essere un’ impropria estensione di paradigma a scopo
eminentemente pratico. Uno scopo pratico come l’egemonia alla “tavola alta” dell’evoluzione.
Senza fare direttamente riferimento alle riflessioni di Canguilhem, su questo versante della critica al
programma adattazionista si muovono anche due nomi importanti dell’approccio scientifico
alternativo all’adattazionismo; Stephen J. Gould e Richard C. Lewontin.
Il lavoro congiunto di Gould e Lewontin è una dimostrazione di quanto l’approccio naturalista
riguardi una molteplicità di aree disciplinari, la cui interconnessione caratterizza questo tipo di
approccio allo studio dell’evoluzione come un vero e proprio pluralismo darwiniano. Richard C.
Lewontin lavora infatti sia sulla teoria matematica della genetica di popolazione sia sulla
determinazione sperimentale della struttura genetica delle popolazioni naturali. La sua ricerca si
interessa particolarmente di genetica molecolare, e questo fatto è particolarmente importante se
consideriamo che tradizionalmente la genetica è proprio l’area disciplinare da cui il programma
adattazionista trae la gran parte delle proprie argomentazioni. Stephen J. Gould invece è un
paleontologo, zoologo e biologo contemporaneo tra i più importanti ed autorevoli, e dalle sue
riflessioni su alcune osservazioni paleontologiche scaturiscono, come vedremo meglio più avanti,
alcune delle più interessanti teorie sull’evoluzione. Gould e Lewontin fanno un esempio
particolarmente calzante di quanto sia erroneo considerare “adattativamente” le conseguenze dei
vincoli dovuti alle architetture filogenetiche e ai piani fondamentali utilizzando metaforicamente
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degli esempi provenienti da campi non biologici, dove la mentalità adattazionista non è di casa, ed è
dunque più evidente l’inversione di senso che si opererebbe leggendo in chiave adattazionista dei
fenomeni che evidentemente non lo sono.
L’esempio più celebre è anche quello che dà il titolo all’articolo che qui utilizziamo come
riferimento bibliografico, quello della cattedrale di San Marco a Venezia. La cupola della cattedrale
presenta dei pennacchi a forma di triangolo allungato, e questi pennacchi sono dei sottoprodotti
architettonici che si hanno quando una cupola viene inserita su archi tondi. Dal momento che su
ogni pennacchio sono apposti dei mosaici, si sarebbe portati a pensare (se fossimo adattazionisti)
che quei mosaici su quei pennacchi sono la causa dell’architettura della cupola, che è stata fatta
proprio così in modo da poterci mettere quegli splendidi mosaici. In realtà quei pennacchi sono solo
spazi avanzati e rimasti liberi su cui il mosaicista ha esercitato la propria creatività; dei vincoli
architettonici utilizzati in maniera creativa dall’artista, esattamente quello che fa spesso
l’evoluzione. Da questo esempio è evidente quanto sia problematico considerare come adattamento
quello che non lo è, poiché scambieremmo un epifenomeno secondario per la causa prima del tutto.
Infatti pur non dichiarando che fenomeni diversi dall’adattamento siano teoricamente impossibili, il
programma adattazionista ha comunque circoscritto il campo d’azione di fenomeni non adattativi a
tal punto da rendere la loro rilevanza nella storia della natura praticamente nulla, e così le alternative
alla «selezione per il progetto globalmente migliore» sono state relegate a un ruolo secondario.
Ammettere delle alternative di principio non implica che queste vengano prese in considerazione
nella pratica quotidiana, pertanto anche se tutti sostengono a parole che non tutto è adattativo, posti
di fronte a un organismo si tende a
«farlo a pezzetti e raccontare storie adattative come se il bilancio fra parti in competizione, ben progettate, sia
l’unica costrizione alla perfezione di ogni carattere» (Gould, Lewontin, 2001, pag. 8).
Nel programma adattazionista, anche se non vengono falsificati argomenti alternativi a quello
unicamente adattativo, li si considera comunque e ingiustificatamente (dal punto di vista scientifico)
come argomenti di secondo piano; pertanto il programma adattazionista procede sempre nella
direzione di una argomentazione adattativa univoca che non lascia spazio a spiegazioni alternative
che cadono fuori da questo programma. Gli stessi Gould e Lewontin mostrano quanto
l’adattazionismo sia escludente sintetizzandone il modo di procedere in punti:
«se un argomento adattativo cade, prova con un altro; in assenza di un buon argomento adattativo, comincia
con l’attribuire il fallimento all’imperfetta conoscenza dei luoghi e delle abitudini di vita di un organismo»,
chiedendosi, analizzando quanto questo modo di procedere sia “partigiano”, se sia poi effettivamente
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opportuno o ideologico il fatto che «la caduta di una spiegazione adattativa debba sempre ispirare la ricerca
di un’altra dello stesso tipo, piuttosto che spingere a prendere in considerazione delle alternative alla
spiegazione secondo cui ogni parte “è per” uno scopo specifico» (Gould, Lewontin, 2001, pag. 9).
Naturalmente sia Gould che Lewontin intendono con questa domanda retorica rimarcare l’improprio
sbilanciamento della maggior parte degli studiosi dell’evoluzione. Potremmo dunque concludere
che anche loro troverebbero molto utile il lavoro di Canguilhem sull’ideologia scientifica per
descrivere questo sbilanciamento tutto adattazionista.
Architetture filogenetiche e pennacchi evolutivi: perché il paradigma adattazionista non tiene,
alcuni cases studies
Se l’adattazionismo potesse essere abbandonato dopo qualche verifica esplicita potrebbero
facilmente farsi avanti delle ipotesi di ricerca alternative, ma generalmente le trincee che si sono
scavate nel dibattito che attraversa la biologia evolutiva, come notano Gould e Lewontin, fanno sì
che respingere un’ipotesi adattativa significhi generalmente sostituirla con un’altra piuttosto che
ricercare un qualche altro tipo di spiegazione. Le spiegazioni adattative possono essere tante quante
la nostra fertile mente ne può escogitare, e se ne possono sempre inventare di nuove. Pertanto gli
evoluzionisti adattazionisti considerano generalmente finito il proprio lavoro quando riescono a
confezionare una storia plausibile secondo il criterio della selezione e dell’adattamento, e storie
plausibili possono sempre essere trovate. Però la chiave per una ricerca storica non sta solo nel
raccontare una storia possibile, ma sta anche «nel determinare criteri per identificare le spiegazioni
giuste fra tutti i possibili cammini che hanno condotto a un risultato moderno» (Gould, Lewontin,
2001, pag. 11). Il paradigma dell’adattamento ottimale (nonostante le barriere erette a sua difesa
dagli ultradarwinisti), non è dunque la sola spiegazione evolutiva possibile, né è sempre la più
appropriata, e persino i genetisti di popolazione, generalmente più inclini all’adattazionismo, sono
divisi sulla questione di quanta parte del polimorfismo delle differenze genetiche tra specie sia il
risultato della selezione naturale e quanta di fattori puramente casuali.
Nell’originale spirito pluralista di Darwin possiamo analizzare una serie di spiegazioni alternative
all’adattamento immediato di alcuni fenomeni evolutivi di cui proprio Gould e Lewontin forniscono
un elenco interessante.
È per esempio possibile che si verifichi un cambiamento nelle frequenze geniche per deriva genetica
in totale assenza di ogni forza selettiva, o addirittura che un allele si fissi in una popolazione a
scapito della selezione individuale. Se infatti l’intensità della selezione è particolarmente elevata la
fissazione casuale di un allele poco adatto è un fenomeno raro (ma non impossibile), ma se
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«i coefficienti di selezione sono dell’ordine del reciproco della taglia della popolazione o inferiori, allora la
fissazione di alleli deleteri è un fenomeno comune. Se molti geni sono coinvolti nella determinazione di un
carattere metrico come la forma, il metabolismo o il comportamento, allora l’intensità della selezione su ogni
locus sarà piccola. Come risultato molti dei loci diverranno fissati per alleli non ottimali» (Gould,
Lewontin, 2001, pag. 16).
Inoltre, molto spesso la deriva genetica causa la perdita immediata della maggior parte delle nuove
mutazioni, che così hanno ben poche probabilità di essere incorporate in una popolazione, anche se
favorite dalla selezione. Diventa quindi rischioso affermare che alla fine di una mutazione del tipo
giusto, per qualche motivo sempre e solo adattativo, quella mutazione avverrà e si diffonderà
sempre e comunque.
La perdita delle mutazioni favorevoli causata dalla deriva genetica e la possibilità che si fissino
mutazioni per deriva genetica in assenza o malgrado la selezione, sono alcuni interessanti cases
studies che Gould e Lewontin annoverano tra i fatti evolutivi etichettabili sotto la dicitura «nessun
adattamento e nessuna selezione». Queste tipologie di fenomeni evolutivi, se lette secondo il
paradigma adattazionista probabilmente non sarebbero nemmeno casistiche contemplate, poiché i
fatti evolutivi che le costituiscono, in quel paradigma non sarebbero ipotizzabili.
Altri fattori non comprimibili nell’adattazionismo li troviamo nella categoria in cui lo stesso Darwin
pose quelle che chiamava “le misteriose leggi della correlazione e della crescita”, dove la
morfologia di una parte organica presa in esame è la conseguenza correlata di una selezione
verificatasi altrove.
Gli organismi si confermano così come sistemi integrati, fondamentalmente non scomponibili in
parti indipendenti, ottimizzate separatamente, e alcune regolarità della crescita relativa delle parti
non sempre sono sotto controllo adattativo immediato. Esistono in letteratura esempi cogenti di
selezioni che alterano i tempi di maturazione senza che la selezione operi direttamente e in maniera
specifica su questi ultimi, come i molti casi di pedomorfismo o progenesi4. Per esempio
nell’evoluzione degli artropodi osserviamo che
«le femmine si riproducono da larve e crescono la futura generazione nei loro stessi corpi. I figli divorano le
loro madri dall’interno ed emergono dai loro corpi svuotati solo per essere divorati pochi giorni dopo dalla
loro progenie. Sarebbe folle cercare un significato adattativo nella morfologia pedomorfica di per sé; è
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La pedomorfosi è un processo evolutivo che consiste nella conservazione, in individui adulti, di forme infantili
caratteristiche degli stadi giovanili (Gould, 1993); questa è un particolare caso di eterocronia, cioè la variazione dei
tempi di sviluppo di una specie. La progenesi è un caso di eterocronia dove si verifica un’accelerazione dello sviluppo
individuale con una drastica riduzione dello stadio larvale, e si presenta spesso connessa al fenomeno della pedomorfosi.