INTRODUZIONE
“ Se mi ammazzano| o il cuore si lacera, non vi lascio |casa, terreno, danaro. | Amici della terra
che vi ha cresciuti| non sarete paesani di nessuno:| cittadini del mondo, | a disagio| ogni volta vi
chiuderete in nidi. | |Vi sono grato| di non esservi vergognati di me|
quando mi erano contro quasi tutti, | non vi siete infatuati| quando sono capitati applausi. || Ho
cercato con voi intensamente | oltre l'attimo e il giorno. | Forse vi pungerà nostalgia | delle nostre
riunioni, del tentare| di risolvere insieme. |Talora vi ho lasciati troppo soli |a maturare forza- |
talora vi sono stato troppo appresso:| vivere è difficile, temevo|per voi”
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Ho conosciuto personalmente Danilo Dolci nei primissimi anni '90,
in occasione di un seminario sul tema della non violenza, quando già
la sua notorietà era declinata, specialmente in Italia dove, al di là del
sostegno di alcuni grandi intellettuali che, insieme ad altri di fama
internazionale, continuavano a seguire con vivo interesse la sua opera,
il suo nome rimase per lo più confinato alle vicende giudiziarie degli
anni '50 e il suo ricordo legato essenzialmente al suo operato nel
sociale, ricordo vivo specialmente nella memoria di quanti avevano
collaborato con lui o soltanto beneficiato della sua ricerca-azione.
Appena fuori dalle cronache, però, fu presto dimenticato dal grande
pubblico, tanto che oggi non è difficile accorgersi che, tra le giovani
generazioni, solo in pochi sono informati circa la sua impresa e
ancora di meno coloro che hanno avuto sentore dell'importanza della
sua figura, dell'incisività del suo pensiero nell'ambito delle scienze
1 G.Barone, La forza della nonviolenza, Editrice Dante e Descartes , Napoli 2004, pag. 75.
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umane. Negli ambienti pedagogici da tempo se ne discuteva ma senza
una diffusa cognizione di causa, almeno finché non si cominciò a
rivalutare l'importanza della maieutica reciproca nei processi
educativi. Durante quel mio primo incontro, neanch'io, che pure ero
rimasta impressionata dal suo carisma, dalla sua autorevolezza, dal
suo sguardo penetrante che incuteva un certo timore (tanto che non
riuscii a proferir parola, quando, durante le conclusioni del seminario,
mi ritrovai seduta insieme a lui e agli altri astanti intorno alla tavola
rotonda del centro studi “Borgo di Dio”, a Trappeto), neanch'io mi
resi conto fino in fondo della sua grandezza. Nonostante nel corso
degli anni fossi venuta a conoscenza del contenuto della sua opera sia
direttamente, attraverso la lettura di alcuni suoi testi (che “quasi per
caso” mi ritrovai a leggere, come spesso avviene per quella sorta di
alchimia dell'incontro tra il lettore e il libro), sia indirettamente, grazie
ad alcuni corsi di formazione-aggiornamento nei quali però la sua
opera veniva presentata, più che altro, sotto il profilo pedagogico, fu
solo dopo la sua morte che cominciai a sentire la necessità di
avvicinarmi al suo pensiero e alla sua poetica che, in qualche modo, si
accordava con l'idea che negli anni mi ero fatta del mio lavoro di
insegnate (o meglio di educatrice, come direbbe Dolci). Quando
nell'Aprile del 2002 partecipai al seminario “Giornata Maieutica-Il
metodo non violento nell'esperienza di Danilo Dolci”, Danilo non era
più tra noi da cinque anni eppure, come spesso avviene con i grandi
uomini il cui lascito etico e culturale continua ad emanare energia,
come per effetto di un'onda lunga, la sua presenza si percepiva viva e
palpitante, per usare un termine a lui caro. Furono due giorni intensi,
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durante i quali sperimentai, ancora una volta, la positività dei
laboratori maieutici all'interno dei quali era possibile realizzare
autentica collaborazione e cooperazione, sviluppare idee sempre
nuove e sempre passibili di modifiche e aggiustamenti; una sorta di
rilettura e riscrittura della realtà sempre in fieri, in cui assumeva
enorme valore il percorso, ancor prima dell'obiettivo e il modo
dell'agire ancor più che l'agire stesso. Da allora, nel mio viaggio (non
ancora conclusosi) nel mondo dell'educazione, il pensiero e l'opera di
Danilo cominciarono a diventare parte integrante del mio patrimonio
esperienziale, un ulteriore riferimento teorico (insieme ad altri) che
prepotentemente si faceva pratico, ogni volta che entravo in relazione
con le storie, col vissuto di ogni singolo alunno; era lo stesso contesto
in cui agivo a reclamare interventi “animati”, che lasciassero fuori
dalla porta dell'aula ogni dettato puramente astratto o formale, privo di
contenuti significativi. Ora, più che il pericolo di uno stile educativo
unidirezionale, dogmatico, che non avevo mai condiviso e che anzi,
fin dai primi anni della mia carriera lavorativa mi preoccupavo di
combattere alacremente in ogni sua forma (col timore che tale stile
potesse in qualche modo infiltrarsi nascostamente nelle parole, nei
gesti, negli sguardi sbagliati di chi gravitava nell'orbita educativa dei
bambini, non esclusa me stessa), avvertivo una nuova forza, in un
certo senso rasserenante, generata in me dalla consapevolezza che in
ogni caso, una volta avviato il processo maieutico, a regolare il
dialogo, ad aggiustare il tiro, mi avrebbero aiutato i miei stessi
interlocutori, grandi o piccoli che fossero. Insomma, era la maieutica
stessa a venirmi incontro, a offrirmi un nuovo strumento per mettermi
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in discussione, senza dover più temere che potesse crollare l'intero
edificio ma, semplicemente, facendo attenzione a non perdere di vista
le parti eventualmente da rinforzare, da ristrutturare o da rendere,
insieme, più “belle”. Era anche un modo per rivedere la dimensione
personale dell'umiltà, alla quale ora pensavo di dovermi di più
affidare, senza pretendere di essere infallibile, dando spazio a
conseguenze meno logoranti per il mio impegno che richiedeva (e
richiede) energie sempre nuove e alternative, specialmente quando,
per una legge biologica, a sostenere il carico non possono più essere
soltanto le forze fisiche. Ho scelto di accennare al mio incontro con
Danilo Dolci per introdurre il tema della mia tesi, nato dall'esigenza di
indagare più a fondo il suo pensiero e la sua opera che, credo, meritino
oggi molta più attenzione di quanta non ne abbiano ricevuta in
passato. E, considerata la complessità della sua figura, ho voluto
fermare la mia attenzione su un aspetto in particolare, che riguarda l'
etica e la poetica che egli ha posto in essere durante tutta la sua
esistenza e sulla loro intima relazione. Il suo è stato un approccio
filosofico alla vita che credo non possa essere sottovalutato per gli
effetti benefici che ha prodotto, favorendo le condizioni di sviluppo
del potenziale umano. Un interesse, il mio, nato dal bisogno di dare
respiro più profondo alla sua lezione, che mi ha accompagnato non
solo in ambito professionale ma anche e, forse soprattutto,
nell'operazione ininterrotta di scandaglio di me stessa. Mi sembra
quasi di doverglieli questi pensieri, come un ringraziamento postumo
ma spero non tardivo, una “giusta” seppur piccola restituzione di
quanto ho ricevuto.
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Da che cosa nasce, mi sono chiesta, sia nelle società contemporanee
che in quelle passate, il bisogno di alcune persone di “prendere
posizione” in maniera precisa ed evidente, rispetto a determinate
condizioni storico-sociali? Che cosa spinge a operare scelte etiche a
volte rischiose per la propria vita, pur di realizzare il bene comune?
Chi sono le persone più coraggiose che scelgono di portarsi “oltre”,
su quella linea di confine dalla quale incominciare ad avanzare nel
territorio sconosciuto che si apre loro “di-fronte”, quando agiscono
eticamente? Chi agisce eticamente non teme di esporsi, di camminare
in bilico tra il vecchio, il consueto, il già dato e il già fatto e il nuovo,
il non-conosciuto, il non-consueto, l'ancora “da-fare”. Ma questo
nuovo da-fare (nuovo, non tanto assolutamente ma in rapporto a certe
abitudini e dinamiche socio-relazionali consolidate, spesso distorte,
verso cui è rivolta l'azione di cambiamento) è un cieco avanzare che
risponde semplicemente a un istinto? Se così fosse tale istinto non
dovrebbe manifestarsi in tutti, indistintamente? E l'ancora da-fare non
è in qualche modo predeterminato, dal momento che per svilupparsi
attinge al vissuto individuale e all'esperienza collettiva? Domande,
queste, che, come spesso accade nel continuo interrogarsi, rimangono
aperte ma che costituiscono la cifra del pensiero, che offrono un
cominciamento e una direzione, nella ricerca di senso che anima ogni
sincero impegno intellettuale e civile. E' proprio da queste domande
che sono partita, come preliminari per comprendere l'opera di Danilo
Dolci, figura difficile da incasellare quando si cercano definizioni che
ne chiariscano il ruolo in maniera semplice ed evidente, eppure tanto
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carismatica da spingermi a rischiare, da invogliarmi a intraprendere
una lettura trasversale rispetto a un punto di partenza, piuttosto
evidente, che, nell'approccio al pensiero e all'opera di Dolci, non è
difficile individuare nella “maieutica reciproca”. Subito appare
chiaro, dalla lettura della sua biografia, che tutta l'opera dell'autore è
intimamente legata, intrecciata con la sua vita ed è per questo che, in
qualsivoglia approfondimento del suo pensiero, non si può prescindere
dai tratti biografici che ne disegnano i contorni, che ne indicano lo
spessore. E' proprio il suo vissuto, il suo retroterra esperienziale e
culturale, che lo porteranno a elaborare un suo metodo, basato sulla
maieutica reciproca, la cui applicazione non deriva dalla teoria ma
dall'immersione nei fatti; ossia, è dall'analisi delle situazioni,
dall'interrogare la realtà stessa che Dolci, come chiarirò più avanti, fa
emergere i bisogni e, in base alle urgenze che questi implicano, le
possibili soluzioni. Nella sua opera assumono importanza rilevante i
nessi, le interconnessioni fra diversi e diverse realtà, che egli legge
con occhio critico e vive con atteggiamento creativo. Per Dolci si
diventa se stessi attraverso la circolarità di pensiero e azione,
attraverso rapporti orizzontali con gli altri, col mondo naturale e con le
culture. Il cambiamento sociale in cui egli crede è fortemente legato al
cambiamento delle coscienze o, meglio, allo sviluppo
dell'autocoscienza, fondamentale per passare da una dimensione
individuale a una collettiva, da una singolare a una plurale. Di questo
argomento tratterò nel secondo paragrafo del primo capitolo, in cui ho
voluto mettere in evidenza l'importanza delle domande nel metodo
maieutico reciproco, per incominciare ad attivare il processo di
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