5
avevano formato delle vere e proprie comunità etniche all’interno dei
paesi ospiti, iniziarono a porsi con insistenza le questioni relative
all’integrazione degli immigrati nelle società europee [Collinson,
1993].
È proprio sulle risposte a queste necessità da parte dei i vari paesi
europei, e in particolare della Svezia, che si basa il nostro studio. Ho
scelto di occuparmi del caso svedese soprattutto perché, grazie alla
mia esperienza come studente Erasmus/Socrates all’Università di
Bergen, in Norvegia, avevo avuto modo di entrare in contatto diretto
con la società e la cultura scandinave. Il mio programma didattico,
basato in parte sullo studio dei sistemi politici dei paesi nordici, mi
aveva poi dato modo di entrare in possesso di materiale, che
difficilmente avrei potuto reperire attraverso altri canali. Spero che la
scelta di questo argomento sia stato un buon modo di mettere a frutto
la mia esperienza.
Prima di passare alla presentazione del nostro lavoro, sono
necessarie alcune precisazioni di carattere metodologico. Innanzitutto,
si tratta di un studio del caso singolo di tipo esplicativo, in quanto
cercheremo di spiegare le specificità del caso svedese facendo ricorso
a generalizzazioni esistenti in letteratura. Va comunque precisato che,
nel campo specifico dello studio delle politiche relative agli immigrati,
è difficile trovare vere e proprie teorie, intese come “una serie di
generalizzazioni connesse organicamente” [Bartolini, 1986]: tutt’al
più, ci si trova di fronte a indicazioni di possibili relazioni causali tra
variabili. Per non rischiare di andare oltre le nostre possibilità, ci
accontenteremo quindi di cercare di avere una visione il più completa
possibile dei fattori che possono avere influito sulle variabili oggetto
del nostro studio, cioè le politiche svedesi relative agli immigrati. La
presentazione dei casi francese e tedesco sarà utilizzata soprattutto per
far risaltare, attraverso il confronto diretto, le specificità del caso
svedese, e per individuare quei fattori che hanno un più alto potenziale
esplicativo.
È infine importante un chiarimento riguardo al significato di
alcuni concetti. L’oggetto del nostro studio saranno le “politiche
6
relative agli immigrati”, per le quali si intende l’insieme delle “misure
politiche relative alle condizioni offerte agli immigrati residenti”
[Entzinger, 1987: 182]. Malgrado questo termine possa a prima vista
apparire come un sinonimo di “politica di integrazione degli
immigrati”, esso non lo è, in quanto, come vedremo successivamente,
i governi non sempre mirano inequivocabilmente all’integrazione dei
loro immigrati residenti. Il termine è inoltre distinto da quello di
“politica di controllo dell’immigrazione”, riferito all’insieme dei
“principi e delle norme che regolano l’ingresso degli immigrati”
[Ring, 1995: 159]. Politiche relative agli immigrati e politica di
controllo dell’immigrazione sono poi i due aspetti distinti che
compongono la “politica migratoria”. Nell’ambito del nostro lavoro,
terremo comunque conto del fatto che questo tipo di distinzioni opera
più sul piano teorico che su quello pratico, e che è necessario tenere a
mente la reciproca influenza che lega i due aspetti, se si vuole ottenere
un approccio completo ed esauriente.
7
Parte Prima
IL CASO SVEDESE
8
Capitolo 1
IL MODELLO SVEDESE
————————————————————
A partire dagli anni della Grande Depressione, e quindi in
concomitanza con la nascita e lo sviluppo dei moderni sistemi di
welfare state, le strutture politiche dei paesi scandinavi (Svezia,
Norvegia, Danimarca e Finlandia), in particolare quello della Svezia,
hanno via via acquisito una serie di caratteristiche proprie all’interno
del panorama europeo. L’armoniosità delle relazioni tra i gruppi
sociali e l’inclusività ed efficienza dello Stato sociale, ma anche
l’oppressività degli apparati statali e burocratici, sono state indicate
come le principali caratteristiche di questo sistema, descritto come una
sorta di terza via tra socialismo e capitalismo, tra economia di mercato
e pianificazione centralizzata. Le relazioni politiche all’interno di
questi paesi sono state così definite con i concetti di “modello
svedese” o “modello nordico”.
Nel mondo scandinavo, la Svezia ha sempre costituito la “matrice”
e il precursore degli altri paesi, nonché il sistema che presenta le
maggiori specificità: il settore pubblico più esteso, i sindacati più
influenti e il partito Socialdemocratico più potente di tutta la
Scandinavia sono svedesi [Petersson, 1994]. In questo capitolo,
descriveremo lo sviluppo e i tratti del modello svedese, ponendo
maggiormente in risalto quegli elementi che più saranno utili allo
scopo del nostro lavoro.
9
1.1 Premesse storiche
Alla fine del Diciannovesimo Secolo, la Svezia era ancora agli
albori del processo di industrializzazione. Essa presentava però alcuni
tratti caratteristici che ne avrebbero profondamente influenzato lo
sviluppo; non sarebbe possibile comprendere appieno la specificità del
modello svedese senza un breve esame di questi tratti.
Innanzitutto, la popolazione svedese era estremamente omogenea,
in termini di religione e cultura: una religione, quella protestante
luterana, ed una cultura ad essa correlata, che avevano determinato la
totale fusione tra strutture ecclesiastiche e strutture statali; inoltre, le
strutture sociali preindustriali erano relativamente egalitarie, e la
società civile, e le organizzazioni volontaristiche che la componevano,
erano relativamente deboli. Erano quindi del tutto assenti quelle
strutture che, nel momento in cui le prime concezioni di welfare state
apparvero nell’Occidente, avrebbero potuto porsi in alternativa
credibile allo Stato come welfare providers: non vi erano né chiese, né
associazioni di categoria, né partiti politici, che avessero mai
annoverato tra i propri scopi la salvaguardia del benessere dei propri
affiliati, e che potessero mettersi in competizione con lo Stato in
questo compito [Kuhnle, 2000].
La Grande Depressione, in tutti i paesi industrializzati, costituì uno
degli impulsi verso le prime forme di intervento statale nell’economia.
In Svezia, la risposta alla crisi fu essenzialmente di carattere
corporativo. L’accordo del 1933 tra il Partito Socialdemocratico
(Sveriges Socialdemokratistika Arbetarparti, SAP) e il Partito Agrario
(Centerpartiet, CP), e quello, siglato nel 1938, tra la Confederazione
dei Sindacati Svedesi (Landsorganisationen i Sverige, LO) e la
Confederazione degli Industriali Svedesi (Svenska
Arbetsgivareföreningen, SAF), stabilizzarono le condizioni,
rispettivamente, nell’arena politica e nel mercato del lavoro: ambedue
rappresentarono le premesse fondamentali per il futuro sviluppo del
modello svedese [Hadenius, 1995]. Il primo, oltre ad inaugurare
l’inizio di una presenza al governo della SAP che sarebbe durata
ininterrottamente per quarant’anni, servì a creare la base di consenso
10
politico necessaria all’approvazione di un insieme di riforme noto
come la “Casa del Popolo” (folkhemmet). Esso comprendeva fondi per
la costruzione di abitazioni, sussidi di disoccupazione, un sistema
pensionistico governativo e aiuti alle famiglie; i costi di queste riforme
furono coperti dall’innalzamento della tassazione progressiva su
reddito, eredità e patrimonio. L’accordo tra sindacati e industriali creò
invece le condizioni per un periodo caratterizzato dalla quasi assenza
di conflitti sociali, anche grazie alla nomina di un Consiglio del
Mercato del Lavoro, comprendente sia rappresentanti della SAF che
del LO, che avrebbe agito da interlocutore esclusivo del governo,
tenendo così le issues relative al mercato del lavoro al di fuori
dell’arena politica.
Gli anni cinquanta e sessanta furono il periodo di apogeo e di
maggior prestigio internazionale del sistema svedese. Il grande
consenso politico, l’armonia tra sindacati, industriali e partiti di
governo, e la rapida crescita economica, hanno permesso la
costruzione passo dopo passo del welfare state più ampio e generoso
d’Europa. Attraverso una progressiva espansione delle garanzie della
folkhemmet, il sistema del welfare svedese si è esteso fino a coprire gli
ambiti più disparati. In aggiunta a questo, mentre il requisito per
ottenere i benefici della folkhemmet era sempre stata la certificazione
di nullatenenza, le riforme del dopoguerra furono dirette a tutta la
popolazione, senza alcuna distinzione di reddito. La nuova concezione
socialdemocratica del välfärds-staten
1
dava la priorità alla creazione
di una “rete di sicurezza” per tutti; i cittadini che disponevano di
maggiori ricchezze avrebbero semplicemente contribuito al benessere
collettivo in misura maggiore, mediante il meccanismo della
tassazione progressiva.
È altresì importante notare come queste politiche non coincisero
affatto con una “socializzazione” della società svedese: non vi furono
nazionalizzazioni su larga scala, né pianificazioni economiche. Anche
1
Questa parola, tradizionalmente tradotta con welfare state, ha nella lingua inglese un’accezione
negativa che manca totalmente in quella svedese. In Inglese, è associata all’idea di assistenza
sociale per i più bisognosi: in Svedese, è invece legata a quella di benessere e prosperità.
11
se l’alto livello della tassazione andò inevitabilmente ad influenzare
l’utilizzo delle risorse, la ricchezza fu in massima parte prodotta da
imprese private, e il meccanismo di mercato e la proprietà privata dei
mezzi di produzione non furono mai messi in discussione: questo ha
sempre mantenuto la Svezia lungi dall’essere assimilabile ad una
“democrazia popolare” del tipo presente in Europa Orientale [Ervik e
Kuhnle, 1996]. Per quanto riguarda il mercato del lavoro, dagli anni
cinquanta, l’obiettivo principale seguito dai sindacati fu la cosiddetta
“politica dei salari di solidarietà”, cioè l’idea che i salari dei lavoratori
dovessero essere uguali all’interno dei vari settori dell’industria;
questo spinse verso l’utilizzo sempre più frequente di contrattazioni
collettive e centralizzate a livello nazionale [Hadenius, 1995].
Gli ambiti coperti dal welfare svedese possono essere classificati
in alcune aree [Gynnerstedt, 1997]: la Sicurezza Sociale comporta
compensazioni per i lavoratori in tutta una serie di circostanze
connesse con la perdita di reddito, incluse pensioni d’anzianità,
indennità per infortuni sul lavoro e malattie, sussidi di disoccupazione,
assegni familiari; i Servizi Sociali comprendono servizi diretti ad
anziani e disabili (tra cui la pulizia domestica, la distribuzione dei
pasti, la cura residenziale e l’istituzione di centri diurni), e altri con
una portata più ampia (ad esempio, i trasporti pubblici o la rimozione
della neve); i Sussidi agli Alloggi sono costituiti una serie di
programmi pubblici per finanziare la costruzione di abitazioni
moderne e fornire alti standards abitativi; la Sanità Pubblica, è
completamente gratuita; l’Istruzione, obbligatoria dai 7 ai 16 anni è
completamente gratuita, anche nei gradi superiori, e comprende sia
l’assistenza per corsi di riqualificazione professionale diretti a
disoccupati e lavoratori, sia il finanziamento di centri per la ricerca
universitaria.
I primi trent’anni del dopoguerra sono stati quelli in cui il modello
svedese ha preso forma, e in cui la sua peculiarità è stata riconosciuta
a livello internazionale: sono stati gli anni del predominio
socialdemocratico, della continua espansione del welfare e dello
sviluppo di una concezione di cittadinanza che comprendeva aspetti
12
del tutto nuovi e specifici. Vale dunque la pena di soffermarci su
questo punto, e di vedere meglio come queste specificità sono state
analizzate.
1.2 Le caratteristiche del modello svedese
Negli anni cinquanta, la Svezia era il paese più ricco d’Europa.
Anche se in parte questo era dovuto alla sua mancata partecipazione
alla Seconda Guerra Mondiale, gli studiosi di tutto il mondo
iniziarono ad interessarsi alle caratteristiche del sistema svedese, e ad
interrogarsi sulle ragioni che avevano trasformato, nell’arco di meno
di un secolo, un paese sottosviluppato in una nazione prospera e allo
stesso tempo egalitaria. Qui di seguito, presenteremo l’analisi di due
autori che, evidenziando aspetti diversi, hanno descritto le principali
caratteristiche del modello.
Il politologo svedese Carl-Ulrik Schierup [1990], citando un
celebre lavoro di Tomasson [1970] definisce la Svezia come il
“Prototipo della società moderna”: una combinazione riuscita di
un’economia capitalistica con un diffuso intervento dello Stato, in cui
ogni vena della società è vista penetrata da una ideologia razionale e
tecnocratica, e in cui la lotta di classe è stata domata e
istituzionalizzata. Probabilmente, in nessun luogo il consenso politico
sulle politiche assistenziali è stato così stabile come in Svezia, e in
nessun luogo esso è penetrato così universalmente nella coscienza del
cittadino comune. Questo consenso è stato garantito soprattutto da una
stabilità di governo socialdemocratico che non ha l’eguale in nessun
altro paese: la burocrazia della SAP è estesamente ramificata e
profondamente radicata nelle istituzioni dello Stato, tanto che le élites
delle due istituzioni si identificano. Schierup evidenzia inoltre il ruolo
giocato nelle società nordiche, in modo particolare in Svezia, dai
“movimenti popolari”. Per “movimenti popolari”, si intendono
movimenti altamente istituzionalizzati, che vivono e si sviluppano in
simbiosi con una élite dominante illuminata e riformatrice. Il
movimento popolare svedese per eccellenza è il movimento sindacale:
una struttura ampia e insolitamente unitaria, che abbraccia più
13
dell’80% della popolazione lavorativa svedese. Una delle funzioni più
importanti che il movimento sindacale ha avuto all’interno del
modello svedese è stata quella di integrazione ideologica e
mobilitazione popolare nella costruzione dello Stato assistenziale
socialdemocratico: una funzione analoga, in rapporto ovviamente a
fini diversi, è stata svolta da altri movimenti, tra cui il movimento
giovanile e quello femminile.
Petersson [1994] analizza invece le caratteristiche del “modello
nordico” (del quale, come abbiamo già detto, la Svezia è il paese
maggiormente rappresentativo) ponendo maggiormente in risalto
aspetti legati alle decisioni politiche. Secondo questo autore, a
costituire la peculiarità del modello nordico sono tanto una serie di
princìpi ispiratori delle welfare policies, quanto uno specifico tipo di
polity, cioè di assetto istituzionale. Le welfare policies dei paesi
scandinavi sono:
− Comprendenti. L’influenza politica si è estesa fino a coprire una
gran parte della vita pubblica, con un gran numero di aree sociali
rese soggette a decisioni pubbliche.
− Istituzionali. Ogni cittadino ha il diritto di godere di un ampio
spettro di benefici sociali, e questo a prescindere dall’appartenenza
a gruppi specifici e dal livello di reddito.
− Solidali e universali. Lo scopo di ogni politica sociale è stato
quello di integrare l’intera popolazione e di compensare qualunque
ineguaglianza sociale; inoltre, i sistemi del welfare scandinavi
consistono più nella fornitura di servizi che in trasferimenti di
ricchezza.
Per quanto riguarda il contesto istituzionale all’interno del quale le
decisioni vengono prese, ovvero la polity, il modello nordico può
essere visto come un tentativo di far coesistere nello stesso sistema
capitalismo, democrazia parlamentare e welfare state. La base del
potere politico, costituita da uno storico compromesso tra
imprenditoria e classe operaia, e la presenza di una società
14
caratterizzata da un ampio potere dei gruppi di interesse, hanno dato
un carattere essenzialmente corporativo alle relazioni all’interno del
mercato del lavoro. In questo contesto, l’obiettivo delle decisioni
politiche è stato quello di evitare conflitti divisivi, e l’enfasi sul
compromesso e sulle soluzioni pragmatiche hanno portato allo
sviluppo di una cultura politica basata sul consenso.
Lo scopo principale del sistema del welfare svedese è stato quello
di innalzare lo standard di vita dell’intera popolazione, attraverso una
politica che desse priorità all’equità distributiva. Le analisi presentate
mostrano come, in questo, l’alta legittimità del ruolo dello Stato, la
mobilitazione dell’opinione pubblica attraverso i movimenti popolari,
e il contesto istituzionale e politico basato sul consenso e la
cooperazione, abbiano giocato un ruolo essenziale. Il modello svedese
rappresenta quindi un particolare modo di formulare le politiche
pubbliche, di gestire le relazioni politiche e di intendere il rapporto tra
Stato e cittadini: queste concezioni sono state messe a dura prova nel
corso degli ultimi trent’anni, ma hanno comunque mantenuto la loro
specificità.
1.3 Le sfide degli anni novanta
Nel 1990, uno studio commissionato dal governo svedese
concludeva che la società occidentale contemporanea sta sviluppando
una serie di caratteristiche del tutto opposte a quelle del modello
svedese. L’internazionalizzazione, il cambiamento dei metodi di
produzione e l’emergere di nuove domande politiche sarebbero solo
alcuni dei processi che renderebbero il sistema del welfare di tipo
scandinavo completamente obsoleto [SOU, 1990]: una posizione del
tutto opposta a quella che aveva definito la Svezia “il prototipo della
società moderna”. Diventa quindi importante analizzare più
approfonditamente le sfide che hanno interessato il sistema svedese
negli ultimi dieci anni.
Sebbene la recessione economica internazionale e le crisi
petrolifere degli anni settanta avessero causato la fine del periodo
d’oro dei welfare states occidentali, in Svezia il settore pubblico ha
15
continuato a crescere fino ai primi anni ottanta [Ginsburg, 1993].
Tuttavia, negli anni novanta, una serie di cambiamenti economici,
politici e sociali hanno modificato profondamente le condizioni che
avevano determinato la formazione del modello svedese. In primo
luogo, la recessione economica verificatasi tra il 1991 e il 1993 ha
determinato un forte aumento della disoccupazione e del debito
pubblico, ponendo seri problemi di sostenibilità del välfärds-staten
[Kuhnle, 2000]. In secondo luogo, sul piano politico, le “elezioni
terremoto” del 1991 hanno segnato la seconda sconfitta nel
dopoguerra della SAP
2
, che ha raggiunto il minimo storico dei
consensi; esse inoltre hanno inaugurato l’ingresso sulla scena di nuovi
partiti, che hanno reso più fluida e meno prevedibile la scena politica
[Sannerstedt e Sjölin, 1992]. In terzo luogo, l’entrata della Svezia
nell’Unione Europea, sancita da un referendum nel 1995, ha posto
forti pressioni per un cambiamento verso un modello di welfare più
vicino a quello continentale europeo [Ervik e Kuhnle, 1996]. In quarto
luogo, l’immigrazione del dopoguerra ha causato la fine
dell’omogeneità culturale ed etnica in Svezia, e ha messo in dubbio
l’universalità delle garanzie e dei diritti del sistema di garanzie
svedese [Hammar, 1999a; Peterson, 1999].
Di fronte a questi cambiamenti, la riforma del welfare svedese è
diventata una necessità. Le maggiori riduzioni sono stati operate, in
seguito ad “accordi di crisi” tra governo e opposizione, nei primi anni
novanta. Gynnerstedt [1997] riassume in quattro punti queste misure.
Primo, la “politica dei salari di solidarietà” è stata rivista per
combattere la disoccupazione. Secondo, nel campo della previdenza
sociale, c’è stato un generale abbassamento dell’entità dei contributi.
Terzo, per quanto riguarda i servizi sociali, è stata introdotto il
concetto di “libertà di scelta”, che attribuisce un ruolo maggiore agli
enti privati, in alternativa allo Stato. Quarto, nel settore delle
abitazioni, la tendenza è stata verso la deregolamentazione e la
riduzione dei sussidi.
2
Un altro governo composto dalla cosiddetta “Coalizione Borghese”, ovvero dai partiti non
socialisti, si era avuto tra il 1976 e il 1982.
16
Non è facile trarre un bilancio complessivo da questi sviluppi. Se è
vero che, da un lato, il livello degli standards garantiti dallo Stato in
Svezia è calato, è altrettanto vero che i princìpi cardine non sono stati
intaccati. Anche se certe misure di assestamento e adattamento si sono
rivelate necessarie, la Svezia ha mantenuto sostanzialmente intatta la
struttura di base del sistema del welfare, così come i princìpi che
l’hanno ispirata [Kuhnle, 2000]. Tuttavia, le statistiche mostrano come
alcuni aspetti di fondo della società svedese siano cambiati. La
diseguaglianza nei livelli di reddito è aumentata costantemente negli
anni novanta, e la disoccupazione si è assestata a livelli che
difficilmente consentono di definire la Svezia una “economia di pieno
impiego”. Se poi consideriamo che povertà e disoccupazione in Svezia
hanno colpito principalmente la popolazione immigrata, ci rendiamo
conto che il peso degli assestamenti è ricaduto in gran parte sulle fasce
più deboli della società, cioè sugli immigrati [Peterson, 1999].
Sembra quindi esagerato parlare del modello svedese come di un
sistema obsoleto e incapace di rispondere alle necessità
contemporanee. Non è esagerato invece affermare che il sistema del
welfare svedese ha dovuto radicalmente rivedere il modo in cui
venivano applicati i suoi princìpi ispiratori, alla luce delle sfide degli
anni novanta.
17
Capitolo 2
IMMIGRATI E RIFUGIATI IN SVEZIA DAL
1943 AD OGGI
————————————————————
La storia dell’umanità è contrassegnata da una serie di grandi
migrazioni; i popoli si spostano per desiderio di conquista, alla ricerca
di condizioni economiche migliori o più semplicemente per sfuggire a
persecuzioni e distruzioni. La Svezia è stata teatro di vari flussi
migratori, dei quali i più imponenti sono certamente stati l’espansione
normanna dei secoli IX e X e l’emigrazione verso gli Stati Uniti tra il
1890 e il 1930. Negli anni della Grande Depressione, il numero degli
immigrati iniziò a superare quello degli emigranti, anche se, fino alla
Seconda Guerra Mondiale, la Svezia non ricevette un numero
rilevante di cittadini stranieri. Da questo momento in poi, tuttavia,
l’immigrazione ha portato un contributo sostanziale alla popolazione
svedese: oggi, circa il 6% di essa è composta da cittadini stranieri, e
un quinto dei cittadini svedesi ha almeno un genitore immigrato.
Cercando di ripercorrere le principali tappe dei flussi migratori che
hanno interessato la Svezia negli ultimi sessant’anni, è possibile
distinguere tre fasi, che si differenziano per la provenienza della
popolazione migrante e per le motivazioni che ne hanno determinato
lo spostamento [Runblom, 1995].
2.1 Le migrazioni belliche
Negli anni della Seconda Guerra Mondiale, un gran numero di
persone, spinte dagli sconvolgimenti del conflitto, cercarono rifugio
all’interno dei paesi rimasti neutrali. La Svezia fu uno di questi paesi;
tuttavia, avendo adottato una politica filotedesca durante i primi anni
del conflitto, aveva gradualmente chiuso le frontiere alle famiglie,
soprattutto ebree, che cercavano di sfuggire alla barbarie nazista.
18
Il 1943 segnò il punto di svolta nella linea seguita dal governo:
con le sorti militari della Germania oramai irrimediabilmente
compromesse, diventava importante mostrarsi desiderosi di cooperare
con i futuri vincitori [Runblom, 1995]. È in questa ottica che va vista
l’apertura della Svezia, negli ultimi anni di guerra, all’accoglienza di
circa 6.000 ebrei danesi; in seguito poi all’avanzata dell’esercito
sovietico e alle deportazioni di massa ordinate da Stalin, a questi si
aggiunsero un gran numero profughi provenienti dalla Finlandia, dai
Paesi Baltici e dall’Europa Orientale; inoltre, dopo la fine delle
ostilità, furono trasferiti in Svezia prigionieri dai campi alleati in
Austria, Germania, Italia e Yugoslavia. Nel 1947, erano presenti in
Svezia circa 200.000 profughi.
Questa nuova linea di condotta servì a riabilitare la posizione della
Svezia agli occhi del mondo, e ad attenuare la “cattiva coscienza” del
popolo svedese per la passata vicinanza alla Germania nazista. Essa
segnò inoltre l’inizio di un periodo, che sarebbe durato molti anni, in
cui la Svezia si sarebbe distinta, tra i paesi industrializzati, come la
“terra d’asilo per i rifugiati di tutto il mondo, con una legislazione tra
le più generose in tema d’asilo politico” [Ignazi, 1994].
2.2 Le migrazioni della forza lavoro
L’accoglienza dei profughi sperimentata negli anni della guerra fu
un preludio delle grandi trasformazioni che la società svedese avrebbe
conosciuto durante la seconda fase dell’immigrazione: questa andò
dalla fine della guerra sino ai primi anni settanta, e fu costituita
principalmente dall’importazione di forza lavoro. Grazie alla sua
neutralità, la Svezia aveva conservato un apparato industriale
completamente intatto, che le consentì di raggiungere sia un boom
nelle esportazioni verso il mercato esterno, sia una forte crescita nei
consumi del mercato interno. Questo causò una forte carenza di
manodopera industriale, e il governo svedese attivò un grosso sforzo
per reclutare lavoratori dall’estero.