4
Il primo capitolo si apre con una paragrafo interamente dedicato al concetto di strategie di
internazionalizzazione ed i vari punti di vista presi in esame risultano accomunati da un tema,
ovvero che tutte le definizioni di strategia hanno a che fare con la direzione futura di
un’organizzazione e con la creazione di una mappa per guidare l’organizzazione verso quel futuro,
e si precisa la definizione di quello che è il fulcro di tutta la trattazione, l’internazionalizzazione
attiva, che si ha quando l'impresa è in grado di riferire all'estero almeno la fase distributiva della
propria attività economica ed è parte promotrice dei propri prodotti. Segue poi una rassegna delle
varie teorie e la prima chiave di lettura del fenomeno dell’internazionalizzazione è offerta dalla
teoria economico-aziendale volta a spiegare lo sviluppo internazionale delle imprese americane tra
il Dopoguerra e gli anni Settanta che ha dato origine alla teoria del ciclo di vita del prodotto alla
teoria dei vantaggi monopolistici e all’approccio dei costi di transazione; nella teoria
dell’internazionalizzazione vengono ripresi i contributi degli autori che avevano analizzato lo
strumento dei costi transazionali offrendo però, rispetto a questi ultimi, un approccio più sistematico
per poter così giungere ad una teoria generale dell’internazionalizzazione; la formulazione
dell’approccio “eclettico” opera un importante sviluppo della teoria dell’internazionalizzazione,
introducendo nello schema interpretativo variabili di tipo localizzativo, riferite alle caratteristiche
macroeconomiche ed istituzionali dei paesi; infine vi è il contributo delle scuola giapponese che ha
origine attorno alla metà degli anni Settanta dai contributi di Kojima , secondo cui il modello
dell’IDE giapponese, definito trade-oriented, si differenzia profondamente dal modello statunitense,
definito anti-trade-oriented. Da tutti questi approcci strategici è possibile individuare uno scema
evolutivo dell’internazionalizzazione.
Nel secondo capitolo l’analisi si sposta sulle quattro principali strategie che un’impresa che vuole
internazionalizzarsi può adottare ossia: l’esportazione, diretta o indiretta, quale modalità di ingresso
più semplice nei mercati esteri consistente nella vendita all’estero del prodotto, e le varie soluzioni
cui l’azienda può fare ricorso; la produzione all’estero con e senza investimento diretto all’estero e
le varie forme tra cui l’azienda può individuare la soluzione ad hoc per la strategia individuata.
Il terzo capitolo viene esaminato il contesto italiano: l’Italia esibisce uno scarso livello di
integrazione internazionale della produzione, se tale caratteristica viene misurata esclusivamente
attraverso il valore degli investimenti diretti infatti genera una quota solamente dell’1,6% del totale
della internazionalizzazione attiva mondiale e nella graduatoria relativa alla presenza all’estero
delle imprese multinazionali in base al paese di appartenenza occupa solamente il 13° posto e la
Lombardia è tra le dieci regioni più sviluppate d’Europa, superando addirittura in termini di
prodotto complessivo ben diciassette paesi su 25 dell’Unione Europea.
5
L’ultimo capitolo è dedicato al caso aziendale dell’elaborato, la PH&T S.p.a., preso come esempio
di azienda a capitale sociale interamente italiano che opera a livello internazionale adottando una
strategia senza investimento diretto avvalendosi dello strumento del licensing.
6
1. LE STRATEGIE DI INTERNAZIONALIZZAZIONE
1.1. IL CONCETTO DI STRATEGIE DI INTERNAZIONALIZZAZIONE
Nel 1980 Michael Porter pubblicò negli Stati Uniti la prima edizione del suo lavoro principale “La
strategia competitiva”
3
che ridefinì le regole fondamentali a cui tutti coloro che si interessavano di
strategia avrebbero dovuto rifarsi. Due anni più tardi, Tom Peters e Robert Waterman pubblicarono
“In Search of Excellence”
4
che divenne rapidamente un punto di riferimento per i manager di tutto
il mondo.
Da tali approcci iniziali sono passati oltre vent’anni ed il concetto di strategia continua a rimanere al
centro del dibattito sul management e non si è ancora in grado di dire con più sicurezza di quanto
non abbiano fatto in passato quali siano i fattori che determinano il successo di un’organizzazione.
Esistono molti punti di vista differenti, accomunati da un tema: tutte le definizioni di strategia
hanno a che fare con la direzione futura di un’organizzazione e con la creazione di una mappa per
guidare l’organizzazione verso quel futuro. La strategia, quindi, ha a che vedere con la messa a
punto di una lettura della situazione presente (“dove ci troviamo in questo momento”), la posizione
che si desidera raggiungere in futuro (“dove vogliamo andare”) e il percorso che occorre
intraprendere per portare l’organizzazione dal presente al futuro (“come ci arriviamo”).
5
A livello accademico ci sono molte definizioni di strategia, scaturite nel corso degli anni dalle
diverse scuole di pensiero. Ciascuna di queste pone l’accento su altrettanti modi di vedere, più o
meno di successo, rivelando però sempre una visione parziale del fenomeno, come a dire che la
strategia può essere spiegata da ciascuna di esse, ma mai completamente.
Le diverse concezioni di strategia, alla base delle moderne tecniche di gestione, possono
riassumersi in 5 parole simbolo ovvero le 5 P di Mintzberg
6
:
1. Plan (piano);
2. Pattern (modello);
3. Perspective (prospettiva);
4. Position (posizione);
5. Ploy (manovra).
3
Porter (2004).
4
Peters, Waterman (2005).
5
Middleon (2007), pag. XII.
6
Mintzberg, Lampel , Quinn, Ghoshal (2003), pag. 3-9.
7
1. Plan: per alcuni la strategia è in sostanza una sequenza di decisioni, arricchite da vari
strumenti di analisi, rese pubbliche attraverso un documento strategico che metta nero su
bianco. Piano è la definizione più semplice e più immediata, ma anche quella che confonde
di più. In realtà la strategia non è il piano, ma il suo contenuto ovvero il contenuto e la
logica che sottende alla sequenza di decisioni descritte nel piano stesso. Il piano è la cornice
che contiene la strategia.
2. Pattern: definire la strategia come un piano non è sufficiente perché bisogna prendere in
considerazione anche il risultato comportamentale per cui il modello è quel corso d’azione
strutturato, caratterizzato da regolarità e forme ricorrenti. La strategia è la risultante delle
azioni degli uomini ma non dei loro disegni (Hume
7
): la scoperta dei fini avviene nel corso
dell’azione per cui la strategia è emergente ed i piani servono a dare senso all’azione, ma
non necessariamente si realizzano o vengono seguiti (razionalità ex post).
3. Perspective: secondo questo concetto la strategia sta nella testa e nella “visione” dei
manager o dell’imprenditore. In questo modo la strategia guarda “in alto”, cioè alla
prospettiva che ci si immagina per il futuro, mantenendo l’attenzione rivolta esclusivamente
all’interno dell’azienda. I fattori esterni (ambiente, mercato, clienti, fornitori, ecc) non hanno
un gran peso nel guidare le azioni dell’azienda.
4. Position: per alcuni la strategia consiste nel posizionare prodotti specifici in mercati
specifici. In questi casi si dice che la strategia guarda “in basso” verso il luogo in cui il
prodotto incontra il consumatore (cliente), con l’attenzione questa volta rivolta all’esterno
dell’azienda (mercato).
5. Ploy: la strategia è in questo caso intesa come una manovra voluta e pensata per contrastare
un concorrente e quindi per conquistare / mantenere quote di mercato. Per esempio: se
un’azienda fa intendere di voler aumentare la propria capacità produttiva per scoraggiare un
potenziale nuovo entrante a realizzare uno stabilimento o ad entrare sul mercato, sta
compiendo esattamente quello che si intende per ploy. Dare a vedere per scoraggiare i
concorrenti, indipendentemente dall’effettiva realizzazione totale o parziale di ciò che si da
ad intendere.
Dal punto di vista di Quinn
8
, una strategia è il modello o piano che rende gli obiettivi principali, le
potiche aziendali ed i programmi di un’organizzazione un unicum coeso.
Si può concludere che “la strategia è quel sistema di scelte e di azioni che determina simultaneamente
e dinamicamente l’equilibrio strutturale dell’impresa sul mercato di sbocco, sui suoi diversi mercati di
7
Mintzberg, Lampel , Quinn, Ghoshal (2003), pag. 5.
8
Mintzberg, Lampel , Quinn, Ghoshal (2003), pag. 10.
8
rifornimento e rispetto ai suoi principali interlocutori non commerciali: equilibrio che assicura
all’impresa sopravvivenza e sviluppo ”
9
.
La crescente tendenza alla globalizzazione dei mercati, porta le imprese ad analizzare con attenzione
la possibilità di internazionalizzarsi. Le imprese rivolgono particolare attenzione a fenomeni quali
l’assottigliamento delle differenze culturali, la maggior varietà della domanda, il livellamento dei
redditi pro/capite dei Paesi più sviluppati e l’adattamento dei mercati locali: si tratta in effettti di
fattori sfruttabili dalle imprese per migliorare la propria performance
10
. In particolare, lo sviluppo
tecnologico (che ha come punto di forza la maggior diffusion potenzialmente possibile a livello
mondiale rispetto a qualsiaisi altro fattore), la convergenza dei bisogni dei consumatori, lo sviluppo di
mezzi di trasporto e di comunicazione sempre più avanzati (che consentono un accesso facilitato, sia
in termini di costi che in termini di tempo, ai mercati di sbocco), ed infine la riduzione delle barriere
istituzionali al commercio internazionale, sono tutti fattori che spingono le imprese verso
l’internazionalizzazione
11
.
Ma cosa si intende per internazionalizzazione?
Diverse sono le accezioni con cui viene inteso il termine internazionalizzazione.
1) Per "processo di internazionalizzazione" si intende quell processo che si articola in due percorsi:
quello dell'orientamento al marketing internazionale e quello dell’orientamento al commercio
internazionale.
La modalità del commercio internazionale è anche detta internazionalizzazione passiva, mentre quella
del marketing internazionale corrisponde all'internazionalizzazione attiva.
L'impresa è in condizioni di internazionalizzazione passiva quando sono gli altri operatori economici
(buyer, importatori, distributori) che trovano conveniente comprare il prodotto di un determinato
paese. Infatti, avviene che nel paese di origine i prodotti siano comprati dai buyers delle
multinazionali o da esportatori nazionali oppure che nel paese di destinazione i prodotti siano
comprati da importatori o da distributori. Da questa analisi si ricava che i caratteri fondamentali e
distintivi di tale forma di processo di internazionalizzazione sono:
ξ la saltuarietà dei rapporti commerciali ;
ξ l'assenza della ricerca del cliente ;
ξ la mancanza della conoscenza del mercato ;
ξ la non attuazione di una politica promozionale ;
ξ la presenza di un buyer o di un esportatore/importatore, che si accolli il rischio di collocazione
del prodotto sul mercato.
9
Demattè, Perretti (2002a), pag. 15.
10
Sicca (1994), pag 7.
11
Leontiades (1985), pag. 23.
9
Tale forma sarà dunque utile per l'impresa qualora si verifichino dei surplus produttivi.
Si parlerà di internazionalizzazione attiva, invece, se l'impresa è in grado di riferire all'estero almeno
la fase distributiva della propria attività economica ed è parte promotrice dei propri prodotti. Infatti,
gli agenti e commissionari all'export operano nel paese d'origine per conto dell'impresa produttrice e
quindi si occupano di cercare i clienti sul mercato non domestico, mentre nel paese di destinazione
l'impresa agirà mediante agenti di vendita, distributori grossisti e distributori finali. Anche qui è
possibile ricavare i caratteri fondamentali di tale forma di internazionalizzazione, i cui caratteri sono:
ξ la sistematicità dei rapporti commerciali;
ξ la selezione dei mercati di sbocco della propria offerta;
ξ la ricerca della clientela "target";
ξ l'utilizzo di politiche promozionali.
2) Altra accezione di internazionalizzazione è quella che emerge dalla teoria "classica" e dalle Nuove
Forme di internazionalizzazione.
La teoria "classica" statunitense prende vita dall'esperienza di espansione all'estero delle attività delle
imprese multinazionali americane, nel periodo compreso tra gli anni 1950 e 1970
12
.
Gli obiettivi perseguiti attraverso l’internazionalizzazione sono simili per tutte le imprese e sono
riconducibili a diverse categorie:
a) obiettivi che dipendono dal microambiente;
b) obiettivi che dipendono dal macroambiente.
a) obiettivi che dipendono dal microambiente:
• ottenere una maggior efficienza ed efficacia nel servire la clientela estera
13
;
• seguire i propri client, che diventano sempre più cittadini del mondo, in modo da aumentare la
fedeltà al brand
14
;
• contrastare i concorrenti sotto tutti i fronti e in tutti i mercati in cui questi operano con lo scopo
di non perdere quote di mercato
15
;
• l’esigenza di difendere l’impresa dall’ingresso di un concorrente nel proprio mercato spinge ad
affrontarlo nel mercato internazionale
16
;
• il raggiungimento di dimensioni maggiori per poter ottenere sempre più volumi in modo da
poter sfruttare vantaggi di scala, di apprendimento, di scopo e di flessibilità ;
• il consolidamento della propria presenza a livello internazionale creando un’immagine
12
Vedi Par 1.2.
13
Valdani, Guerini, Bertoli (2000), pag 35.
14
Root (1987), pag. 87.
15
Depperu (1993), pag 76.
16
Root (1987), pag. 89.
10
sovranazionale dell’impresa
17
;
• la possibilità di commercializzare all’estero gli eccessi di capacità produttiva;
b) obiettivi che dipendono dal macroambiente:
• ridurre i rischi e aggirare le barriere legislative e tariffarie collaborando con le imprese
operanti nel Paese ospite
18
;
• la saturazione del mercato nazionale e la riduzione dei tassi di crescita di questo portano
l’impresa alla ricerca di nuove opportunità
19
;
• il clima competitivo del mercato di origine si fa sempre più aspro
20
;
• cogliere le opportunità che i mercati stranieri offrono ottenendo numerosi vantaggi, derivanti
soprattutto dall’utilizzo di risorse produttive locali a costi inferiori
21
;
• lo sfruttamento di sinergie tecnologiche, produttive e commerciali ottenute attraverso la
collaborazione con imprese straniere
22
;
• l’accesso al mercato internazionale dei capitali
23
.
L’impresa si internazionalizza quando ha la consapevolezza che il raggiungimento dei propri obiettivi
è strettamente correlato al contributo derivante dalle attività estere.
1.2. LE PRINCIPALI TEORIE SULL’INTERNAZIONALIZZAZIONE
Storicamente il primo e più semplice strumento con cui le imprese si sono internazionalizzate è
costituito dalle esportazioni (“forma mercantile” dell’internazionalizzazione) e successivamente si è
affermata la forma definita “produttiva” che consiste nel trasferimento, da parte delle aziende, di
risorse e capacità dal paese di origine ad un altro paese. L’internazionalizzazione si è manifestata
inizialmente con le modalità “classiche” pertanto tramite la realizzazione di investimenti diretti
all’estero per poi giungere ad assumere anche connotazioni innovative (“nuove forme”) quali le
differenti forme di accordi.
I processi propri delle forme classiche sono immediatamente quantificabili grazie ad indicatori
facilmente reperibili ed identificabili quali le esportazioni e gli investimenti diretti all’estero anche
se sono affrontati da punti di vista diversi.
17
Depperu (1993), 81.
18
Leontiades (1985), pag 65.
19
Root (1987), pag. 94.
20
Bradley (1999), pag. 123.
21
Plenert (2002), pag. 112.
22
Sicca (1994), pag.10.
23
Valdani, Guerini, Bertoli (2000), pag. 42.
11
La prima chiave di lettura del fenomeno dell’internazionalizzazione è offerta dalla teoria
economico-aziendale che deriva soprattutto dagli apporti dell’ambiente accademico anglosassone
volti a spiegare lo sviluppo internazionale delle imprese americane tra il Dopoguerra e gli anni
Settanta e che hanno fornito una serie di strumenti concettuali, dalla teoria del ciclo di vita del
prodotto alla teoria dei vantaggi monopolistici all’approccio dei costi di transazione. Tale gruppo di
teorie rappresenta la base di partenza per comprendere tutti i processi d’internazionalizzazione
anche odierni ma presenta un limite legato all’assenza di considerazioni circa l’evoluzione
strategica ed organizzativa che ha accompagnato questi processi.
Infatti, a partire dagli anni Settanta, sono emerse le “nuove forme” d’internazionalizzazione ed i
“processi di globalizzazione” che hanno rivoluzionato le modalità d’internazionalizzazione e che
sono stati analizzati dagli studiosi di strategia aziendale. I mutamenti a livello strategico ed
organizzativo hanno determinato il ricorso crescente a strumenti di tipo collaborativo.
1.2.1. LA TEORIA DEL CICLO DI VITA DEL PRODOTTO
Il primo tentativo di interpretazione dei processi di intrernazionalizzazione risale alla teoria del ciclo
di vita del prodotto formulata inizialmente da Vernon
24
nella seconda metà degli anni Sessanta. Egli
analizza il caso delle imprese americane individuando le motivazioni alla base della più alta
propensione all’innovazione mostrata dall’industria statunitense rispetto a quella degli altri Paesi
ovvero la presenza di fattori strutturali propri dell’economia americana: elevato tasso di crescita del
reddito medio dei consumatori e alto costo del lavoro, condizioni sicuramente valide all’epoca in cui
si scriveva.
L’idea di fondo è che esista una stretta relazione tra ciclo di vita del prodotto, caratteristiche dei paesi e
l’espansione internazionale delle imprese.
Vernon parte dalla constatazione del fatto che gli Stati Uniti si trovano in una situazione particolare rispetto al
resto del mondo. Ciò emerge allorché si abbandoni l'ipotesi che la conoscenza sia un bene disponibile a tutti
senza problemi. Le imprese statunitensi oltre che avere più facile accesso alle più prestigiose università del
mondo (in quanto per esempio più facilmente di altri paesi sono in gradi di assumere personale che in queste
università ha lavorato) e quindi ad essere maggiormente in grado di percepire le opportunità aperte dagli
sviluppi della fisica, della chimica e delle scienze biologiche ecc., sono anche a diretto contatto con il mercato
interno più avanzato del mondo, che quindi conoscono bene. Tale mercato è caratterizzato da:
1) alto livello di reddito pro-capite dei consumatori;
24
Vernon (1966), pag. 190-207.
12
2) abbondante capitale e alto costo del lavoro.
Queste due caratteristiche determinano esigenze particolarmente avanzate da parte dei consumatori. Vernon
sottolinea come negli anni ’50 e ‘60 i consumatori americani fossero all’avanguardia nell’adottare la lavatrice o
le magliette che non si stirano e le imprese nell’introdurre macchinari automatici sostitutivi di lavoro. Le
imprese USA sono quindi in grado di capire l'opportunità di trasformare le nuove conoscenze in nuovi prodotti
commerciabili, prima delle imprese di altri paesi. La comunicazione col mercato potenziale spinge ad innovare
e sviluppare nuovi prodotti. Non a caso negli Stati Uniti e non altrove sono state create la macchina per cucire,
la macchina da scrivere, il trattore ecc. Così, per quanto riguarda la plastica, il suo sviluppo in Germania può
essere associato alla mancanza di materie prime e quindi alla percezione da parte delle imprese tedesche di
un'esigenza particolarmente forte del mercato locale.
In complesso, l'ipotesi di base del modello è che i produttori USA sono probabilmente i primi ad accorgersi
dell'opportunità di introdurre nuovi prodotti destinati a consumatori ad alto reddito e a sostituire lavoro. Oltre ai
costi dei fattori, forze localizzative potenti sono i problemi di comunicazione col mercato e le economie esterne,
queste ultime intese come l’accesso alle fonti di nuove conoscenze e di capitale umano più avanzato.
In sintesi, il modello propone una dinamica localizzativa articolata su quattro fasi (Fig. 1).
Nella prima fase (introduzione del prodotto sul mercato) il prodotto, introdotto nel paese dal mercato più
avanzato, è nuovo e non standardizzato. Il suo disegno è ancora incerto, come nel caso delle prime automobili,
prima dell'affermazione della carrozzeria metallica. Anche le tecniche di produzione sono in uno stato fluido, e
l'ottimizzazione dei costi è un problema che ancora non sussiste. C'è molta incertezza sulle dimensioni finali del
mercato, sugli sforzi che faranno i rivali per accaparrarselo, sulle specifiche del prodotto che prevarranno. E' più
importante per l'impresa la capacità di essere flessibile, di sperimentare vari modelli e materie prime e di
apprendere, che non di ottimizzare. L'elasticità al prezzo del prodotto è bassa e le differenze di costo contano
ancora poco. E' invece importante una localizzazione che favorisce un'immediata comunicazione col mercato e
quindi l'impresa first comer sarà in esso localizzata, presto seguita da imitatori locali.
Successivamente, nella seconda fase (sviluppo) si afferma uno standard di base, anche se ciò non implica
uniformità in quanto si possono moltiplicare le tipologie e le varianti di prodotto (per esempio, si afferma
l'automobile con carrozzeria metallica, ma al tempo stesso il mercato si suddivide nei vari segmenti delle
automobili sportive, di piccola cilindrata ecc.). La domanda cresce rapidamente. Diminuisce il bisogno di
flessibilità. Si ricercano e si affermano economie di scala. Il problema dei costi diventa significativo. Si
riducono le incertezze anche se non c'è ancora una vera concorrenza di prezzo. Comincia a manifestarsi una
domanda del prodotto anche in altri paesi, quelli a più alto reddito e più simili agli Stati Uniti anche in termini di
alto costo del lavoro.
Si comincia quindi ad esportare, in teoria fino a che, supponendo che le capacità produttive non siano
pienamente utilizzate per soddisfare il mercato interno, la somma dei costi di trasporto più i costi marginali di