INTRODUZIONE
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4
corporazione medievale a forme di monopolio della nuova Europa economica. Da
esigenze di autodifferenziazione qualitativa emerge lo stile individuale in parallelo
con la teoria dei Meistersinger. Baxandall Cerca di ricostruire il period eye basandosi
sulla più ampia cultura visuale del primo sedicesimo secolo in Germania: guarda
all’immaginazione geometrica e ad attività come la calligrafia dei Meistersinger e il
canto dei Modisten. Infine esamina le opere di quattro singoli artisti con le strategie
interpretative proposte precedentemente.
Nel 1985 lo Studioso ha pubblicato Forme dell’intenzione. Sulla spiegazione
storica delle opere d’arte. 4 Il Forth Bridge di Benjamin Baker, il Ritratto di
Kahnweiler di Picasso, La donna che prende il tè di Chardin e il Battesimo di Cristo
di Piero della Francesca sono i quattro esempi scelti da Michael Baxandall da un lato
per interrogarsi sulle motivazioni effettive che hanno spinto un artista a produrre
quella precisa opera d’arte e solo in quel determinato modo, includendovi elementi di
ordine pratico-economico ed elementi personali della sua indole o della sua
formazione artistico-culturale; dall’altro per tentare una sorta di meditazione del
procedimento euristico proprio della critica estetica, notando quanto sia frustrante
spiegare in termini linguistici l’oggetto artistico, che per definizione e natura si
avvale di un sistema di segni del tutto estraneo a quello di cui si avvale il codice
linguistico.
Nel 1994 ha pubblicato, insieme a Sveltana Alpers, una sorta di monografia,
Tiepolo e l’intelligenza figurativa,5 che si propone di definire il più direttamente
possibile la qualità ottica, visuale-percettiva delle immagini attraverso lo studio di un
caso tipico. La scelta ricade su Tiepolo e più precisamente sul Tiepolo maturo degli
anni 1735-55, tralasciando sia la giovinezza, sia gli ultimi anni in Spagna. Tiepolo
viene presentato come un pittore la cui affascinante immediatezza contiene e rivela
un’attenta intelligenza figurativa. Non solo un pittore che si rivela nuovo, moderno,
ma una pittura che si rivela felice e consapevole di sfruttare un patrimonio
conoscitivo di grande respiro.
Ombre e lumi6 (1995), nello scopo e nel tono, si allontana radicalmente dai suoi
scritti precedenti, portando l’attenzione sui problemi di ottica e di psicologia della
percezione visuale. Dopo aver descritto le caratteristiche fisiche e le diverse varietà
di ombre, l’autore ricostruisce il dibattito tra empirismo e innatismo sorto nel
Settecento sul ruolo delle ombre nella percezione della forma. Successivamente,
offre una panoramica dei moderni studi condotti nell’ambito delle teorie cognitive
analizzando le divergenze tra i ricercatori in merito alla misura e ai mezzi con cui le
ombre intervengono nella percezione della forma. Prosegue poi la sua indagine
riferendo un episodio poco noto all’interno della teoria delle ombre: l’osservazione
dei rapporti tra ombre, luce e spazio condotta verso la metà del XVIII secolo da un
gruppo di scienziati e pittori francesi. Infine, Baxandall pone in correlazione gli
universi dell’ombra, affrontando il particolare problema della resa pittorica delle
ombre e studiando un’opera di Chardin, Il giovane disegnatore, in cui l’ombra si
trasforma in mezzo e al tempo stesso in soggetto dell’opera pittorica. L’Appendice è
dedicata al sistema delle ombre di Leonardo da Vinci, che per cinquecento anni ha
esercitato una forte benché non sempre esplicita influenza sulle teorie dell’ombra.
4
MICHAEL BAXANDALL, Patterns of Intention. On the Historical Explanation of Pictures, New Haven & London, Yale
University Press, 1985 (trad. it. Forme dell’intenzione. Sulla spiegazione storica delle opere d’arte, Torino, Einaudi, 2000
[d’ora in avanti Forme dell’intenzione]).
5
SVELTANA ALPERS E MICHAEL BAXANDALL, Tiepolo and the Pictorial Intelligence, London & New Haven, Yale University
Press, 1994 (trad. it. Tiepolo e l’intelligenza figurativa, Torino, Einaudi, 1995 [d’ora in avanti Tiepolo]).
6
MICHAEL BAXANDALL, Shadows and Enlightnment, New Haven & London, Yale University Press, 1995 (trad. it. Ombre e
lumi, Torino, Einaudi, 2003 [d’ora in avanti Ombre e lumi]).
INTRODUZIONE
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5
Words for Pictures. Seven Papers on Renaissance Art and Criticism7 (2003) è una
raccolta di sette saggi, di cui tre inediti e quattro già comparsi in varie sedi tra il 1963
e il 1992, che investigano con esempi e da prospettive diverse le relazioni tra
linguaggio verbale e linguaggio figurativo nel primo secolo del Rinascimento. I
primi sforzi di dare resoconti verbali delle rappresentazioni visive e della loro qualità
fanno luce non solo sull’arte rinascimentale, ma anche sulla critica d’arte in ogni
tempo.
Inoltre, nelle Conclusioni si evidenzia come costante interesse dello Studioso sia
l’analisi dei modi di scrittura riguardo esperienze visuali. In tutti i suoi lavori sono
disseminate affermazioni rivelatrici di quelle che sono le sue convinzioni circa il
linguaggio e i meccanismi di percezione visuale. Si è cercato anche di definire,
seppur in modo approssimativo, la posizione di Baxandall nel complesso panorama
del dibattito metodologico degli ultimi anni in comparazione alle posizioni, più o
meno contemporanee, di altri critici d’arte di indubbia reputazione. Infine, si è
inserito un breve paragrafo che accenna alla ricezione dei lavori di Baxandall in
ambito critico, si tratta più che altro di spunti che aprono su ben più ampie
prospettive, che esulano dagli obiettivi del presente lavoro.
Le ampie ed abbondanti citazioni e l’inserimento dei suoi stessi schemi (riportati
in inglese nell’ultimo capitolo, in fiduciosa attesa di una prossima traduzione), hanno
il deliberato scopo di riprodurre fedelmente la pregnanza delle sue parole. Alcune
citazioni particolarmente significative al fine di tacciare il profilo critico dell’autore
sono inserite nelle Conclusioni, assieme a quelle di studiosi che hanno riflettuto sul
suo lavoro.
7
MICHAEL BAXANDALL, Words for Pictures. Seven Papers on Renaissance Art and Criticism, New Haven & London, Yale
University Press, 2003 (d’ora in avanti Words for Pictures).
1. Giotto e gli umanisti. Gli umanisti osservatori della
pittura in Italia e la scoperta della composizione pittorica
1350-1450
1.1. Opinioni di umanisti e punto di vista umanistico
Il capitolo I discute il latino umanistico – una lingua dove le pressioni formali sono
particolarmente forti - tentando di mostrare quell’insieme di condizioni linguistiche e letterarie
nell’ambito delle quali gli umanisti si trovarono ad operare quando commentavano dei dipinti.15
La critica d’arte umanistica è specialmente interessante come caso linguistico.16
Ciò risulta particolarmente significativo in considerazione del fatto che coloro che
ci parlano dei pittori e delle loro opere tra 1350 e 1450, gli “orators” del titolo inglese,
- come specifica Fabrizio Lollini,17 il curatore della traduzione italiana - sono esperti
di filologia, di retorica, di cronachistica, di letteratura antica, non direttamente
coinvolti nei processi di produzione figurativa, almeno fino all’Alberti, che
costituisce il punto di svolta.
Lo stesso Baxandall evidenzia che quando i primi umanisti necessitavano di un
termine specifico per descriversi in quanto gruppo in genere impiegavano il termine
orator, ma certo non praticavano l’oratoria in senso stretto. Il loro era uno studio
sistematico dell’eleganza stilistica verbale basato sui modelli dei manuali dei retori
classici. Ciò che li accomunava era il particolarissimo ed esigente medium del latino
neo-classico. Le loro migliori energie furono impiegate a rintracciare opportunità
linguistiche che si erano perdute da più di mille anni: nel latino medievale e ancor
più nelle parlate derivate dal latino volgare la maggior parte delle più complesse e
rifinite possibilità lessicali del latino classico non esistevano.
Il ragionamento parte dalla nozione linguistica di “discriminazione obbligata”:
una lingua può offrire delle contrapposizioni e quindi obbligare a scegliere
un’opzione specifica entro una classe di concetti simili ma differenziati, che altre
lingue non hanno. In latino ad esempio si doveva scegliere tra albus e candidus come
due qualità diverse di bianco (opaco e lucente). Il linguaggio classico era cioè
differenziato al suo interno in modo assai più preciso lessicalmente ed elaborato
sintatticamente rispetto alle lingue neoromanze.
E’ importante quanto affermato nel paragrafo intitolato Parole:
da un certo punto di vista, tutti i linguaggi sono sistemi di classificazione dell’esperienza: le loro
parole dividono la nostra esperienza in categorie. Ogni linguaggio compie questa divisione in
modo diverso, e le categorie incarnate nel vocabolario di un linguaggio non possono sempre essere
trasferite in modo univoco in quello di un altro.18
Questo significa che una lingua categorizza alcuni tipi di esperienza in modo
diverso dalle altre e questo determina diverse discriminazioni lessicali, e quindi
concettuali, e diversi gradi per descrivere un’esperienza. Agli umanisti – ma ciò è
sempre valido - l’osservazione veniva imposta in senso linguistico. Baxandall porta
ad esempio due passi relativi a Pisanello.
15
Giotto e gli umanisti, p. 19
16
Ivi, p. 30
17
Cfr. FABRIZIO LOLLINI, :ota introduttiva, in Giotto e gli umanisti, cit., p. 7
18
Giotto e gli umanisti, p. 31
GIOTTO E GLI UMANISTI
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7
Il primo di Guarino da Verona, scritto in latino neoclassico verso il 1427:
Quae lucis ratio aut tenebrae! distantia qualis! Symmetriae rerum! Quanta est concordia
membris!19
Il secondo è di Angelo Galli, segretario di Federico da Montefeltro che scrive nel
1442, in italiano:
Arte mesura aere et desegno
Manera prospectiva et naturale
Gli ha data el celo per mirabil dono.20
Al riguardo Baxandall osserva che Galli pone la propria attenzione a qualità che
Guarino non poteva offrire in termini latini e che parole come mesura, aere e
maniera, derivano dal volgare e in particolare dalla terminologia quattrocentesca
relativa alla danza, come ribadirà nel suo volume successivo.21
Vi è poi il caso di termini latini che, ricontestualizzati in un sistema di occorrenze
ciceroniane, assumono un valore differente. Ars, da termine ampio che designa
abilità, mestiere, professione diventa oppositivo a ingenium, seguendo una
distinzione formalizzata nelle retoriche classiche, che porta alla separazione: ars
come capacità e competenza ottenuta tramite il rispetto delle regole e l’imitazione;
ingenium come talento innato che non può essere imparato.
Entrambi i termini ricavavano parte del proprio significato dalla distinzione che intercorreva tra
loro; e ognuna, a sé stante, richiamava alla mente l’altra, pur non includendola:22
così la coppia ars et ingenium divenne inscindibile, rispetto all’uso che se ne fece
nella classicità. La consapevolezza di questa distinzione e l’uso dunque della coppia
di termini per definire i due diversi aspetti della creazione artistica (l’ingenium era
particolarmente connesso con l’invenzione, l’ars con lo stile) fu all’origine del
dibattito cinquecentesco sull’arte: regole e modelli contro genio e immaginazione.
Parole uguale sistema concettuale23
sentenzia significativamente il Baxandall.
Inoltre il sistema referenziale classico favoriva l’attivazione di metafore
intersensoriali, specialmente derivate dall’esperienza visiva: un’espressione verbale
poteva essere definita translucida o versicolor.
Nel paragrafo Frasi Baxandall analizza come gli umanisti furono attratti dallo
stile basato sul periodo strutturato in modo classico, che si articola in una serie di
clausole sintatticamente bilanciate a carattere antitetico o parallelistico, sottolineando
come esso si basasse sulle speciali opportunità grammaticali del latino letterario: la
differenziazione sottile fra i tempi e i modi, la varietà e la precisione delle sue
congiunzioni, e il suo ordine nella disposizione delle singole parole flessibile ed
espressivo.
19
Ivi, p. 34 (che capacità di riconoscere e rendere la luce e l’ombra! che diversità nelle raffigurazioni! che simmetria nel
comporre! che armonia tra le varie parti!)
20
Ibidem
21
Cfr. Pittura ed esperienze sociali, p. 78
22
Giotto e gli umanisti, p. 38
23
Ivi, p. 40
GIOTTO E GLI UMANISTI
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8
Ancora dalla retorica antica deriva il favore per il paragone, tanto che,
gran parte dei commenti e delle nozioni riguardo le arti visive lasciatici dagli umanisti derivano
proprio dalla propensione di questi ultimi per la comparazione.24
Allo stesso modo, un’altra abitudine classica seguita dagli umanisti è stata quella
all’interscambio metaforico fra la terminologia della critica letteraria e quella della
critica artistica. Molti umanisti si affidarono ai materiali della classicità, mutando,
trasferendo o innovando paragoni che Cicerone e altri autori avevano già impiegato.
E fu qui che gli aneddoti classici della storia dell’arte giocarono un ruolo di grande
importanza (ad esempio la storia di Zeusi e delle fanciulle di Crotone contenuta nel
De Inventione di Cicerone si ritrova nel De Pictura dell’Alberti).
La critica d’arte, commentando la pittura, è di solito retorica epidittica: discute cioè in termini di
valore – apprezzamento o condanna - e palesa l’abilità di chi parla. […] Inoltre, ci sono in ogni
caso pochi termini specifici o adatti all’interesse per la pittura, e se ci si innalza sopra al livello di
“grande”, “liscio”, “giallo” o “quadrato”, il nostro discorso diventa subito indiretto o poco
comprensibile. […] In ogni periodo è stato detto ben poco riguardo alla pittura in termini
direttamente descrittivi; è una sorta di attività linguistica più di altre esposta alle pressioni derivate
dalle forme del linguaggio in cui vengono fatti i commenti.25
L’effetto del latino era quello di costringere gli Umanisti a notare come
diversamente non avrebbero certo avuto occasione di fare, le qualità distintive dei
vari tipi di interesse e organizzazione:
l’esistenza nella lingua latina di termini che definiscano le varie categorie di interesse visivo -
decor e decus, ad esempio - contribuì ad attirare l’attenzione su queste stesse categorie.26
La conclusione di questo discorso è che:
esisteva un ben distinto punto di vista umanistico sulla pittura, senza intendere con questo – però -
una visione unitaria delle opinioni espresse sulla pittura degli umanisti. In primo luogo, non si
trattava di un gusto comune per un certo tipo di pittura, ma piuttosto il processo generalizzato -
derivato dall’esperienza di uno stesso linguaggio - di un sistema concettuale attraverso il quale si
poteva concentrare la propria attenzione.27
I riferimenti alla pittura dei primi umanisti mancano di realismo e di spessore
perché sono il prodotto della volontà di strutturare un periodo e non della esperienza
in merito ai pittori, sebbene
gli umanisti rifondarono, comunque, procedendo lungo la loro strada, la critica d’arte intesa come
istituzione.28
1.2. Umanisti e pittura
Il capitolo II è una rassegna più libra e generale di questi commenti; analizza come i più importanti
modelli di descrizioni umanistiche sulla pittura si svilupparono tra 1350 e 1450.29
24
Ivi, p. 59
25
Ivi, p. 71
26
Ivi, p. 74
27
Ivi, p. 75
28
Ivi, p. 76
29
Ivi, p. 19
GIOTTO E GLI UMANISTI
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9
Nello sviluppo della critica artistica nel periodo dell’umanesimo si individuano tre
tendenze.
La prima è quella, cicieroniana-petrarchesca, di un’analogia continua tra pittura e produzione
letteraria, sulla base di un sistema ristretto di categorie e distinzioni neo-classiche; costituì
l’elemento di partenza nel dibattito umanistico sulla pittura.30
Petrarca fece eseguire da Simone Martini la decorazione di un suo codice,
possedeva un dipinto di Giotto, conosceva anche un certo numero di trattati classici
sulle arti, in particolare Plinio, e probabilmente Vitruvio, ma i suoi commenti su
specifiche opere d’arte contemporanee sono superficiali e costretti nel repertorio. La
convenzionalità dei suoi elogi è una caratteristica del discorso umanistico; i luoghi
comuni sono fioriture epidittiche, un modo sontuoso e semiclassico per dire
semplicemente che un’opra d’arte è bella.
La seconda, territorialmente più limitata, si manifesta nel considerare la moderna storia artistica
come una serie di singole personalità aventi ciascuna interessi e capacità individuali. Questo punto
di vista acerbamente pliniano generò una tradizione compendiaria dell’arte fiorentina trecentesca
dotata di notevole saldezza e coerenza, ma che non riuscì a valicare i confini del XV secolo.31
Filippo Villani, tra il 1381 e il 1382, scrisse De origine civitatis Florentiae et
eiusdem famosis civibus, che include le biografie di molti uomini famosi fiorentini,
tra cui una sezione sui pittori. Cita gli antecedenti antichi (Zeusi, Fidia, Prassitele,
Mirone, Apelle) agli artisti moderni come ragione giustificativa dell’inserimento dei
secondi nella sua opera, ma ciò non è segno di una nuova rispettabilità intellettuale
dei pittori perché fa lo stesso con la categoria dei buffoni.
Le potenzialità del Villani per la critica d’arte umanistica risiedono nei suoi
modelli descrittivi della situazione trecentesca. A grandi linee, la sequenza descritta è
questa: Cimabue fu il primo che partecipò a riscattare la pittura dalla sua decadenza,
e Giotto, che raffigurò le cose in modo migliore ma seguiva comunque una strada già
aperta, completò il recupero; da lui derivò un gruppo di altri pittori – inclusi Maso,
Stefano e Taddeo - ognuno con caratteristiche differenti.
Che prima di Giotto ci fosse stato Cimabue, era stato già evidenziato da Dante32 e
Boccaccio aveva già parlato di Giotto i termini di rinascita.33 La consapevolezza di
una concezione sequenziale dei pittori attivi nella città pare molto sviluppata a
Firenze, soprattutto – è ovvio - fra gli artisti stessi: Cennino Cennini descrive la sua
genealogia artistica da Angnolo a Taddeo a Giotto stesso.34Sacchetti in una sua
novella inscena una discussione sulle eccellenze artistiche fiorentine.35
Lo schema del racconto di Villani è sostanzialmente basato sull’adattamento del
referto pliniano su Apollodoro e Zeusi e sui loro seguaci nella tradizione trecentesca:
Cimabue, Giotto, i giotteshi nel paragone profeta-salvatore-apostoli. È uno schema in
sé soddisfacente perché incarna in strutture compatte differenziazioni variate (priorità
cronologica, qualità, statura artistica, stile). Il suo carattere pose un problema agli
umanisti quattrocenteschi, che non riuscirono a trovare uno schema altrettanto chiaro
che potesse essere impiegato nell’epoca in cui operarono.
30
Ivi, p. 139
31
Ibidem
32
DANTE, Purgatorio, XI, 94-96
33
BOCCACCIO, Decamerone, VI, 5
34
CENNINO CENNINI, Il libro dell’arte, p. 2
35
FRANCESCO SACCHETTI, Il trecentonevolle, CXXXVI
GIOTTO E GLI UMANISTI
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10
La terza era costituita dall’approccio basato su tipologie ecfrastiche secondo i modi e le scale di
valore fornite da Guarino e dalla sua scuola.36
Guarino da Verona era stato allievo di Manuele Crisolora, un umanista e
diplomatico bizantino che arrivò in Italia, proveniente da Costantinopoli, verso il
1395, e che fu insegnante di greco e autore di una grammatica, gli Erometata, che
divenne il manuale più usato nell’Europa occidentale. La sua attitudine letteraria
verso la pittura e la scultura fornì aggiunte importanti al repertorio umanistico,
soprattutto in termini di verosimiglianza, varietà ed intensità di espressività emotiva.
L’antica retorica greca era stata imbalsamata nelle scuole di Costantinopoli per
oltre un millennio: uno degli esercizi più praticato era stato l’ekfrasis, cioè la
descrizione. Sin dalla letteratura antica le opere d’arte erano state uno dei soggetti
preferiti delle ekfraseis (come era avvenuto per le Imagines di Filostrato), e questa
abitudine venne mantenuta anche dai bizantini.
Guarino trasferì in Italia i valori ecfrastici di Bisanzio. Fu egli stesso, mentre
risiedeva ancora a Costantinopoli, a tradurre in latino la Calunnia di Luciano, con la
sua ekfrasis del dipinto di Apelle, e da questa versione l’Alberti trasse le sue righe
sull’argomento che compaiono nel De Pictura. Ma è attorno a Pisanello che si
concentrò ben presto la principale attività ecfrastica di Guarino e dei suoi discepoli
(tra cui Tito Vespasiano Strozzi). I loro commenti puntano sui motivi caratteristici
delle ekfraseis bizantine sulla pittura: l’insistenza sulla verosimiglianza fisionomica
delle figure, e sulla ricca diversificazione dei vari componenti l’immagine. Questi
non sono propriamente in forma ecfrastica dal momento che non descrivono tanto
un’opera d’arte specifica, quanto piuttosto le qualità distintive della produzione del
pittore in generale, e la loro varietà. È da notare che l’andamento discorsivo
dell’ekfrasis sembra corrispondere molto bene alle qualità della pittura pisanelliana.
Figura 1. Pisanello, San Giorgio e la principessa, affresco e tempera. cm 223x430, 1433-1435 circa.
Verona, Chiesa di Sant’Anastasia.
36
Giotto e gli umanisti, p. 139
GIOTTO E GLI UMANISTI
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11
Bartolomeo Facio, allievo di Guarino, segretario e storico di corte presso Alfonso
V di Napoli, scrisse il suo opuscolo De viris illustribus nel 1456. In quest’opera
scelse di associare alle più consuete categorie di uomini illustri – poeti, oratori,
giuristi, scienziati, privati cittadini, capitani di ventura, principi - anche quelle di
pittori e scultori. Nella sezione sui pittori, una breve introduzione generale sulla
pittura è seguita dalle biografie di quattro artisti che l’autore considerò i migliori del
suo tempo: Gentile da Fabriano, Jan van Eyck, Pisanello e Rogier van der Weyden.
Si tratta del primo lavoro letterario che oltrepassa il limitato punto di vista
fiorentinocentrico e tiene conto anche della tendenza straniera che esercitò maggiori
influssi in Italia, la fiamminga. Quest’opera è l’ultimo frutto, e il più perfetto, della
prima stagione della critica d’arte umanistica. Un certo numero di assunti
fondamentali nella critica seicentesca e settecentesca di tipo accademico – di solito
definiti “umanistici”- sono già fissati o almeno sottintesi, nell’opera di Facio.
Lorenzo Valla risiedette presso corti molto colte, a contatto con l’elaborazione di
progetti pittorici e conoscenza diretta dell’arte classica, più di ogni altro umanista era
in possesso di un bagaglio filologico che gli permetteva di padroneggiare il
vocabolario critico, soprattutto per quanto concerneva l’utilizzo delle metafore. Nella
prefazione alla sua opera Elegantiae parlando della rinascita della lingua latina fa
riferimento anche alle conquiste della pittura e della scultura e tocca il discorso della
loro affinità con le arti liberali.
Valla evidenziò l’assenza di qualsiasi modello moderno su cui basare la
descrizione delle complicate relazioni tra gli artisti del XV secolo, per non seguire il
vecchio schema profeta-salvatore-apostoli. Era necessaria una chiave di lettura meno
rigida e monointerpretativa. In sua assenza gli umanisti si dovettero rivolgere ad una
fiacca continuazione del modello precedente o ad una citazione diretta da Plinio.
1.3. Alberti e gli Umanisti: la compositio
Come il concetto di “composizione” pittorica – il contributo più interessante che gli umanisti
hanno recato alle nostre conoscenze e aspettative sulla pittura - giunse all’Alberti nel 1435. Questo
viene discusso nel capitolo III, e viene affrontato come un caso specifico del problema più
generale trattato nel capitolo I.37
Il capitolo III analizza come Alberti, nel 1435, utilizzi il concetto di compositio
pittorica mutuando il termine dalla retorica classica intorno alla struttura prosastica
del discorso. Alberti si differenziava dagli altri umanisti perché il suo proposito,
parlando di pittura era assai più serio; fuori dall’ambito del clichè umanistico, scrisse
qualcosa che ebbe influenze estremamente durature sulle inclinazioni europee verso i
problemi della pittura. E fu sia un buon umanista sia un praticante di pittura.
Il De Pictura ebbe due redazioni: una in latino dedicata al duca di Mantova
Gianfrancesco Gonzaga, che ebbe una circolazione erudita; una in volgare dedicata a
Brunelleschi, che ebbe una funzione più operativa fra gli artisti. Baxandall ritiene che
la versione latina abbia preceduto la volgare anche se ciò non è indiscutibile. In ogni
caso, il lettore predestinato è un umanista con una buona conoscenza di Euclide e con
una certa inclinazione alla pittura o al disegno.
L’opera si divide in tre libri: il primo codifica quella che è la prospettiva
monofocale per rappresentare oggetti tridimensionali su superfici piane; il secondo
descrive la buona pittura suddividendola in tre sezioni: circumscriptione,
37
Ivi, p. 19
GIOTTO E GLI UMANISTI
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12
compositione e ricevere dei lumi; il terzo discute il rapporto pittori/altri artisti
(soprattutto scrittori).38
L’argomento centrale del libro II - che è quello più pienamente umanistico perché
utilizza il medium scrittorio del linguaggio retorico con le sue relative categorie - è la
composizione pittorica, il modo cioè in cui un dipinto può essere organizzato in
modo che ogni superficie piana e ogni soggetto mostrato abbiano un ruolo
nell’effetto complessivo. Alberti sembra qui richiamare la pittura italiana ad uno
specifico standard: la significatività, il decorum, l’economia della narrazione.
Scrive Alberti:
compositio è quel modo di dipingere con il quale si possono comporre le diverse parti di un’opera
pittorica [...] Le diverse parti della historia sono costituite dai corpi, quelle dei corpi dalle membra;
quelle delle membra dai singoli piani39
e Baxandall dimostra come il criterio della compositio
è una metafora molto precisa che trasferisce alla pittura il modello di organizzazione derivato dalla
retorica.40
Applicare la compositio in retorica significava organizzare il singolo periodo
secondo una struttura gerarchizzata in quattro livelli: le parole formano la frase, le
frasi la clausola, le clausole il periodo.
Il concetto di compositio pittorica totalizzante del secondo libro costituisce un
fatto esclusivo della critica d’arte umanistica, poiché questa nozione è una conquista
umanistica e dipende da un complesso di elementi: l’attitudine all’analogia
scrittura/pittura e alla metafora critica, la possibilità di avere accesso a un’ampia
riserva di termini adatti ad esprimere tale metafora nell’ambito del sistema retorico;
l’assunto che qualsiasi arte è per definizione sistematica e si può insegnare attraverso
regole fisse; la constatazione secondo la quale se si vuole apprezzare un’arte come la
pittura in modo giusto si deve essere in possesso di determinate capacità di analisi; la
passione per la prosa strutturata sul periodo.
Baxandall ritiene che l’Alberti sia fortemente polemico contro il modo di scrivere
di umanisti quali Guarino e Strozzi e le pitture predilette da questi ultimi, cioè quelle
38
Cfr. Words for Pictures, pp. 16-22 (capitolo 7 di questo lavoro).
39
Giotto e gli umanisti, p. 173 (Est autem compositio ea pingendi ratio qua partes in opus picture componuntur. Amplissumum
pictoris opus on colossus, sed historie. Maior enim est ingenii laus in istoria quam in colosso. Historie parte scorpora, corporis
pars membrum est. Membi pars est superficies. Prime igitur operis partes superficies, quod ex his membra, ex membri scorpora,
ex hillis istoria.)
40
Ivi, p. 174