1) L’armatura logica del mondo
Siamo nel 1930, quando Moritz Schlick annuncia in gran pompa la grande svolta della filosofia
(Die Wende der Philosophie). Il suo discorso, per non lasciar dubbio alcuno sulla piena coscienza
che egli ha della portata e della gravità intrinseca della convinzione di cui si appresta a metterci a
parte, comincia con un accenno all’anarchia delle opinioni filosofiche.
Di tempo in tempo, ci ricorda Schlick, vengono indetti dei concorsi a premio per scritti sulla
questione dei progressi che la filosofia avrebbe compiuto in un determinato periodo di tempo.
L’intervallo prescelto veniva usualmente delimitato con il nome di un grande pensatore da una parte
e dall’altra col presente. L’idea che quest’uso sottende è molto semplice: “si presupponeva che sui
progressi filosofici dell’umanità fino a quel pensatore già si fosse, in certo qual modo, fatta luce, ma
che da lui in poi divenisse dubbio quali nuove conquiste la nuova epoca avesse apportato.”(1)
I filosofi divenuti classici del pensiero, proprio in ragione di ciò, hanno superato con successo la
prova del tempo e di fronte a tutto ciò ch’è divenuto storico si prova una maggiore considerazione;
ben per questo si guarda al passato con minor scetticismo e si è ben disposti a riconoscere uno
sviluppo ascendente alla sua filosofia. Se non che, “proprio i pensatori più capaci raramente hanno
ritenuto incrollabili e permanenti i risultati della filosofia precedente, sia pure dei classici. […] Ogni
nuovo sistema, in fondo, comincia sempre di nuovo daccapo, ogni pensatore cerca un suo proprio
saldo fondamento e non ama mettersi sulle spalle dei suoi predecessori. Cartesio si sentì (non senza
ragione) un iniziatore assoluto. Spinoza credette, con l’introduzione della forma matematica (in
realtà risultata piuttosto posticcia), di aver trovato il metodo filosofico definitivo. E Kant era
convinto che sulla via da lui battuta la filosofia avrebbe finalmente assunto il procedere sicuro di
una scienza. […] - Dunque - quasi tutti i grandi pensatori hanno reputato necessaria una riforma
radicale della filosofia tentandola essi stessi.”(2)
Sforzi titanici conclusisi tutti quanti nel modo proprio e consono agli sforzi titanici e che, oggi, ci
pongono dinanzi ad un disastrato campo di battaglia a cui scetticismo e rassegnazione
sembrerebbero il solo atteggiamento adeguato di guardare. Insomma, un’esperienza di oltre duemila
anni pare insegnarci che ogni tentativo di porre fine al caos dei sistemi e di cambiare le sorti della
filosofia non possa essere preso sul serio e noi, amaramente, siamo ogni volta riconsegnati dallo
sconforto al sospetto che la filosofia non porterà mai ad un genuino problema.
Ciò nonostante, coma abbiamo detto, l’ennesima, nuova e senz’altro definitiva svolta della filosofia,
che finalmente porrà fine all’annosa ed infruttuosa polemica fra i sistemi, è pronta per essere
annunciata da Moritz Schlick, infatti, a suo dire, si è ora in possesso dei mezzi che rendono non
necessaria per principio ogni polemica del genere; si tratta solo di applicarli con decisione.
Questi nuovi mezzi, più esattamente procedure, hanno origine nella logica. Furono intravisti da
Leibniz e notevolmente sviluppati da Frege e Russel, ma solo Wittgenstein, con il Tractatus
logicophilosophicus, li ha valorizzati radicalmente. Queste nuove metodologie, elaborate dai
matematici per sopperire all’inefficacia delle forme tradizionali della logica nella risoluzione di
problemi particolari e rivelatesi poi in ogni campo a tal punto superiori di quelle antiche, tanto che è
lecito aspettarsi le soppiantino completamente, sarebbero dunque in grado di esimerci da ogni
conflitto filosofico? Ci permetterebbero di disporre di regole generali con il cui ausilio risolvere
tutte le tradizionali questioni della filosofia?
Sembrerebbe di no, visto che, come dice Schlick, “per quanto alto sia il valore da attribuirsi al
nuovo metodo, è chiaro che un mero affinamento metodologico non può condurre a una svolta tanto
radicale”(3) quanto quella appena annunciata. D’altra parte, se si trattasse solo dell’applicazione di
una nuova metodologia nella risoluzione dei classici problemi fino ad oggi considerati filosofici, si
sarebbe assicurato niente più che un progresso graduale e tecnico nella risoluzione di questi stessi
problemi; un po’ come l’invenzione del motore a scoppio rese possibile la soluzione dei problemi
del volo. Dunque non è alla logica in sé che si deve attribuire il merito di questa imminente e
definitiva svolta, quanto, piuttosto, a qualcosa di ben diverso che questa avrebbe effettivamente
suggerito e reso possibile: l’intendimento della natura della logica stessa.
Logico, per certi versi, può essere detto tutto ciò che è puramente formale e la cosa è risaputa,
tuttavia, nota Schlick, non si è mai avuta un’effettiva chiarezza circa la natura delle pure forme e
per conseguire tale chiarezza è fondamentale rendersi conto che ogni conoscenza è una espressione
e una rappresentazione, esprime cioè un fatto conosciuto; la qual cosa è possibile, peraltro, in molti
modi diversi: al mondo esistono infiniti linguaggi e nuovi linguaggi, con sistemi di segni scelti
arbitrariamente, possono essere inventati continuamente. Ciascuno di questi linguaggi darà origine a
differenti specie di possibili rappresentazioni, ma se ciascuna di queste rappresentazioni in modi
differenti esprime effettivamente la medesima conoscenza, deve esserci qualcosa di comune sotteso
a tutte queste possibili espressioni: condivideranno tutte la medesima forma logica.
L’intera argomentazione è eminentemente wittgensteiniana e ricalca lo svolgimento del Tractatus
(4), mutuando la teoria raffigurativa del linguaggio (il linguaggio come raffigurazione simbolica
del mondo) ivi contenuta. “Il mondo è la totalità dei fatti”(5); il carattere originale e innovativo
dell’ontologia di Wittgenstein risiede proprio in questo riconoscimento, che porta a considerare il
mondo alla stregua di un aggregato di fatti e non di cose.
Se, per esempio, immaginiamo che gli oggetti del mondo siano i pezzi degli scacchi e i quadrati
della scacchiera, gli stati di cose saranno quindi le relazioni fra i pezzi e i quadrati: che un certo
pezzo occupi un certo quadrato sarà un fatto. Il mondo corrisponderà alla posizione dei pezzi in un
dato momento; esso sarà la totalità dei fatti, non delle cose: non quindi i pezzi più la scacchiera, ma
la posizione di quelli su questa. I pezzi sono oggetti semplici; tuttavia essi non possono essere
pensati separatamente dalle regole del gioco, ossia dall’insieme delle mosse possibili ammesse. Ciò
che fa di un alfiere un alfiere, non è il suo essere così e così ma il complesso delle mosse che può
effettuare sulla scacchiera: l’uso che se ne fa.
Ora, per maggiore chiarezza, dobbiamo precisare che: il mondo è sì la totalità dei fatti, ma che
questa totalità deve essere intesa all’interno di uno spazio logico. Infatti, dati degli oggetti (delle
cose), non è dato con ciò un mondo, ma solo la sua possibilità. “Gli oggetti contengono la
possibilità di tutte le situazioni.”(6) La natura dell’oggetto si determina in base alle sue possibili
ricorrenze nel contesto di uno stato di cose, l’oggetto non è nemmeno pensabile al di fuori della
possibilità di questo contesto. Gli oggetti si differenziano dunque secondo le forme di cui sono
partecipi, nel senso che in base a queste forme essi possono o meno entrare tra loro in determinati
rapporti. La forma dell’oggetto è pertanto l’insieme dei modi in cui esso può strutturarsi con gli altri
oggetti: un oggetto è completamente descritto dall’insieme delle sue possibili ricorrenze in stati di
cose; conoscere un oggetto significa perciò conoscere in quali stati di cose può ricorrere o meno.
Gli oggetti sono la sostanza del mondo. Essi hanno i caratteri della permanenza, della fissità e
dell’immutabilità. Il cambiamento non è che un’alterazione nelle configurazioni degli oggetti negli
stati di cose. Gli oggetti, quindi, restano sempre quello che sono: la sostanza è ciò che sussiste
indipendentemente da ciò che accade e ciò che accade è il fatto.
Non è possibile considerare il singolo oggetto se non nella relazione che esso intrattiene con gli altri
oggetti, se non in quanto concorre a determinare uno stato di cose. “Se conosco l’oggetto, io
conosco anche tutte le possibilità della sua ricorrenza in stati di cose. (Ognuna di tali possibilità
deve essere nella natura dell’oggetto.) Non può trovarsi successivamente una nuova possibilità.”(7)
La proposizione 1.13 (i fatti nello spazio logico sono il mondo), infatti, significa che bisogna
pensare i fatti in quanto collocati nello spazio: lo spazio dei possibili fatti. Lo spazio logico è
dunque dato dalla somma dei fatti possibili ed esistenti e dei fatti possibili ma non esistenti. La
struttura di uno stato di cose, allora, sarà il modo in cui gli oggetti sono connessi gli uni agli altri
nello stato di cose e la forma dell’oggetto, la possibilità di questa struttura. Dunque, ogni oggetto è
come in uno spazio di possibili stati di cose; uno spazio di possibilità, ossia: uno spazio logico.
Dunque, il mondo è tutto ciò che accade: la totalità dei fatti. Un fatto può constare di altri fatti, può
cioè essere un fatto complesso. Un fatto atomico, cioè un fatto che non consta di altri fatti, è detto
uno stato di cose. A sua volta, uno stato di cose si presenta come una combinazione di oggetti, di
cose, termine col quale si designano le realtà più semplici e non ulteriormente scomponibile che
costituiscono i fatti. Nello stato di cose gli oggetti ineriscono gli uni con gli altri come le maglie di
una catena. Il modo in cui sono connessi è la struttura dello stato di cose.
Dei fatti che compongono il mondo, infine, noi ci formiamo delle immagini: il linguaggio è inteso
come un sistema raffigurativo complesso. Esso rappresenta la realtà, nel senso che ne costituisce
l’immagine speculare: ne rispecchia le proprietà formali.
Il fatto raffigurante consta di oggetti (gli elementi dell’immagine) non meno di quello che raffigura.
Nell’immagine gli elementi stanno per gli oggetti. Tra fatto e immagine esiste quindi un rapporto di
corrispondenza (relazione raffigurativa) tale per cui agli oggetti dell’uno corrispondono gli elementi
dell’altro: tra immagine e fatto vi è isomorfismo. Nell’immagine trova rappresentazione il modo in
cui gli oggetti sono connessi l’uno all’altro nel fatto raffigurato: la struttura.
Possiamo chiamare struttura dell’immagine la connessione degli elementi dell’immagine in quanto
quest’ultima raffigura la connessione degli oggetti di cui si compone il fatto. La verità o la falsità di
un’immagine dipende dalla sua corrispondenza o non corrispondenza con lo stato di cose che essa
rappresenta. Diremo che un immagine è provvista di senso se può essere vera o falsa. Con senso
dell’immagine intendiamo quindi ciò che essa rappresenta, indipendentemente dal fatto che la
rappresentazione sia fedele o meno. Un’immagine è sensata, pertanto, in quanto rappresenta una
situazione possibile.
Ogni conoscenza è conoscenza di fatti ed è tale, quindi, solo in virtù della sua forma logica, la
quale, fondamentale corollario, essendo la possibilità stessa della rappresentabilità dei fatti, non è
rappresentabile a sua volta. “La forma logica sola è ciò che importa, nella conoscenza, mentre tutto
il resto non è che inessenziale e fortuito sussidio materiale dell’espressione, non altrimenti che, per
esempio, l’inchiostro con cui scriviamo una proposizione.”(8)
Lo stato caotico in cui la filosofia si è venuta a trovare, dunque, è da ricondurre all’ingenuità con
cui ha riconosciuto delle formulazioni sospette come genuini problemi. Essa non si è curata di
stabilire scrupolosamente se a tali formulazioni spettasse realmente un qualche senso plausibile, ma
ha creduto anzi che le risposte a questo genere di formulazioni e domande potessero essere trovate
ricorrendo a peculiari metodi filosofici differenti da quelli delle scienze specializzate.
Dunque, bisogna chiarire cosa si intende per genuini problemi e in che modo si possa stabilire
quando si debba riconoscere a domande, formulazioni e proposizioni un qualche senso plausibile. In
generale, diciamo che il senso di una domanda è chiaro se, e solo se, siamo in grado di indicare, con
tutta esattezza, le condizioni alle quali si possa rispondere a tale domanda con un si o con un no.
“Specificando dette condizioni, e solamente così, si definisce il senso di una domanda.”(9)
Il sostrato di queste considerazioni è, ancora una volta, wittgensteiniano e corrisponde alla teoria
della proposizione enunciata nel Tractatus: la proposizione è un complesso di segni formato
secondo regole grammaticali (10). Essa, come una specie particolare di immagine, è dunque, in
generale, l’espressione simbolica di un fatto.
I nomi sono gli elementi semplici che compongono la proposizione e sono rappresentanti di oggetti:
il significato di un nome è ciò che quest’ultimo designa. Il nome denota o designa l’oggetto; la
proposizione descrive il fatto. Alla configurazione dei nomi (la struttura della proposizione)
corrisponde la configurazione degli oggetti (la struttura del fatto).
La proposizione ha senso anche nel caso in cui sia falsa, infatti, il non senso è solo ciò di cui non
posso pensare il contrario (test di sensatezza). Il nome ha significato solo se è il referente di
qualcosa e ha senso solo in relazione alle connessioni stabilite dalla proposizione: come un oggetto
non può sussistere indipendentemente dal suo occorrere in stati di cose, così il significato del nome
dipende dalla sintassi della proposizione in cui si trova inserito; i nomi, in altre parole, svolgono la
loro funzione referenziale solo all’interno di un contesto.
I nomi hanno una relazione univoca con la realtà: o designano qualcosa o non sono dei simboli
dotati di significato. Le proposizioni, invece, hanno una duplice relazione con la realtà: possono
essere vere o false. La proposizione esibisce un fatto grazie al rapporto di denotazione fra nomi e
oggetti rappresentati e grazie all’identità di struttura tra proposizione e fatto. Il senso di una
proposizione è il suo essere una rappresentazione possibile di uno stato di cose, ossia il suo poter
essere vera o falsa. Comprendere il senso di una proposizione vuol dire cogliere la connessione
logica dei segni che la compongono. Per coglierne il significato, invece, è necessario il rinvio al
mondo reale, allo stato di cose raffigurato.
“Il senso di una proposizione sta, evidentemente, solo nel suo esprimere un determinato stato di
fatto. È questo stato di fatto che si deve indicare, per poter dire quale sia il senso della
proposizione.”(11) Il primo passo di ogni attività filosofica, nonché il fondamento di ogni
riflessione, sta dunque nel comprendere l’impossibilità di indicare il senso di una qualsiasi
asserzione a meno che non si descrivano le circostanze che debbono o no sussistere, affinché
quest’asserzione sia vera o falsa. Insomma, “con l’analisi filosofica noi non possiamo mai decidere
se qualcosa sia o no reale, bensì solo stabilire il significato dell’affermazione che essa è o no reale.
Che, poi, essa lo sia oppure no, può essere deciso solo con i consueti metodi della vita quotidiana e
della scienza, ossia con l’esperienza.”(12)
Noi comprendiamo una proposizione complessa se comprendiamo le sue parti costitutive, ossia:
quelle che chiamiamo proposizioni elementari. Una proposizione elementare è un semplice nesso di
nomi che raffigura un fatto elementare: uno stato di cose. Essa è vera se sussiste lo stato di cose che
raffigura, falsa nel caso contrario. A sua volta, affinché una proposizione elementare venga
compresa è necessario che sia evidente il significato dei nomi che la compongono. Deve dunque
esserci corrispondenza tra il piano linguistico e quello ontologico: agli oggetti corrispondono i
nomi; agli stati di cose le proposizioni elementari; ai fatti le proposizioni complesse; al mondo il
linguaggio.
Il senso di una proposizione viene compreso solo quando si comprende il significato delle parole
che vi compaiono, le quali, però, sono esplicabili solo mediate definizioni in cui compaiono altre
parole, il cui significato deve essere a sua volta compreso e così via. Ma le definizioni non possono
proseguire all’infinito e dunque, alla fine, perveniamo a parole il cui significato non può più essere
descritto mediante proposizione, ma può solo essere mostrato con un atto ostensivo: deve essere
indicato direttamente. Il significato delle parole, da ultimo, deve essere mostrato, essere dato.
Ed è ancora il Tractatus che ci spiega perché, necessariamente, debba essere così: “se il mondo non
avesse una sostanza, l’avere una proposizione senso dipenderebbe allora dall’essere un’altra
proposizione vera.”(13) “Sarebbe allora impossibile progettare un immagine (vera o falsa) del
mondo.”(14)
Se i fatti fossero irriducibilmente complessi, se cioè non ci fossero degli oggetti ultimi (sostanza del
mondo) in connessione diretta coi nomi che li rappresentano, nessuna proposizione direbbe
qualcosa sul mondo (potrebbe affermare qualcosa di sensato), in quanto il processo di
scomposizione della complessità della proposizione non avrebbe mai fine. Solo se alcuni segni sono
in connessione diretta con il mondo (come lo sono i nomi quando rappresentano gli oggetti) tutti gli
altri segni possono, a loro volta, stare in connessione, sia pure indiretta, con il mondo.
“Gli oggetti formano la sostanza del mondo. Perciò essi non possono essere composti.”(15)
L’esistenza di oggetti e la loro semplicità sono dunque le necessarie condizioni formali affinché le
proposizioni abbiano senso: se ci sono proposizioni dotate di senso, come ci sono, allora devono
esserci oggetti semplici. Gli oggetti vengono postulati sul piano logico piuttosto che determinati su
quello empirico. L’esistenza degli oggetti risulta, per così dire, dedotta a partire dalle proprietà
logiche del linguaggio, in particolare dal fatto che esistono proposizioni munite di senso.
Dunque, il linguaggio dotato di senso è espressione dei fatti e coincide con il linguaggio delle
scienze naturali. Viceversa, non fanno parte delle scienze naturali tutti gli enunciati che non sono
trascrivibili in proposizioni, ossia in espressioni linguistiche dotate di senso.
Stando così le cose, cadono immediatamente tutte le questioni circa la validità e i limiti della
conoscenza: conoscibile è tutto ciò che si può esprimere e rappresentare, tutto ciò su cui si possono
sensatamente formulare dei quesiti. Ogni volta che sussisterà un problema, se di un problema
sensato si tratta, si potrà sempre, almeno in teoria, indicare il procedimento che porta alla sua
soluzione. Tale procedimento si conclude con un atto di verificazione, il quale coincide sempre e
necessariamente col riscontrare, mediante l’osservazione o l’esperienza immediata, la presenza di
un determinato stato di cose nel mondo. Questo procedimento è, nella vita quotidiana come nella
scienza, l’unico metodo con cui si possa effettivamente stabilire la verità o la falsità di ogni
enunciato e, all’infuori di quello mediante l’osservazione e la scienza empirica, non esiste nessun
altro esame o controllo della verità.
“Il criterio per la verità o la falsità di una proposizione sta, dunque, nella circostanza che, date certe
condizioni (descritte nelle definizioni), siano o no presenti certi stati di fatto. Determinando questo,
si determina tutto quello che è asserito dalla proposizione, e quindi si apprende quale senso essa
abbia. Ma se, per principio, non possiamo verificare una proposizione, se cioè non sappiamo
assolutamente come procedere per accertare la sua verità o falsità, allora è evidente che non
sappiamo affatto che cosa propriamente dica la proposizione stessa. […] L’enunciazione delle
condizioni nelle quali una proposizione è vera, equivale appieno all’enunciazione del suo senso. E
queste condizioni, come abbiamo visto, debbono in ultimo appello trovarsi nel dato di fatto.
Condizioni diverse significano dati di fatto diversi. Il senso di ogni proposizione è, in fondo,
determinato solo dal dato, e da nessun’altra cosa.”(16)
Chi ha capito che il senso di un enunciato è determinabile solo per mezzo di dati di fatto, dice
Schlick, non può più nemmeno concepirla un’altra opinione, perché costui capisce benissimo che il
nostro modo di procedere porta all’individuazione delle condizioni stesse, nelle quali le opinioni
diventano, in genere, formulabili.
Le proposizioni della logica sono l’armatura del mondo, esse non descrivono fatti, ma condizioni di
possibilità dei fatti e, mostrando le proprietà formali del linguaggio, rappresentano l’armatura del
mondo. Non hanno a che fare con un particolare mondo di oggetti, ma con le strutture del
linguaggio. Di qui deriva il loro carattere di certezza, il che le rende tuttavia prive di qualsiasi
valore conoscitivo.
NOTE
(1) Moritz Schlick, La svolta della filosofia, in Il neoempirismo, a cura di A. Pasquinelli, UTET, Torino
1969, p. 255
(2) Moritz Schlick, La svolta della filosofia, cit. p. 256
(3) Moritz Schlick, La svolta della filosofia, cit. p. 257
(4) Ludwig Wittgenstein, Tractatus logiconullphilosophic , u as cura di Amedeo G. Conte, Einaudi, Torino 1964
(5) Ludwig Wittgenstein, Tractatus logiconullphilosophic , u cs it. prop. 1
(6) Ludwig Wittgenstein, Tractatus logiconullphilosophic , u cs it. prop. 2.014
(7) Ludwig Wittgenstein, Tractatus logiconullphilosophic , u cs it. prop. 2.0123
(8) Moritz Schlick, La svolta della filosofia, cit. p. 258
(9) Moritz Schlick, La svolta della filosofia, cit. p. 270
(10) Grammatica, nel senso in cui Wittgenstein usa questa parola, è semplicemente la descrizione del
maneggio effettivo del linguaggio.
(11) Moritz Schlick, La svolta della filosofia, cit. ibidem
(12) Moritz Schlick, La svolta della filosofia, cit. ibidem
(13) Ludwig Wittgenstein, Tractatus logiconullphilosophic , u cs it. prop. 2.0211
(14) Ludwig Wittgenstein, Tractatus logiconullphilosophic , u cs it. prop. 2.0212
(15) Ludwig Wittgenstein, Tractatus logiconullphilosophic , u cs it. prop. 2.021
(16) Moritz Schlick, La svolta della filosofia, cit. p. 271
1.1) Verità come corrispondenza
In conclusione del capitolo precedente si è accennato all’atto di verificazione designandolo come il
procedimento, in via teorica sempre possibile, attraverso il quale poter giungere alla risoluzione dei
problemi, ancorché di problemi sensati si tratti. Tale procedimento consiste nel riscontrare,
mediante l’osservazione o l’esperienza immediata, la presenza nel mondo di un determinato stato di
cose, il quale verifica o falsifica la proposizione che enuncia il nostro problema risolvendolo ad un
tempo. All’infuori di quello mediante l’osservazione e la scienza empirica, non esiste nessun altro
esame o controllo della verità.
Dunque, dobbiamo chiarire questo concetto e, innanzi tutto, constatazione alquanto scontata,
precisare che, nella presente argomentazione, il concetto di verificabilità viene inteso, da Schlick,
solo in linea di principio, poiché è evidente che il senso di una proposizione non possa dipendere
dal fatto che le circostanze in cui ci troviamo in un determinato momento consentano o meno
l’effettiva verificazione.
In secondo luogo, l’assegnazione di un ruolo così fondamentale, nella risoluzione dei problemi,
all’atto di verificazione, presuppone una teoria della verità come corrispondenza. Come abbiamo
detto, e spiegato in termini wittgensteiniani, l’intera concezione di Schlick è caratterizzata da una
concezione raffigurativa del linguaggio, il linguaggio viene cioè inteso come uno strumento di
raffigurazione simbolica del mondo, la qual cosa, attraverso la teoria della proposizione, che è poi
una teoria dell’immagine, la quale, a sua volta, non è altro che una teoria della rappresentazione in
generale (1), porta a stabilire una corrispondenza tra il piano linguistico e quello ontologico e quindi
all’identificazione di linguaggio e pensiero.
A questo punto, però, dobbiamo fare un passo indietro e rivolgere, nuovamente, la nostra attenzione
al Tractatus, in particolare, alle proposizioni n. 3 e 4, rispettivamente: “L’immagine logica dei fatti
è il pensiero.” & “Il pensiero è la proposizione munita di senso.”
Dunque, il pensiero trova espressione nella proposizione. “Il segno, mediante il quale esprimiamo il
pensiero, io lo chiamo il segno proposizionale. E la proposizione è il segno proposizionale nella sua
relazione di proiezione con il mondo.”(2) Così, la relazione di corrispondenza precedentemente
stabilita tra le cose reali e gli elementi semplici costitutivi della proposizione, può essere estesa agli
oggetti del pensiero, i quali altro non sono che i nomi (ossia gli oggetti del mondo materiale), ossia
gli elementi semplici costitutivi della proposizione. “Nella proposizione il pensiero può essere
espresso così che agli oggetti del pensiero corrispondano elementi del segno proposizionale.”(3)
“Questi elementi io li chiamo segni semplici; la proposizione, completamente analizzata.”(4) “I
segni semplici impiegati nella proposizione si chiamano nomi.”(5)
“Il linguaggio traveste il pensiero.”(6) Perciò, dire che uno stato di cose è pensabile, non vuol dire
altro che questo: possiamo farcene un’immagine. Il pensiero è la proiezione di una possibilità sul
mondo e solo gli stati di cose possibili possono essere oggetti del pensiero. “La totalità dei pensieri
veri è un immagine del mondo”(7); così come lo è la totalità delle proposizioni scientifiche vere. “Il
pensiero contiene la possibilità della situazione che pensa. Ciò che è pensabile è anche
possibile.”(8) “Noi non possiamo pensare nulla di illogico, poiché altrimenti dovremmo pensare
illogicamente.”(9)
Quindi, una volta stabilita la connessione nell’immagine logica tra mondo e pensiero, quest’ultimo
viene identificato col linguaggio; mondo, pensiero e linguaggio risultano così connessi da una
identità di forma logica (isomorfismo). Ricordiamo infatti che l’immagine è un modello della realtà,
nel senso che tra gli elementi dell’immagine e gli oggetti rappresentati corre una relazione di
corrispondenza, una relazione raffigurativa; la connessione degli elementi dell’immagine è detta
struttura dell’immagine e corrisponde alla struttura dello stato di cose, del fatto.
Per esempio, affinché A sia un’immagine di B, A non potrà essere del tutto simile a B (altrimenti
sarebbe B e non la sua immagine), ma non potrà nemmeno esserle del tutto diversa (altrimenti non
la raffigurerebbe); dunque, l’immagine, per essere un’immagine della realtà che raffigura, dovrà
avere qualcosa in comune con essa e questo elemento in comune, lo abbiamo detto, è la forma
logica. Insomma, allo stesso modo in cui il modello di un architetto mostra la possibile disposizione
di una città, un’immagine rappresenta un mondo possibile e questo significa che gli elementi
dell’immagine devono necessariamente combinarsi secondo un modello che corrisponda alla
relazione fra gli elementi di ciò che è raffigurato.
“L’immagine raffigura la realtà rappresentando una possibilità del sussistere e non sussistere di stati
di cose.”(10) Ogni immagine, quindi, raffigura un possibile stato di cose e il suo senso sta proprio in
questo. Detto altrimenti: “La proposizione mostra il suo senso. La proposizione mostra come stanno
le cose, se essa è vera. E dice che le cose stanno così.”(11) Allora, un’immagine sarà vera se il suo
senso concorda con la realtà, falsa altrimenti. Nessuna immagine, tuttavia, può da sola mostrare se è
vera o falsa: per capirlo la si deve confrontare con la realtà; e dire questo significa accogliere una
concezione della verità come corrispondenza.
“Una proposizione possiede un senso esplicitabile se, e solo se, il fatto che sia vera o falsa produce
una differenza che possa venir rivelata. Una proposizione, tale che il mondo rimanga lo stesso tanto
nel caso che sia vera, quanto nel caso che sia falsa, non dice proprio nulla intorno al mondo, è
vuota, non comunica niente e non possiamo dire quale sia il suo senso. Una differenza verificabile è
presente solo nel caso in cui vi sia una differenza nel dato, poiché verificabile indubbiamente non
significa altro che riscontrabile nel dato.”(12)
Quest’ultimo argomento introduce un’ulteriore difficoltà. Come abbiamo detto, infatti, l’atto di
verificazione, almeno in teoria, è sempre possibile; ovvero, quale che sia la sua effettiva possibilità
di attuazione, la verificazione rimane pur sempre concepibile, perché siamo sempre in grado di dire
quali dati di fatto dovremmo esperire affinché se ne compia l’accertamento. Dobbiamo quindi
distinguere tra impossibilità pratica e impossibilità per principio (logica).
Poniamo, per esempio, che qualcuno voglia sostenere l’esistenza, sulla faccia nascosta della luna, di
montagne alte 3000 metri. Un simile enunciato è senza dubbio dotato di senso ed è anche molto
facile immaginare le condizioni che lo verificano: basterebbe imbarcarsi su di un’astronave armati
di metro. Tuttavia, come abbiamo detto sopra, se anche noi sapessimo con tutta certezza che non si
potrà mai andare sulla luna, il senso di questo enunciato non ne sarebbe minimamente intaccato.
Ora, invece, poniamo che qualcuno voglia sostenere l’esistenza, all’interno di ogni elettrone, di un
nucleo, sempre presente, sebbene privo del benché minimo effetto esteriore, di modo che, in natura,
non si manifestino mai segni e prove evidenti di un tale stato di fatto. Ebbene, un’asserzione di
questo tipo è totalmente priva di senso, infatti, in questo caso, l’impossibilità della verificazione non
solo è pratica, ma bensì logica, dal momento che, escludendo completamente la presenza di effetti
che manifestano la presenza di quel nucleo, ogni controllo sulla base del dato viene escluso per
principio.
La differenza tra l’impossibilità per principio e l’impossibilità pratica della verificazione è netta e
molto facile da fissare: i due tipi di impossibilità si differenziano qualitativamente. “Ciò che è
impossibile solo praticamente, rimane tuttavia concepibile. Ma ciò che è logicamente
impossibile,essendo contraddittorio, non può neppure essere pensato.”(13)
“Il nostro punto di vista non rappresenta, dunque, per la scienza qualcosa di estraneo e di curioso.
[…] Consistendo tutta l’attività scientifica nella prova della verità degli enunciati, infatti, il modo di
operare nella scienza contiene un implicito riconoscimento della giustezza della nostra
opinione.”(14)
“Ogni enunciato ha un senso solo in quanto si possa verificarlo. Esso significa solo quanto viene
verificato, e assolutamente null’altro al di fuori di ciò. Se qualcuno afferma che un enunciato
contiene qualcosa di più, allora deve saper dire di che si tratta, deve saper dire che cosa
cambierebbe nel mondo, nel caso che egli stesso fosse in errore.”(15)
Questo punto di vista, dunque, afferma che la verità o la falsità di un enunciato fisico dipendono
solamente dalla presenza di determinate impressioni sensoriali e, nella misura in cui sostiene che
all’infuori dei dati sensibili non può esserci altra fonte di conoscenza, può dirsi positivista. Ora,
ancorché Schlick sostenga che chiunque abbia compreso tale punto di vista non può più nemmeno
concepirla un’altra opinione, vi sarà sempre chi, seppur disposto ad ammettere che la verità di un
enunciato fisico non si possa assolutamente provare altrimenti che con la presenza di determinate
impressioni sensoriali, voglia supporre che, ad ogni modo, con ciò non si sarebbe esaurientemente
stabilito anche il significato dell’enunciato. Costui è il realista, il quale afferma, infatti, che una
proposizione può contenere di più di quanto in essa sia verificabile.
Si apre quindi una contesa, tra realismo e positivismo, che ha per oggetto la contestazione
dell’identificabilità di significato e verificazione; ma a ben vedere si tratta di un’obbiezione che può
nascere solo là dove gli uomini di scienza abbandonano il vero e proprio ambito delle proposizioni
scientifiche e cominciano a filosofare. Nella fisica, infatti, compaiono esclusivamente enunciati che
riguardano la natura e il comportamento di cose o eventi e una esplicita asserzione della loro realtà
non è scientifica, bensì filosofica.
In secondo luogo, se l’obiezione del realista è intesa ad affermare che ogni enunciato su un oggetto
o un evento fisico significa qualcosa di più di quello che può essere verificato mediante una singola
esperienza, il positivista, allora, non potrà che essere d’accordo con lui; infatti, “il senso di un
enunciato fisico non è mai determinato mediante una singola verificazione, ma bisogna
immaginarlo sempre tradotto nella seguente formulazione. Se sono date le condizioni x, allora
ricorrono i dati di fatto y, potendo x includere un numero indefinitamente ampio di condizioni, e la
proposizione rimanere sempre vera.”(16)
Dunque, il dato di fatto singolo non è mai interessante di per sé e uno scienziato, proprio perché il
senso di un enunciato fisico consta sempre di un’infinita catena di dati di fatto verificabili ciascuno
mediante esperienze differenti, sarà decisamente più interessato a conoscere le regole concernenti le
relazioni fra esperienze e secondo le quali queste possono essere previste.
Insomma, il senso di una proposizione su oggetti fisici corrisponde ad una classe infinita di possibili
verificazioni e da ciò consegue, infatti, che una tale proposizione non possa mai essere dimostrata
vera in assoluto: “è anzi riconosciuto universalmente che anche le proposizioni più sicure della
scienza debbono venir considerate solo come delle ipotesi, suscettibili di ulteriori precisazioni e
correzioni.”(17)
Infine, e questa è anche la cosa più importante, “se qualcuno è dell’opinione che il senso di una
proposizione, anziché esaurirsi in ciò che si può verificare nel dato di fatto, abbia una portata che lo
oltrepassa, dovrà tuttavia ammettere che questo qualcosa di più inerente al senso della proposizione
non si può per nulla descrivere, né enunciare in alcun modo, né esprimere in nessuna lingua. Se non
concede questo, allora tenti pure di dirlo! Infatti, nella misura in cui gli riesca di comunicare
qualcosa del suo senso, troverà anche che la comunicazione consiste proprio nel fatto di aver
individuato alcune condizioni che possono servire alla verificazione sul piano dei dati di fatto,
confermando in tal modo la nostra opinione. Oppure, egli crederà di avere espresso il senso, ma una
riprova mostrerà che le sue parole significano solo che vi è ancora qualcosa, sulla cui natura però
non si può dire assolutamente nulla. In effetti, egli non avrà comunicato alcunché, essendo la sua
affermazione sprovvista di senso.”(18)
Nell’esempio del nucleo dell’elettrone, per principio non identificabile, viene illustrato proprio
questo: “non si può asserire che qualcosa esiste senza dire di che cosa si asserisce l’esistenza.”(19)
Per maggiore chiarezza è necessario soffermarsi ulteriormente su questo punto e, seguendo Schlick,
lo facciamo con l’ausilio di un ulteriore esempio di natura molto generale. Poniamo dunque il caso
in cui osservo due pezzetti di carta verde e constato che hanno lo stesso colore. La proposizione che
afferma questa omocromia è verificata dal fatto che io, ad un tempo, ho una doppia esperienza di
uno stesso colore. Questa proposizione ha un senso perfettamente legittimo e, in virtù delle parole
che vi compaiono, questo senso è, per l’appunto, il sussistere di quella omocromia.
Però, se mostrassi uno dei due pezzetti di carta ad una seconda persona e gli domandassi se anche
lei vede il verde esattamente come lo vedo io, cioè se le nostre esperienze cromatiche coincidono,
noi ci troveremmo, per principio, in un caso molto differente da quello considerato in precedenza.
Infatti, se nel primo caso l’enunciato era verificabile mediante un’esperienza di omocromia, ora una
tale verificazione non è più possibile. Il secondo osservatore, a meno che non sia daltonico,
chiamerà anche lui verde quel pezzetto di carta e se io cercassi di descriverglielo accuratamente,
dicendo, per esempio, che è più scuro di quello del cancello, più giallognolo del tappeto, più
bluastro della fodera del cuscino, egli potrà anche concordare con le mie affermazioni e, nella sua
esperienza, verificherà i miei enunciati; ciononostante, se anche tutti i nostri enunciati sui colori
concordassero, io non potrei mai inferire che entrambi esperiamo la stessa qualità sensibile.
“Potrebbe darsi che nel percepire la carta verde egli abbia quell’esperienza cromatica che io
chiamerei rosso e che, viceversa, nei casi in cui io vedo rosso egli esperisca il verde chiamandolo,
ovviamente, rosso, e così via. Anzi, potrebbe addirittura darsi che alle mie sensazioni cromatiche
corrispondessero in lui delle esperienze auditive, o delle altre impressioni sensibili di qualsiasi
tipo.”(20)
Molti filosofi hanno sostenuto che tali diversità soggettive sono teoricamente possibili e che una
simile possibilità sarebbe molto interessante, tuttavia possiamo concludere che di un’ipotesi oziosa
si tratta, visto che per principio non sarebbe mai possibile rilevare queste differenze tra il mio modo
di sentire e quello di un altro e che, inoltre, resta pur sempre altamente probabile che entrambi
esperiamo effettivamente la medesima sensazione (qualitativamente parlando).
Ad ogni modo, ciò che importa, in questo caso, è l’eguaglianza dei diversi ordini sistemici, quindi
“la proposizione per cui due esperienze vissute da soggetti diversi, non solo assumono lo stesso
posto relativo nell’ordine di un certo sistema, ma sarebbero anche qualitativamente uguali, non ha
per noi alcun senso. E si noti bene: non è che sia falsa; è senza senso. Noi non sappiamo affatto che
cosa significhi.”(21)
Affermare che diversi individui esperiscano la stessa sensazione, non vuol dir altro che, il loro
comportamento in relazione a tale esperienza e tutti i loro enunciati relativi a tale sensazione,
mostrano certe concordanze e questo è anche l’unico senso verificabile di una tale affermazione: al
rosso del semaforo ci si ferma e col verde si riparte. Infatti, che l’ordine interno delle nostre
esperienze concordi con quello di qualsiasi altra persona è verificato dal fatto che ci si capisce senza
restrizioni, le nostre opinioni sull’ambiente circostante non divergono mai, entro i limiti della
soggettività, da quelle di qualsiasi altra persona. Il problema, dunque, non sussiste: non si entra mai
nel merito della qualità di queste esperienze, tutto quel che si richiede è che possano ordinarsi
sistematicamente allo stesso modo.
Allora, visto che di una proposizione si può comprendere solo ciò che essa comunica e che un senso
è comunicabile solo quando risulta verificabile, dal momento che le proposizioni sono veicoli di
comunicazione, si può includere nel loro senso solo quanto può essere comunicato. Ben per questo
diciamo che col termine significato si deve intendere sempre e soltanto significato verificabile.
Dobbiamo dunque concludere che una proposizione sull’eguaglianza di esperienze vissute da due
diverse persone non possiede nessun altro senso comunicabile che quello di una certa concordanza
fra le loro reazioni.
“Ma anche nel caso in cui qualcuno volesse rimanere dell’opinione che vi sia un senso non
verificabile, questo non cambierebbe nulla, poiché, in tutto quello che egli direbbe e chiederebbe, e
in tutto quello che noi gli chiederemmo e risponderemmo, un simile senso non potrebbe mai
palesarsi. Ossia, anche se sussistesse una cosa del genere, tutti i nostri discorsi, argomenti e modi di
comportarci ne rimarrebbero affatto indenni, non avendo essa conseguenze di sorta né nella vita
quotidiana, né sul piano etico o estetico, né nella scienza o nella filosofia. Tutto resterebbe
esattamente come se non vi fosse nessun senso inverificabile, perché, non appena qualche cosa
risultasse diversa, esso diventerebbe verificabile, appunto, in base a tale diversità.”(22)
NOTE
(1) “Per comprendere l’essenza della proposizione si pensi alla grafia geroglifica, la quale raffigura i fatti che
descrive. E da essa è nata, senza perdere l’essenziale della raffigurazione, la grafia alfabetica.” - Ludwig
Wittgenstein, Tractatus logiconullphilosophic , u cs it. prop. 4.016
(2) Ludwig Wittgenstein, Tractatus logiconullphilosophic , u cs it. prop. 3. 12
(3) Ludwig Wittgenstein, Tractatus logiconullphilosophic , u cs it. prop. 3.2
(4) Ludwig Wittgenstein, Tractatus logiconullphilosophic , u cs it. prop. 3.201
(5) Ludwig Wittgenstein, Tractatus logiconullphilosophic , u cs it. prop. 3.202
(6) Ludwig Wittgenstein, Tractatus logiconullphilosophic , u cs it. prop. 4.002
(7) Ludwig Wittgenstein, Tractatus logiconullphilosophic , u cs it. prop. 3.01
(8) Ludwig Wittgenstein, Tractatus logiconullphilosophic , u cs it. prop. 3.02
(9) Ludwig Wittgenstein, Tractatus logiconullphilosophic , u cs it. prop. 3.03
(10) Ludwig Wittgenstein, Tractatus logiconullphilosophic , u cs it. prop. 2.201
(11) Ludwig Wittgenstein, Tractatus logiconullphilosophic , u cs it. prop. 4.022
(12) Moritz Schlick, Positivismo e realismo, in Il neoempirismo, a cura di A. Pasquinelli, UTET, Torino
1969, p. 272
(13) Moritz Schlick, Positivismo e realismo, cit. p. 273
(14) Moritz Schlick, Positivismo e realismo, cit. p. 274
(15) Moritz Schlick, Positivismo e realismo, cit. ibidem
(16) Moritz Schlick, Positivismo e realismo, cit. p. 277
(17) Moritz Schlick, Positivismo e realismo, cit. p. ibidem
(18) Moritz Schlick, Positivismo e realismo, cit. p. 278
(19) Moritz Schlick, Positivismo e realismo, cit. p. ibidem
(20) Moritz Schlick, Positivismo e realismo, cit. p. 279
(21) Moritz Schlick, Positivismo e realismo, cit. p. 280
(22) Moritz Schlick, Positivismo e realismo, cit. p. 282
1.2) Realtà e mondo esterno
Ora, dobbiamo tornare alla contesa tra realismo e positivismo e applicare quanto è stato detto al
problema della realtà e del mondo esterno. Dobbiamo chiederci che senso abbia l’asserzione del
realista: esiste un mondo esterno; e quella che il realista attribuisce al positivista: non esiste un
mondo esterno; a tale scopo è necessario mettere prima in chiaro il significato delle parole esiste e
mondo esterno.
“Dire x esiste equivale a dire x è reale. Che cosa, dunque, vogliamo affermare, quando attribuiamo
a un oggetto la realtà? È una tesi già da tempo acquisita, e molto importante, della logica o della
filosofia, che la proposizione x è reale è di tutt’altro genere rispetto ad una proposizione che
attribuisca a x una qualche proprietà (per es. x è duro). In altre parole: la realtà, o l’esistenza, non è
un predicato. L’enunciato il dollaro nella mia tasca è rotondo possiede una forma logica tutt’affatto
diversa dall’enunciato il dollaro nella mia tasca è reale. […] L’esistenza non può essere trattata
come un predicato.”(1)
Come abbiamo detto nel capitolo precedente, l’attuazione di una singola esperienza determinata
nella verificazione di un enunciato sulla realtà è ritenuta insufficiente e si deve necessariamente
ricorrere, infatti, a qualche principio di regolarità: a dei nessi implicanti leggi. Solo procedendo in
questo modo le genuine verificazioni possono essere distinte da illusioni o allucinazioni e, in questo
senso, l’intersoggettività stessa rappresenta la prima forma di controllo.
Insomma, si potrebbe anche ricorre alla suggestiva formulazione di J. S. Mill: i corpi fisici non sono
altro che possibilità permanenti di percezioni; ma è sicuramente più corretto ed appropriato
esprimersi in termini kantiani e dire che l’affermazione della realtà di una cosa è un enunciato su
una classe di esperienze ordinate secondo leggi: dicendo che un certo oggetto è reale, con ciò, non
si intende affermare altro che quell’oggetto appartiene a una classe di percezioni ordinate secondo
leggi. “Quando noi, di un determinato oggetto o evento, da indicarsi mediante una descrizione,
affermiamo che è reale, questo significa che sussiste un nesso ben preciso fra delle percezioni o
altre esperienze, per cui, soddisfatte certe condizioni, seguono certi dati di fatto. Solo così viene
verificata una tale asserzione, la quale, quindi, possiede unicamente siffatto significato.”(2)
Essere reale, in linea di principio, significa sempre stare in un determinato rapporto con i dati di
fatto e questo vale per qualsiasi cosa: per gli oggetti fisici come per le sensazioni, non esistono
diverse specie di verificazione. “La questione circa la realtà di un’esperienza ha senso solo se tale
realtà si possa sensatamente mettere in dubbio. Per esempio, io posso chiedere: è realmente vero
che nell’udire quella notizia ho provato gioia? Questo è verificabile o falsificabile esattamente come
la domanda: è vero che Sirio ha un satellite (che tale satellite è reale)? Che io in una certa occasione
abbia provato gioia può venir verificato, ad esempio, esaminando le asserzioni degli altri sul mio
comportamento in quell’occasione, esibendo una mia lettera scritta allora, o anche semplicemente
riesumando un esatto ricordo dell’emozione provata.”(3)
Ovunque venga usato sensatamente il termine reale ha sempre il medesimo significato. Tanto ai
dati della coscienza, quanto agli eventi fisici, infatti, si attribuisce sempre una realtà della medesima
specie; ma le difficoltà sorgono qui più spinose che mai, visto che abbiamo a che fare proprio con
quell’atteggiamento filosofico responsabile delle più gravi confusioni e incomprensioni:
l’investigazione metafisica, il tentativo cioè di individuare tra i due tipi di essere (immanente e
trascendente) quello autentico. Per quanti sforzi si facciano, tuttavia, non è possibile interpretare
un’asserzione esistenziale altrimenti che come connessione di percezioni.
Questo, almeno, il punto di vista di Schlick, al quale però, come abbiamo visto, l’oppositore può
ancora obiettare che, con un simile modo di procedere, si può pervenire solo a ciò che Kant chiama
la realtà empirica, ossia l’ambito delle osservazioni della vita quotidiana e della scienza, ma che, al
di là di questo limite, ci sarebbe ancora qualcosa: l’autentico mondo esterno, la realtà trascendente,
la sola ed unica ad avere rilevanza per il problema filosofico dell’esistenza di tale mondo. Realtà
“alla quale non si perviene con inferenze logiche in senso stretto e che costituisce, anziché un
postulato dell’intelletto, un postulato della sana ragione.”(4) Ma a questo punto l’analisi abbandona
la questione circa il significato della parola realtà e si rivolge piuttosto a quello dell’espressione
mondo esterno.
L’espressione mondo esterno ricorre, per esempio, nella vita quotidiana e, come per la maggior
parte delle espressioni usate a scopi pratici, ha un senso molto ovvio e facilmente esplicabile: in
opposizione a un mondo interiore fatto di ricordi, pensieri, sogni, desideri, sentimenti, ecc., con le
parole mondo esterno non si designa altro che il dominio dei monti e degli alberi, delle case, delle
bestie e degli uomini; “che cosa significhi affermare l’esistenza di un determinato oggetto di questo
mondo, lo sa ogni bambino.”(5)
Dunque, nell’ambito colloquiale della vita quotidiana, la domanda circa l’esistenza di un mondo
esterno, nella misura in cui, con questa espressione, si intende solo affermare che, oltre ai ricordi, ai
desideri, alle idee, ecc., esistono anche le stelle, le nuvole, le piante, le bestie e il mio corpo; assume
un tono grottesco: rispondere negativamente a questa domanda, infatti, sarebbe per lo meno
assurdo. Ora, tornando alla scienza, dobbiamo chiederci se essa, in opposizione alla vita quotidiana,
quando parla del mondo esterno, intende forse qualcosa di diverso dalle case, dagli alberi, dalle
bestie e quant’altro. Non sono forse gli atomi, i campi magnetici e qualsiasi altra cosa di cui si
occupa la fisica, proprio ciò di cui constano le case, gli alberi, ecc.? In effetti, c’è da dire, per
quanto sottili ed invisibili, l’esistenza delle cose postulate dalla fisica si verifica, per principio,
esattamente nello stesso modo della realtà di un albero o di una stella.
Dunque, “per la soluzione della polemica sul realismo è di estrema importanza che il fisico si renda
esattamente conto che il suo mondo esterno non è altro che quella natura, la quale ci circonda nella
vita quotidiana, e non il mondo trascendente del metafisico.”(6)
Per evidenziare questa differenza è opportuno rivolgersi, ancora una volta, alla filosofia di Kant, la
quale ribadisce che la natura e tutto ciò di cui un fisico può e deve occuparsi appartengono alla
realtà empirica, intendendo con questa espressione quello stato di cose che lo stesso Schlick spiega,
per l’appunto, in termini kantiani.
Ora, per prima cosa, bisogna segnalare che il mondo esterno trascendente, o metafisico, nei vari
sistemi filosofici, è sempre stato concepito come qualcosa che sussiste dietro al mondo empirico,
alludendo, con questa espressione, al fatto che esso si troverebbe al di là di quel limite che separa
l’accessibile dall’inaccessibile e non sarebbe quindi conoscibile nello stesso senso in cui lo è quello
empirico. Questa distinzione nasce dal fatto che si è sempre concepito la conoscenza come una
specie di intuizione, tale da risultare perfetta solo nel caso in cui il conosciuto fosse direttamente
presente al conoscente, sotto forma di sensazione o sentimento. Per questo modo di vedere, quindi,
tutto ciò che non può essere immediatamente vissuto o intuito rimane inconoscibile, inafferrabile,
trascendente, pertinente al regno delle cose in sé.
Come è evidente, non sussiste qui nessun problema, se non, piuttosto, una semplice confusione tra
conoscenza e mera esperienza o apparenza. Saremo infatti tutti d’accordo nel dire che prendere la
scossa non significa affatto conoscere il fenomeno dell’elettricità, ma averne, tutt’al più, una
semplice intuizione; infatti, la conoscenza dell’elettrone non consiste nel suo entrare a far parte in