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La Costituzione italiana stessa considera la pena come elemento
non eliminabile del nostro sistema giuridico.
L’articolo 25 annunciando il principio di legalità, riflette il
concetto di “punizione” e l’articolo 27, nell’affermare che “la
responsabilità penale è personale”, muove dal presupposto di una
correlazione tra responsabilità e pena. Lo stesso articolo al secondo
comma, attribuendo alla pena una finalità rieducativa ne accetta la
categoria logica.
Negare legittimità alla pena significherebbe misconoscere la
fondatezza di un diritto penale qualsiasi, di un qualsiasi
ordinamento giuridico. Questa teoria è stata sostenuta dal Bricola
2
,
il quale, riferendosi soprattutto alla criminalità mafiosa, ha
elaborato una strategia preventiva auspicando un sistema a cui è
estranea ogni logica custodialistica e afflittiva, in cui la prevenzione
non dovrebbe essere mirata ad impedire il crimine, ma ad eliminare
le cause del reato “alla base”, soddisfacendo le istanze sociali dei
singoli nella prospettiva del secondo comma dell’articolo 3 della
Costituzione (eguaglianza sostanziale!). Purtroppo tutto questo
rappresenta solamente una utopia.
E’ in quest’ottica che deve essere considerato l’oggetto di questa
trattazione, non come misure alternative alla “pena”, ma come
misure che si pongono come alternativa alla “pena detentiva” che
comunque ha rappresentato un traguardo nella evoluzione delle
sanzioni criminali (era vista come misura clemenziale in un’epoca
2
MAZZA, GUERRINI, Le misure di prevenzione, Padova, 1990
11
in cui primeggiavano nel sistema punitivo sanzioni disumane quali
mutilazioni, deportazioni, morte) e che deve rimanere in vigore ai
fini della difesa sociale, come deterrente più efficace, oppure,
meglio, come parte di un continuum riabilitativo che fa del carcere
un luogo di osservazione, di verifica, e già di intervento nella
prospettiva di un più specifico trattamento all’esterno.
Nell’affermare questo però non bisogna dimenticare che a detta
anche del Foucault, l’idea del carcere (in una prospettiva di
risocializzazione del reo) è nata insieme all’idea della sua stessa
riforma, e da allora incessantemente queste due idee si inseguono.
Sin dalla costruzione del primo penitenziario c’è sempre stato un
divario tra scopi dichiarati ed effetti, tra ciò che si sarebbe voluto
fare e quello che in concreto si otteneva. Questo è stato rilevato sia
da parte dei “reazionari”, per i quali la prigione non deve rieducare,
sia da parte degli “abolizionisti”, per i quali essa non solo non
rieduca, ma è dannosa (la prospettiva di un carcere migliore è solo
una consolazione a fronte di quello che sarebbe una sua totale
abolizione
3
), sia infine da parte dei “riformisti”, per i quali la
prigione deve rieducare e se non può, deve essere messa in grado di
farlo.
In sostanza, seppure bella è l’idea di un carcere organizzato in
modo da risocializzare il soggetto, occorre ricordare che la pena
detentiva risponde allo schema comando-responsabilità-castigo,
mentre l’unico tipo possibile di trattamento che si può “tentare” è
3
Così N. AMATO, Diritto, Delitto, Carcere, Milano, 1987
12
quello effettuato tramite le misure alternative, peraltro così
chiamate proprio perché “alternative” ad un tipo di punizione, che
necessariamente insegue finalità differenti rispetto al castigo”. La
reazione sanzionatoria deve «modellarsi in varie forme e risultare
quindi uno strumento più duttile in vista di una funzione sociale
complessa che – per dettato costituzionale – è chiamata a
svolgere»
4
Vista la posizione comunque centrale che la pena detentiva
mantiene anche in una prospettiva de iure condendo, mi è sembrato
interessante fare una ricerca, naturalmente limitata per non perdere
di vista l’obiettivo della trattazione, sulla evoluzione nelle varie
civiltà delle forme di reazione del “potere centrale” alle violazioni
della legge. Una analisi cioè del cammino che ha portato dalle pene
“inumane” alla pena detentiva e da questa alla pena alternativa alla
detenzione, lungo un tracciato segnato da ostacoli, ripensamenti,
superstizioni, ma dritto verso la via della umanizzazione e
individualizzazione della sanzione criminale, in un interesse
crescente per “l’uomo”.
Accettata alla base la pena detentiva e appurato qual è il ruolo da
attribuire al carcere nel nostro sistema penale, si potrà passare a
parlare della necessità o meno di attuare, accanto alla prevenzione
generale, anche quella speciale, facendo molta attenzione a non
confondere i due tipi di reazione, il che tramuterebbe «il diritto di
prevenzione in un diritto punitivo del sospetto ed allontan[erebbe] il
4
F. .RAMACCI, Istituzioni di diritto penale, Torino, 1992
13
diritto penale dalla considerazione del “fatto” di reato, rinnegando,
così, la cultura della legalità».
5
La prevenzione speciale è attuata sulla base della pericolosità del
soggetto tramite l’applicazione delle misure di sicurezza (nella
logica del doppio binario) ai rei imputabili o semi-imputabili di
reati o quasi reati (articoli n° 49 e 115 del codice penale) e delle
misure di prevenzione la cui applicazione è favorita da un regime
processuale meno rigido per quanto riguarda la prova dei reati
presupposti (per questo la loro legittimità è molto discussa).
Ma per prevenzione speciale si può intendere anche quella
riguardante la riduzione della recidiva, rivolta al condannato in fase
di recupero e rieducazione. Volendo concentrare l’attenzione su
questo tema, vengono in evidenza proprio le misure alternative alla
detenzione.
Per approfondire l’argomento ho pensato di prendere in
considerazione l’efficacia o meno della pena detentiva soprattutto
in relazione a casi umani particolari quale è sicuramente quello del
tossicodipendente. La seconda parte di questa trattazione è infatti
incentrata su questa figura e sugli istituti alternativi alla pena che la
riguardano sia dal punto di vista dei principi che da quello
dell’applicazione pratica.
Naturalmente, ed è importante sottolinearlo in un lavoro del
genere, è fondamentale affrontare la situazione dalla giusta
prospettiva e non cadere in facili “paternalismi”. Deve essere
5
GUERRINI, MAZZA, op. cit.
14
sempre tenuto presente che si sta parlando sì di uomini, ma
comunque di delinquenti, senza perdere di vista il lato “umano”
dalla situazione, ma nemmeno l’obbligo verso la società per così
dire danneggiata. È inoltre importante non farsi prendere la mano,
cosa che potrebbe risultare facile ad una giovane studentessa come
me, da considerazioni ingenue dettate dall’entusiasmo di migliorare
una situazione nella quale bisogna invece prendere atto di una realtà
caratterizzata da fatiscenza di strutture, carenza di personale,
riottosità alle trasformazioni, innegabili scompensi di sviluppo. In
effetti non è che la situazione non sia migliorabile, ma è necessario
che ogni passo sia fatto con il consapevole apporto di tutte le parti
in causa e con il coinvolgimento di tutti gli aspetti del problema:
strutturali, sociali, politici, ideologici, culturali. Solo quando la
società nel suo insieme ha maturato una soluzione, questa può
essere considerata una vera conquista che diventa parte integrante
del patrimonio culturale della società stessa. Correre dietro ad
illusioni ed utopie di soluzioni miracolistiche può farci
momentaneamente cadere nell’eccesso opposto, per poi essere
riportati bruscamente alla realtà. Questo potrebbe accadere nel caso
dei tossicodipendenti se noi, concentrandoci solo sul problema
sociale del recupero e reinserimento, perdessimo di vista il fatto che
si tratta pur sempre di un problema di reati che a volte attentano alla
sicurezza ed alla tranquillità sociale. Non bisogna fare, cioè, come il
cavallo che, per correre dietro alla carota che non raggiungerà mai,
cammina troppo speditamente senza tenere conto di ostacoli e
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difficoltà. L’importanza di trovare il giusto punto di equilibrio è
comprovata dal fatto che, «la genesi storica delle misure alternative
è il punto di convergenza di due crisi: quella della pena detentiva
classica e quella delle misure clemenziali»
6
, misure queste ultime
che, nelle tre espressioni tradizionali dei provvedimenti di amnistia,
indulto, grazia, delle misure sospensive condizionali (sospensione
condizionale della pena, liberazione condizionale) e delle forme
prescrittive, si sono rivelate di scarso valore non avendo né
componente afflittiva, né finalità emendative. Sempre che non si
voglia attribuire loro addirittura il ruolo di fattori criminogeni.
Non bisogna dimenticare inoltre che si sta parlando di
reinserimento in società. Questo è stato forse il punto (trascurato)
che ha provocato maggiori ostacoli all’attuazione delle varie
riforme dell’ordinamento penitenziario. Opportuna, a mio modesto
avviso, sarebbe a questo proposito sia una predisposizione di
strutture atte ad accogliere il reo liberato in campo lavorativo,
religioso, sociale eccetera, per evitare di farlo ricadere, complice il
bisogno, nella criminalità, sia un cambiamento di ideologia: il
detenuto (o internato) liberato dovrebbe essere considerato una
persona nuova, non la stessa che ha commesso il delitto, bollato per
questo da un marchio d’infamia che ne ostacola enormemente il
reinserimento, con una violazione di fatto degli articoli 2 e 3 della
6
F. MANTOVANI, Pene e misure alternative nel sistema vigente, in Pene e
misure alternative nell’attuale momento storico, Atti del Convegno Milano,
1977
16
Costituzione. Bisogna combattere pericolo di una interpretazione
degli istituti di cui si parla come di fatti meramente burocratici, di
vuoto “indulgenzialismo”, dietro cui vi sia soltanto indifferenza e
abbandono.
In conclusione, grazie ai pareri gentilmente espressi da esperti
della materia (fra i quali particolarmente importante la
testimonianza di Don Gelmini), quelli da me ricercati nei manuali
penalistici ed alle testimonianze di chi ha vissuto personalmente
questo tipo di esperienza, spero di poter arrivare a delle conclusioni
che dimostrino la bontà del principio della individualizzazione e
specificazione della sanzione criminale non soltanto in vista del
condannato come “uomo” ma in vista di una sua maggiore forza
deterrente in relazione a determinati reati.
Proprio a questo proposito è importante ricordare come nel
sistema attuale, i soggetti detentori del potere economico che
realizzano fatti lesivi di interessi collettivi, riescono a sfuggire alla
pena detentiva tramite processi di “immunizzazione”, oppure
tramite la traduzione in termini monetari della stessa. Si parla
significativamente di “monetizzazione” della responsabilità penale
per rappresentare una realtà che purtroppo è molto diffusa e non
solo in Italia. In Germania per esempio il meccanismo di
determinazione della pena pecuniaria previsto dall’articolo 47 2°
comma della legge di riforma del codice penale tedesco, dovrebbe
essere rivisto o tramite l’inserimento, tra i fattori da tenere in
considerazione, delle condizioni economiche del reo, con
17
conseguente previsione della possibilità di un pagamento
frazionato, o tramite l’adozione del sistema dei “tassi giornalieri”
oppure quello della “Lutzat geldstrafe”, comportante una
limitazione dello standard di vita del soggetto.
Tale fenomeno, tornando a noi, va contrastato soprattutto
creando un sistema punitivo basato su misure sanzionatorie
adeguate alla natura peculiare dei destinatari. Interessante a questo
proposito sarebbe una trasformazione delle pene accessorie in
principali per una sanzione più specifica e mirata in relazione a
determinate categorie di reati, facendo attenzione al fatto che una
punizione del genere potrebbe significare un vero danno per quei
soggetti per cui l’attività (se pure illegale) che si colpisce,
costituisce l’unica fonte di reddito, mentre per altri si tradurrebbe in
pratica in un condono.
Non bisogna però dimenticare che fondamentale è evitare che la
corsa alle misure alternative, in questo periodo di grande “fuga”
dalla pena detentiva (che non deve essere soltanto un processo per
cui, vista l’impossibilità di riforma del carcere si punta alla sua
soppressione), si traduca in una violazione della “eguaglianza
sostanziale” ex articolo 3 della Costituzione. Occorre cioè evitare
che soggetti che, al contrario di altri che non hanno beni diversi
dalla libertà personale da offrire al “rito sacrificale” della sanzione
penale, possano fruire con maggiore e forse troppa facilità, delle
sanzioni “privilegiate”, alternative alla pena detentiva.
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Importante sarà valutare il rischio di un ricorso indiscriminato
alle misure alternative, alla luce di episodi recenti ed eclatanti come
la fuga di Licio Gelli durante gli arresti domiciliari, che fanno
riflettere anche sulla necessità di una calibrazione nella concessione
di tali misure. Il Fassone osserva come le misure alternative siano
ultimamente slittate verso «moduli burocratici senza promozione
umana, verso un lassismo mascherato da trattamento».
Contemporaneamente all’espandersi di tale “fuga” dalla pena
detentiva, da sottolineare è la crescita di importanza di una tendenza
opposta (nella quale si inseriscono le proposte di una sempre
maggiore utilizzazione della carcerazione preventiva), nell’ambito
di un progetto di difesa sociale che fa degli strumenti esecutivi in
veste di pena esemplare e selettiva un punto di forza. Questo
fenomeno è stato spiegato come un bilanciamento alla tendenza
attuale verso una “politica di indulgenza” che si sostituisce alla
motivazione originale e corretta dell’allontanamento dalla pena
detentiva come scelta funzionale ad una politica criminale volta al
reinserimento del soggetto mediante ricorso alle misure alternative.
Sarà interessante vedere come il nuovo codice di procedura
penale abbia fortunatamente adottato la soluzione più razionale di
un uso della carcerazione preventiva come estrema ratio affiancato
da un uso sempre più frequente delle misure alternative che, a
differenza delle manifestazioni di indulgenza che non placano la
rabbia di chi ha subito torti, saziano la “fame” diffusa di giustizia
favorendo allo stesso tempo la risocializzazione dell’individuo.
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Ancora più interessante sarà seguire le linee di sviluppo delle
tendenze più attuali che hanno portato, tra molte polemiche e
discussioni, all’approvazione della legge n.165 del 1998, la
Simeone- Saraceni ed alle discussioni che ne sono seguite.
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PARTE I
LA PENA E LE MISURE ALTERNATIVE
ALLA DETENZIONE
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CAPITOLO II
CENNI STORICI SULLA PENA DETENTIVA
Come dicevo nell’introduzione, mi è sembrato interessante e
necessario ripercorrere (in cenni naturalmente, data la chiara
impossibilità di completezza) la storia di quelle che sono state le
misure di punizione attraverso i secoli e nelle civiltà più importanti,
dopo che tale punizione era stata “obiettivizzata”, passando dalle
mani dei diretti interessati (il titolare del diritto violato) in quelle di
soggetti che, appunto per il loro distacco dalle fattispecie concrete,
seppero trovare dei rimedi non dettati dalla rabbia eccessiva e
dalla voglia di vendetta del soggetto direttamente colpito (anche se
per molto tempo metodi come quello della “faida” vennero
mantenuti proprio dal potere centrale come uno dei metodi di
reazione “legalmente” previsti).
Ciò rappresenta un passaggio importante ai fini di una maggiore
certezza del diritto. Passeranno infatti secoli prima di sentir
solamente parlare dei concetti di “umanizzazione” e
“adeguatezza” della sanzione.
§1 ANTICO EGITTO
a)il periodo babilonese
L’istituto giuridico sumerico, unito a quello egiziano è il più
antico di cui fino ad oggi abbiamo avuto notizia. Purtroppo l’unico
documento “legale” di una certa consistenza che è giunto fino a noi,
22
è il famoso codice di Hammurapi (insieme ad alcuni editti sovrani
detti misharum anche precedenti rispetto al codice che però solo
con esso divennero una istituzione regolare) che in realtà non è un
vero “codice”. Non si sa bene se rappresenti una raccolta di leggi
consuetudinarie o una serie di innovazioni giuridiche o se invece
contenga degli emendamenti di norme già vigenti oppure ancora
una combinazione di tutto questo. Ai fini del mio studio costituisce
comunque sicuramente una valida e preziosa testimonianza su
quelle che erano le reazioni del “potere” ai contravventori di quelle
che al tempo erano le regole di vita in società. Nel testo infatti si
hanno vari esempi di punizioni, più che altro corporali o anche
pecuniarie. Tutto dipendeva dalla condizione sociale. C’era infatti
grande differenza di trattamento tra gli awilum (soggetti di
protezione in quanto dipendenti dello stato o della corona) e gli
mushkenum (nullatenenti quindi non cittadini perciò non protetti
dalle leggi ordinarie). La lex talionis (occhio per occhio, dente per
dente) vigente in quel periodo, valeva infatti o tra pari grado o per
un delitto commesso da un mushkenum ai danni di un awilum
sempre che non si trattasse di cose materiali, perché se così, il
primo doveva pagare con la vita non avendo nient’altro da offrire.
Insomma, funzione esclusivamente retributiva della pena.
b)la civiltà egizia
Gli egizi hanno lasciato scarsissime testimonianze e notizie sui
loro istituti legali, e, fatta eccezione per alcuni sporadici documenti
diretti, ciò che si è potuto argomentare intorno a detti istituti è per la
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maggior parte il frutto di deduzioni scaturite da confronti con altre
civiltà quasi coeve che fiorirono nel comprensorio detto oggi della
“fertile mezzaluna”. Il documento egizio più antico tramandatoci è
il “papiro di Berlino”, che riporta la storia di un processo svoltosi
tra il 2420 e il 2294 a.C. Da questo periodo in avanti si ha notizia di
azioni legali attraverso iscrizioni su tombe o su stele. Sarebbe però
un grave errore considerare il diritto egiziano scarsamente
progredito solo perché non ci sono giunti scritti numerosi. La
motivazione sta nel fatto che il faraone, investito dei privilegi che
gli derivavano dal culto divino, era il solo legislatore con potere di
vita o di morte sui sudditi e con pieno diritto sui beni dei sudditi.
Anche in questo regime la repressione criminale dei delitti era
durissima e con funzione esclusivamente retributiva: si potevano
infliggere fustigazione, condanne ai lavori forzati, deportazione e
persino mutilazione di naso e orecchie, oltre che naturalmente la
morte. Anche qui esisteva una differenziazione di trattamento tra
persone condannate appartenenti a diversi gradi della società. Ad
esempio: ad un condannato alla pena di morte qualora fosse stato di
elevato livello sociale, poteva essere consentito suicidarsi (un
privilegio rispetto alle orribili esecuzioni del tempo!).