4
Premessa
Questo lavoro si propone di raccontare, attraverso le voci
dei protagonisti, di coloro che, in prima persona, hanno calcato
le scene, hanno vissuto quei primi fondamentali anni che hanno
portato alla fondazione, nel 1933, di quella che, da lì a poco,
sarebbe diventata una delle case editrici più importanti e di
riferimento nello scenario italiano, la Casa Editrice Einaudi. Una
casa editrice che più di molte altre continua a catalizzare su di sé
fascino ed interesse. Perché le stanze delle sue redazioni sono
state percorse dai passi di uomini simbolo della cultura italiana,
fin dalle origini. Uomini d‟altri tempi, si direbbe adesso. Eppure
la straordinarietà della sua storia è da ritrovare nella
concentrazione qualitativa di questi uomini colti, letterati
appassionati, riuniti nel nome di Giulio Einaudi che, in quel
momento, era colui che, tra tutti del gruppo degli ex allievi del
Liceo Classico “Massimo D‟Azeglio”, godeva di una migliore
disponibilità economica, grazie anche al padre Luigi, e di una
sua fondamentale copertura politica, ancora in merito del
genitore.
La Einaudi si distingue nel magma dell‟editoria italiana
ancora oggi perché, fin dalle sue origini, è stata in grado di
accogliere, di attrarre, di stimolare la partecipazione di «molti
geni della letteratura e delle scienze umane»
1
e, grazie ad essi, di
produrre una quantità ragguardevole di opere fortemente
accomunate nella loro identità editoriale. Una casa editrice
semplicemente seria ed austera che conferisce, quasi
trasferendole, queste stesse qualità ad ogni suo libro,
appartenente a qualsivoglia collana o collezione. Un viaggio
affascinante che cerca di far rivivere la vicenda della Einaudi,
quella dei primi anni in particolare, attraverso le persone, non
tanto tramite i fatti specificamente ripercorsi in un qualche
1
Libri e scrittori di via Biancamano, Casi editoriali in 75 anni di Einaudi, a cura di Roberto Cicala e Velania La Mendola,
Milano, EDUCatt, 2009, presentazione p. VII.
5
ordine cronologico o per mezzo di un‟analisi delle loro opere, di
cui tante pagine di critica e resoconti è satura la letteratura,
quanto, appunto, la natura, magari quella più intima e nascosta,
dei personaggi che, con le loro idee, straordinarie ed innovative,
hanno dato vita, e lo si percepisce tra le righe delle loro
corrispondenze, così come dagli scritti più famosi, ad un
qualcosa che è più di una casa editrice. Hanno dato vita ad
un‟era, ad una cultura del fare cultura attraverso i libri.
Non è qui intenzione di compiere una rassegna completa
delle opere einaudiane, considerata la vastità delle collane, la
ricchezza delle riviste e la moltitudine dei volumi e dei titoli
prodotti nella casa editrice, a volte esse possono essere
solamente in parte citate, altre, invece, saranno, purtroppo,
omesse. Questo vuole essere solo un modo, umile e diverso, si
spera, inquadrato da un punto di vista differente, di leggere i
sentimenti di coloro che, facendone il lavoro di una vita, si sono
dedicati alla creazione dei libri Einaudi, dall‟idea alla
promozione.
Questo poiché gli occhi narranti che si è deciso di far
emergere in questo viaggio, come guida di questo avvincente e
coinvolgente percorso, sono stati quelli di alcune donne le cui
vite, i cui lavori e scritti si sono intrecciati con il progetto di
Giulio Einaudi contribuendo, ognuna a suo modo, ognuna con le
proprie capacità, ognuna col proprio entusiasmo, ognuna per ciò
che le è stato possibile, a renderla una casa editrice più aperta e
“democratica”.
Donne nel segno della “dittatura” pavesiana, principalmente
donne come Natalia Ginzburg, Fernanda Pivano, e Ludovica
Nagel, ma anche come Bianca Garufi, Tina Pizzardo e Lalla
Romano, ognuna di esse è stata capace di segnare, di
caratterizzare, di lasciare un‟impronta nella via Biancamano. Ed
è tutto ciò particolarmente importante negli anni in cui il peso
del valore delle donne spostava di ben poco l‟ago di una bilancia
sociale ancora arretrata; esse, lo si ricorda, non avevano ancora
6
diritto di voto, acquisito, si sa, con le elezioni del dopoguerra del
1946, e l‟accesso alle cariche di responsabilità era ancora un
miraggio. Pensare, dunque, ad una Casa Editrice che nelle donne
credeva e che le faceva lavorare, valorizzandole e
semplicemente non considerarle diverse solo perché donne, è
già, di per se, qualcosa di straordinario. La grande
considerazione, di donne lavoratrici ed operatrici del settore, sia
dal lato back end che da quello front end, ottenuta da parte
dell‟editore nel corso degli anni, assume quindi una valenza
politica, perché implica il riconoscimento di una qualità
“femminile” di lavorare. Questa consapevolezza maturò anche
nell‟esperienza di “scrittore” di Natalia Ginzburg che, all‟inizio
della sua carriera, sentiva il peso di essere donna nel momento
in cui svolgeva il suo mestiere:
… allora desideravo terribilmente di scrivere come un uomo, avevo
orrore che si capisse che ero una donna dalle cose che scrivevo. Facevo quasi
sempre personaggi uomini, perché fossero il più possibile lontani e distaccati
da me. (…) Adesso non desideravo più tanto di scrivere come un uomo,
perché avevo avuto i bambini, e mi pareva di sapere tante cose riguardo il
sugo di pomodoro e anche se non le mettevo nel racconto pure serviva al mio
mestiere che io le sapessi: in un modo misterioso e remoto anche questo
serviva al mio mestiere
2
.
Dunque, la Ginzburg non poté fare a meno di tenere
separate la sua natura femminile dalla produzione letteraria, così
come dal riconoscersi essere una protagonista, donna, della
scrittura.
Ma adesso non m‟importa più di scrivere come un uomo. Non si può
scrivere come non si è. Sono una donna e in qualche modo scrivo da donna.
Partendo dalle proprie esperienze personali, femminili o maschili, si
2
Natalia Ginzburg, Le piccole virtù, Torino, Einaudi, 1998, pp. 74, 77.
7
dovrebbe giungere a un tipo di scrittura che non risenta del sesso dell‟autore,
in cui possano riconoscersi non uomini o donne, ma persone
3
.
Una volta vissuto sulla propria pelle il disagio di essere uno
scrittore, ma di essere anche, inevitabilmente e fisiologicamente,
una donna, Natalia denuncia questa distanza, forzata, imposta e
mortificante, tra l‟essere scrittore uomo e donna. Una differenza,
una distinzione che non dovrebbe sussistere, perché illogica e
senza senso: «Quando vedo «le donne scrittrici» mi sento
raggricciare, perché penso che non esistano le donne scrittrici»
4
.
Un senso e, anzi, un valore aggiunto, potrebbe essere,
invece, quello del rapporto che si viene a creare tra scrittrici,
come afferma l‟autrice americana Erica Jong riferendosi al
legame che si era ben presto venuto a creare con l‟italiana
Fernanda Pivano:
Sembrava già sapere che le scrittrici facevano meglio a collaborare
piuttosto che a farsi la guerra. Capì che avevo bisogno di un mentore e si rese
disponibile per quel ruolo. Credo che l‟attività del mentore rappresenti
l‟essenza del femminismo, e che il benevolo e reciproco aiuto fra le
generazioni sia una delle cose che le femministe agognano di più
5
.
Ed ancora parla delle sue qualità, estremamente positive sia
dal punto di vista fisico, «non è solamente graziosa, ma è anche
attraente, al culmine della sua bellezza e sexy»
6
, una bellezza
dai toni forti che la faceva spiccare tra tutti «gli intellettuali
ingrigiti»
7
, sia intellettuale, e di quanto questo connubio risulti
ancora difficile da concepire, perché «Per una donna del
Ventesimo secolo essere sia attraente che intelligente non era
3
Luciana Marchionne Picchione, Natalia Ginzburg, dal mensile “Il Castoro”, n. 137, diretto da Franco Mollia, Firenze,
1967, p. 22.
4
Natalia Ginzburg, E’ difficile parlare di sé, Torino, Einaudi, 1999, p. 186.
5
Fernanda Pivano, Diari, 1917 – 1973, a cura di Enrico Rotelli con Mariarosa Bricchi, Milano, Classici Bompiani, p. VIII.
6
Ivi, p. IX.
7
Ibidem.
8
per niente facile. E non lo è ancora oggi. È una cosa che mette
gli uomini in agitazione»
8
.
Anche la Pivano si era innamorata di quel mestiere di
traduttrice prima, di scrittrice poi, senza neppure avere la
coscienza di ciò che stava facendo; volle seguire una strada, una
voce, una vocazione, coinvolta e catturata, lei, da quelle parole
traboccanti di poesia, di enfasi e di passione quali che erano
quelle dei poeti e degli scrittori americani che Pavese le aveva
fatto conoscere.
Lalla Romano, poetessa e scrittrice, anche lei passata negli
uffici di via Biancamano, Pavese, infatti, le aveva
commissionato la traduzione di “Trois Contes” di Gustave
Flaubert, uscito poi nelle edizioni Universali Einaudi nel 1944,
dopo essersi vista rifiutare nel 1941, la pubblicazione delle sue
poesie, avvenuta poi grazie a Frassinelli, ebbe il coraggio di
prendersi una rivincita, sfidando quell‟editore con carattere
determinato, inviandogli una copia fresca di stampa con una
dedica pungente: « a chi non ha voluto stampare questo libro».
Una identità di donna, scrittrice, che pretende di essere
rispettata, o per lo meno, ascoltata perché se «scrivere vuol dire,
comunque, scrivere di se, in modo più o meno dichiarato», come
grossomodo affermò lei stessa, ciò vuol dire che non si può
impedire ad una donna di scrivere di sé, o obbligarla a celarsi
sotto altre vesti o altri nomi per poter dare voce ai suoi pensieri.
Un percorso nella storia dell‟Italia culturale dagli anni
Trenta, da quei già difficili anni per la libera manifestazione del
pensiero, per la libera circolazione delle idee. In quegli stessi
anni, la tenacia, la passione, la resistenza di alcuni giovani
fecero si che il sogno di una casa editrice Einaudi si portasse a
compimento. Una storia fatta di lettere, di idee, di pensieri, «di
un clima d‟amicizia, di solidarietà e di armonia di lavoro», come
ricorda la Ginzburg
9
.
8
Ibidem.
9
Ivi, p. 99.
9
Le anime della Casa Editrice Einaudi
L’humus culturale di Giulio
Quando nel 1933 Giulio Einaudi, insieme ai suoi compagni,
studenti, come lui, del prestigioso Liceo Classico “Massimo
D‟Azeglio” di Torino, che rispondevano al nome di Cesare
Pavese, Leone Ginzburg, Massimo Mila e Norberto Bobbio, tra
le migliori menti intellettuali del Novecento, fondò la Casa
Editrice Einaudi, egli possedeva già, a 21 anni di età,
quell‟euforia e quell‟entusiasmo, comune a molti giovani del
tempo, di scrivere e fare propaganda, come testimoniano le
parole di ricordi dello stesso Einaudi:
Mi ero improvvisato amministratore della rivista paterna “La Riforma
Sociale” fondata da Francesco Saverio Nitti sul finire del secolo scorso, e mi
ero ficcato in testa che la rivista, centro di analisi economica, poteva essere
potenziata. (…) Ma su quella storica Olivetti, oltre alle lettere per sollecitare
collaborazioni e colloquiare coi lettori, copiavo e distribuivo manifestini di
propaganda di “Giustizia e Libertà”, il movimento clandestino che faceva
capo, a Parigi, a Carlo Rosselli
10
.
Giulio Einaudi
L‟ostracismo fascista costrinse la cultura a muoversi in un
ambiente alieno ed ostile; tuttavia, al settore editoriale, poiché si
10
Giulio Einaudi, Frammenti di memoria, Milano, Rizzoli, 1988, p. 9.
10
rivolgeva ad un pubblico più ristretto, dunque rappresentava un
pericolo minore per il controllo del regime, il fascismo lasciò un
maggior grado di autonomia. Gli intellettuali avevano assunto
un nuovo ruolo anche all‟interno del mondo editoriale, tanto che
il nuovo editore non era più sufficiente che fosse un semplice
tipografo o libraio, bensì era propenso ed auspicabile, per lo
stesso, che fosse anche un intellettuale, allo stesso tempo in
grado di muoversi e di padroneggiare il mondo economico sia
quello politico.
Nonostante Giulio fosse il più giovane dei suoi compagni
d‟avventura, il suo ruolo fu decisivo; tutti avevano ad ogni modo
da poco superato i venti anni di età ed avevano avuto, tra gli
altri, come docente al “Massimo D‟Azeglio”, il professor
Augusto Monti, che aveva insegnato loro l‟italiano ed il latino,
ma soprattutto aveva instillato in loro la passione con la quale
faceva rivivere i classici, originando legami tra gli studenti, e
talvolta anche con gli insegnanti, destinati a durare al di fuori
dell‟ambiente scolastico, tant‟è che il sabato pomeriggio gli
allievi e gli ex-allievi di Monti si trovavano con il “Profe” in un
caffè di via Rattazzi per discutere di letteratura, filosofia e
cinema, continuando quella vita di cultura che era stata avviata
al Liceo, della scoperta dei testi che segnano una vita, magari
attraverso la frequentazione della biblioteca scolastica, di cui era
bibliotecario il Professor Monti stesso, del rifiuto di cedere al
conformismo del regime.
Il professor Augusto Monti
11
Tutte queste atmosfere, la ricostruzione del clima di quegli
anni in cui il Liceo “d‟Azeglio”, grazie all‟incontro di studenti e
di docenti, era divenuto una fucina di cultura, di politica in senso
alto e di naturale antifascismo, sono conservate nel testo di
memorie dello stesso Monti, “I miei conti con la scuola”:
Fu bene una fucina di antifascisti il “Massimo D‟Azeglio” in quegli
anni, ma non per colpa o per merito di questo e quell‟Insegnante, ma così, per
effetto dell‟aria, del suolo, dell‟ “ambiente” torinese e piemontese. Quel
Liceo era come una di quelle case in cui “ci si sente”; dove i successivi
inquilini sono visitati nel sonno – e anche da desti – dagli spiriti, dalle
anime
11
.
Giovani, dunque, cresciuti ed educati, scolasticamente, ma
anche storicamente e territorialmente, al senso di responsabilità
civile e che avevano trovato il modo di affermarlo e divulgarlo
proprio tramite la Casa Editrice che per essi rappresentava, più
che un lavoro, una vocazione culturale, una missione di vita da
compiere per offrire alla giovane cultura torinese uno strumento
di espressione, per nutrire altri animi di intellettuali, e non, di
quella fondamentale libertà di pensiero che poteva avvenire
anche attraverso i libri.
Un padre dal nome Luigi Einaudi
D‟altronde Giulio aveva respirato fin da piccolo, in
famiglia, l‟aura intellettuale, legata anche ad una cultura libraria.
Suo padre, il futuro secondo Presidente della Repubblica
Italiana, Luigi Einaudi, grande economista, a quel tempo
professore presso l‟Università di Torino, soleva arricchire la sua
già opulenta biblioteca di volumi acquistati nelle botteghe di
librai antiquari.
11
Augusto Monti, I miei conti con la scuola, cronaca scolastica italiana del secolo XX, Torino, Einaudi, 1966.
12
Luigi Einaudi
Ricordando l‟estasi, l‟ebbrezza olfattiva provocata dalla
carta fresca di stampa di un libro ricevuto tramite pacco postale,
ritirato personalmente dal piccolo Giulio, e cerimoniosamente
aperto insieme al padre, racconta ancora riferendosi ad esso:
Alla sera, per anni, si dedicò al restauro delle legature dei libri e in
questo lavoro spesso lo aiutavo. Aveva individuato colle speciali, speciali
vernici che, senza deteriorare le pelli più preziose, ne esaltavano le
caratteristiche originali
12
.
Un approccio fisico e sensoriale con il libro e dal piacere
che da esso ne scaturiva fece germogliare un interesse
straordinario nel piccolo Giulio nei confronti del Libro, scritto, a
ragione, con la lettera maiuscola. Egli desiderava ardentemente
leggere in prima persona opere, anche in lingua originale, e
capire, sempre autonomamente, ciò che il libro aveva da dire.
Non aveva alcun senso farselo raccontare da altri o spiegare o
leggere; il libro doveva essere vissuto. E questo aver imparato a
leggere come se il libro fosse cosa viva e non come sterile
esercizio scolastico, fu cosa fondamentale per Giulio nel suo
mestiere e, nello specifico, nell‟arte, intesa come di
scegliere i libri Fu ancora una volta Augusto Monti ad
insegnargli a leggere come si doveva, «il maestro immagine
12
G. Einaudi, Frammenti di memoria, cit., p. 21.