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Introduzione
Questo lavoro nasce dall’esigenza di rintracciare le origini della concezione
secondo la quale la sfera economica si costituisce come autonoma rispetto alla
giurisdizione morale. Per questo motivo si è individuato come fulcro della
dissertazione l’opera di B. Mandeville. Nella storia del pensiero filosofico
occidentale, questi è unanimemente riconosciuto come colui che per primo ha
teorizzato la necessità della separazione tra ambito economico e morale. L’autore
della Favola delle api – resa celebre dal motto che ne costituisce il sottotitolo, Vizi
privati pubblici benefici – offre la diagnosi delle contraddizioni interne alla
nascente società borghese e concorrenziale.
Il sentirsi in accordo con i dettami morali e, al contempo, godere dell’agio
e del benessere costituiscono, per l’autore, due aneliti umani inconciliabili. La
scelta dell’uno o dell’altro assume la forma di una risposta al seguente dilemma:
‹‹la felicità nazionale richiede un costo in termini di integrità morale, si deve
allora vedere se tale felicità valga il prezzo che occorre pagare per ottenerla››
1
. La
presa di posizione mandevilliana in proposito non è stata ancora suscettibile di
interpretazione univoca e conclusiva: i suoi interpreti si sono sin dall’inizio divisi
tra coloro i quali vedevano nell’opera dell’autore una sincera apologia della
nascente economia capitalistica, e chi ne vedeva, invece, una denuncia ironica
quanto spietata
2
. Senza la protervia di dipanare il ‹‹paradosso Mandeville››
3
, o
comunque ridurre l’autore a una di queste due interpretazioni, si è optato per un
ritratto il più fedele possibile alla lettera dell’autore. Si è cercato di riportare le
riflessioni al punto di vista che le ha espresse, illuminando le basi sulle quali si
regge l’edificio teorico del quale l’abrogazione della morale costituisce la punta
dell’iceberg. Allo stesso modo, si è cercato di allargare la visuale alle altre
considerazioni, di tipo non prettamente economico, elaborate in maniera diffusa e
1
B. Mandeville, Dialoghi tra Cleomene e Orazio, Milella, Lecce 1978, p. 71.
2
Cfr. M. Simonazzi, Le favole della filosofia. Saggio su Bernard Mandeville, Franco Angeli,
Milano 2008, pp. 19-31.
3
M. Goretti, Il paradosso Mandeville, Le Monnier, Firenze 1959, p. 6.
2
disorganica dall’autore, ai fini di fornire un quadro più ampio all’interno del quale
collocare e interpretare il motto ‹‹vizi privati, pubblici benefici››.
Tra i numerosi interpreti di Mandeville, si sono poi scelti due autori, coevi
tra loro ma distanti per formazione: il premio Nobel per l’economia Friedrich
August von Hayek e l’antropologo francese Louis Dumont, allievo di Marcel
Mauss. Essi rappresentano due momenti importanti della storiografia
mandevilliana del Novecento
4
.
Hayek vede nell’autore della Favola colui che per primo – partendo dallo
iato rilevabile tra intenzione e conseguenza di un’azione – ha teorizzato
l’esistenza di un ordine creato indipendentemente dalla volontà dei singoli. A
questo tipo di intuizione corrispondono due paradigmi che, secondo Hayek,
rivestirono un’importanza capitale nel successivo sviluppo del pensiero: quelli di
‹‹evoluzione›› e ‹‹ordine spontaneo››. Secondo l’interpretazione di Hayek il
debito nei confronti di Mandeville da parte non solo degli esponenti
dell’individualismo metodologico ma anche delle scienze sociali è notevole: le
sue brillanti intuizioni hanno una base solida, ed è preoccupazione
dell’economista dimostrarne la validità in maniera rigorosa, rilevandone
l’imprescindibilità per una comprensione adeguata del mercato e della società.
Di parere del tutto opposto è invece Dumont: l’armonizzarsi spontaneo
degli interessi, è solo un ideologema economico. L’autore di Homo aequalis
individua nel discorso mandevilliano una serie di contraddizioni che sottendono a
un’operazione ideologica ingiustificata. Ciò non inficia la valutazione circa
l’importanza che Mandeville ha avuto nella storia del pensiero: egli ha compiuto il
passo decisivo che, separando l’economico dal morale, ha eliminato l’ultimo
ostacolo al costituirsi del primo come sfera autonoma. Agli occhi di Dumont,
però, tale autonomia finisce col diventare onnipresenza: l’economia permea infatti
ogni aspetto della vita sociale. Egli vede così in Mandeville il pioniere del
paradigma dell’homo oeconomicus e del tipo di società che gli è propria. In essa i
rapporti tra cose divengono primari e quelli tra uomini secondari; ne risulta quindi
una società degradata.
4
Cfr. M. Simonazzi, Le favole della filosofia, cit., p. 25.
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La dissertazione si articola in tre capitoli ciascuno dedicato a uno degli
autori. Il primo capitolo si apre sulla concezione che Mandeville ha della natura
umana: essa appare caratterizzata dall’impotenza della ragione dinanzi al dominio
delle passioni. Tra queste l’amore di sé, spingendoci a desiderare stima e
approvazione altrui, svolge un ruolo decisivo per la nascita della società. Pur di
soddisfare questo suo impulso l’uomo è, infatti, disposto a mascherare la potenza
di tale passione mediante eleganti escamotages, quali l’uso delle buone maniere e
l’adozione di un codice morale condiviso. Per svelare questo processo, reso
inconsapevole dall’abitudine e dal suo lento maturare, Mandeville non vede altra
possibilità che quella dello sguardo economico. Osservare gli uomini alle prese
con gli scambi commerciali ne rivela la vera natura di esseri egoisti, interessati
solo all’utile personale. La schizofrenia tra ciò che gli individui dicono di fare e
ciò che fanno, tra ciò che ritengono essere bene e ciò che si rivela esser tale in
base ai loro comportamenti, è individuata come tratto di fondo della natura
umana. Per porre argine a questa tendenza occorre una presa di coscienza,
dolorosa ma definitiva, che sancisca la separazione della sfera morale – con i suoi
valori di lealtà, onore, onestà – da quella economica contraddistinta dalla ricerca
del guadagno e dell’interesse individuale. D’altronde, dimostra Mandeville, quelle
azioni moralmente deprecabili si rivelano utili per la società: vizi privati dunque,
pubblici benefici.
La lettura di altre opere dell’autore, permette di allargare la visuale ed
estendere il motto ad altri ambiti del suo pensiero: esso diviene una concezione
generale, che vede comunque germogliare il bene del tutto dal male particolare,
morale o naturale che sia. L’ultimo dei paragrafi di cui si compone il capitolo è
dedicato alla vicenda editoriale della Favola delle api, alla condanna dei
contemporanei e alla difesa che lo stesso Mandeville fece del libro, ribadendo
convinzioni, intenti e fornendo un sostrato teorico più solido. A quest’ordine di
considerazioni è ascrivibile la giustificazione che Mandeville effettua dell’assetto
socio-economico. Esso è ritenuto immutabile, perché frutto di una saggezza
stratificata nell’arco di secoli per prove ed errori, necessaria configurazione di uno
sviluppo continuo. Il progredire della civiltà va, infatti, di pari passo coll’aumento
dei bisogni; questi non possono essere soddisfatti se non per mezzo di una massa
4
povera di lavoratori. Inutili sono quindi gli interventi in favore delle classi
indigenti, anzi dannosi in quanto ostacolo alla prosperità della nazione.
Il secondo capitolo è dedicato all’interpretazione di Mandeville fornita da
F.A von Hayek. Si è cercato innanzitutto di sottolineare quale sia per l’autore la
portata originale della speculazione mandevilliana. L’apporto in questione è
individuato nell’intuizione che possa esistere un ordine sociale di carattere
spontaneo che non sia cioè frutto di un’azione umana volontaria né dato per
natura. Secondo Hayek, questa possibilità apre la strada a due paradigmi
fondamentali per la successiva storia delle idee: quello di ‹‹evoluzione›› e quello
di ‹‹ordine spontaneo››. L’idea che la società e le sue istituzioni siano il risultato
inintenzionale dell’azione degli uomini viene fatta propria da Hayek, che ne vede
il campo di applicazione più seducente in ambito economico. Il libero mercato
assurge così a luogo in cui non solo è auspicabile ma, anzi, è necessario che gli
uomini non conoscano le conseguenze delle proprie azioni e, quindi, collaborino
senza saperlo né volerlo alla realizzazione di fini altrui. Hayek dimostra poi di
aver ben presente un’altra lezione mandevilliana: quella circa l’inesistenza delle
implicazioni morali in quello che – come egli stesso definisce il mercato – è poco
più che un gioco nel quale ‹‹sarebbe assurdo chiedersi se i diversi risultati per i
diversi giocatori siano giusti››
5
. L’ultimo paragrafo del capitolo è infine dedicato
alla distinzione che Hayek pone in atto tra ‹‹falso›› individualismo e ‹‹vero››
individualismo. Il primo è caratterizzato da un’eccessiva fiducia nelle capacità di
preveggenza umane: i suoi sostenitori ritengono l’uomo autore consapevole di
ogni istituzione umana; escludono quindi la possibilità che possa esistere un
ordine non deliberatamente pianificato. Per il secondo, invece, le istituzioni su cui
si basano le conquiste umane nascono dagli effetti combinati e imprevisti delle
azioni individuali. I sostenitori di questa teoria, considerano l’uomo come un
essere prettamente irrazionale e assolutamente fallibile: Mandeville docet.
Nell’esistenza di conseguenze inintenzionali di azioni intenzionali si radica la
condizione di possibilità stessa delle scienze sociali che altrimenti, secondo
Hayek, non avrebbero un oggetto di studio proprio.
5
F.A. von Hayek, Legge, legislazione e libertà, Il saggiatore, Milano 1986, p. 273.
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Il terzo capitolo è dedicato alla lettura che, in Homo aequalis, Dumont ci
offre di Mandeville. Si sono individuate tre problematiche fondamentali che
sembrano caratterizzare per Dumont il ragionamento mandevilliano: ciascuno dei
paragrafi di cui si compone il capitolo è dedicato all’analisi di una di esse. Si
prende in considerazione la disamina della teoria morale: qui convivono elementi
di rigorismo ed empirismo. In accordo con il primo vengono definiti ex ante gli
ideali di virtù e vizio ai quali l’azione deve conformarsi – nelle intenzioni – per
essere morale; in linea con il secondo è il beneficio pubblico – ovvero una
conseguenza dell’azione – a essere elevato surrettiziamente a norma in base alla
quale giudicare la morale tradizionale per dimostrarne l’inadeguatezza. Questo
slittamento, che vede il passaggio in primo piano di un criterio economico e
immanente rispetto a uno morale e trascendente, è il presupposto, secondo
Dumont, del ribaltamento di primato che sino allora vigeva nella società: i
rapporti tra uomini divengono secondari rispetto a quelli tra uomini e cose. Si
assiste alla nascita della società degradata nella quale ‹‹l’economia è la misura di
tutte le cose››. A essa è riconosciuto un valore intrinsecamente morale, in quanto
realizza il bene pubblico guidando il comportamento dell’homo oeconomicus.
Questo, per Dumont, è un altro paradigma fondante il moderno che emerge della
concezione mandevilliana. Si giunge così a un punto problematico: cosa assicura
il carattere morale dell’economia? Questo appare ancorato, nel ragionamento di
Mandeville, al meccanismo della formazione spontanea dell’ordine, che assurge
dunque, nella sua intrinseca bontà, a garante dell’intero discorso mandevilliano.
Agli occhi di Dumont quella di Mandeville assume così le tonalità di
un’operazione ideologica, razionalmente ingiustificabile, tassello decisivo per la
formazione dell’individualismo moderno.