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Introduzione
Il presente lavoro di tesi propone un’analisi retrospettiva della
regia cinematografica femminile nel contesto americano e
segue un approccio legato alle basi storico-sociali che hanno
portato la macchina da presa ad essere oggi un divulgatore
immaginale, su più livelli. La preliminare analisi, infatti,
poggerà sulla ricognizione delle diverse modalità di
rappresentazione delle donne registe che, al contrario di quanto
la storia abbia provveduto a tramandare, esistono dal momento
in cui il cinema è nato, e non solo, hanno proposto canoni di
riferimento tutt’ora utilizzabili e declinabili.
Il lavoro di ricerca che si vuole condurre si espande a tutta la
serie di circostanze che accompagnarono la società
postindustriale verso quel periodo di espansione e di fiducia nel
progresso; tali circostanze, dalla fine del XIX secolo, il secolo
della seconda rivoluzione industriale e dell’incipiente
affermazione della società di massa, celebrarono l’ingresso
delle donne nelle università e in seguito, nelle nuove
professioni, legate non a caso alla comunicazione: telegrafiste
prima e telefoniste poi, le donne svilupparono una maggior
coscienza riguardante il proprio valore lavorativo. Questa presa
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di coscienza andò a toccare anche e soprattutto il settore
cinematografico che, in qualità di finestra sul mondo, prese atto
di tutto ciò che andava emergendo e, trasponendo la realtà
sullo schermo, modificava progressivamente il punto di vista
con cui rappresentare la vita, i ruoli, le idee.
A differenza di quanto si possa immaginare, nel cinema muto,
le donne erano già impegnate nella produzione cinematografica
in ruoli tecnici, creativi e manageriali, più di quanto lo fossero
nei decenni successivi alla prima guerra mondiale.
Questo lavoro si propone quindi di descrivere alcuni casi
eccellenti come l’italiana Elvira Notari ed il suo cinema
emigrato a New York, la combattiva Dorothy Arzner, la
mamma di Hollywood Ida Lupino e molte altre che, a
posteriori, ci permettono di inquadrare le ragioni per cui è
possibile menzionarle tutt’oggi.
Il ruolo della donna nel panorama cinematografico, in un primo
momento della storia, si assimilava ad una sorta di processo
latente legato all’impossibilità, fino al primo decennio del
Novecento, di esercitare funzioni non prettamente collegate
alla sfera domestica. Il corpo femminile è stato per lungo
tempo associato all’idea di bellezza, senza tenere in
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considerazione la componente mentale che esso poteva al
contempo realizzare, e questo, nel corso degli anni, ha
cristallizzato associazioni mentali che vedevano nel corpo
femminile, l’immagine prediletta da proiettare nello schermo,
al contrario di quell’altro tipo di bellezza, quella mentale e di
direzione, aldilà dello schermo.
La figura dell’attrice, infatti, ha avuto modo di essere praticata
fin dagli esordi del cinema, al contrario di quell’altro tipo di
professione che permetteva all’attrice di essere tale: la
professione del regista. L’immagine che la società ha avuto di
questa figura, è stata per lungo tempo rallentata e preclusa dai
margini di una società fortemente maschilista, che riconosceva
un solo tipo di bellezza femminile: quella oggettivata.
L’analisi ripercorrerà le tracce di quel dibattito femminista,
iniziato nei primi anni del Novecento e culminato negli anni
Settanta, cogliendone gli aspetti essenziali relativi alla
stereotipizzazione cinematografica, riscontrabile in alcune
pellicole della metà del Novecento.
Verranno affrontati, quindi, quelli che sono stati i risvolti che
l’emancipazione femminile ha innescato nelle compagini della
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struttura sociale, e vedremo come tali risvolti, abbiano attivato
un cambiamento di immagine nella corso della sedimentazione
culturale, fino ai giorni nostri.
Buona parte delle fonti bibliografiche di questa ricerca è stata
reperita direttamente nel luogo oggetto di analisi, e cioè negli
Stati Uniti d’America ed è grazie a tali fonti che è stato
possibile disporre di dati e di filmati storici, attraverso i quali ci
siamo proposti di affrontare una rilettura semantica dei testi
femminili.
Un testo cinematografico, o mediale, nel suo senso più ampio,
è sempre il frutto della cultura nel quale nasce e a cui si
riferisce, e al suo interno sono presenti costanti rimandi a miti,
ad archetipi ed a simboli universali, i quali ritroveremo nella
complessa ed attuale offerta artistica, cinematografica e
femminile.
Attraverso un’analisi tecnica dei film e grazie all’enorme
contributo della sociologica del cinema di cui ci avvarremo,
cercheremo di verificare quanto l’idea predominante, e tutt’ora
avvertita, che lega le donne registe a descrizioni stereotipate e a
un certo cinema “intimista” sia realistica, oppure se si tratta
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solo di un pregiudizio di genere. Una doppia chiave di lettura
di uno stesso stereotipo sociale, come due diverse facce della
stessa medaglia: da un lato la possibilità, spesso negata, di
poter esercitare la professione direttiva, e dall’altro, il come la
professione venga esercitata.
Arriveremo ad interpretare il cambiamento stilistico e poetico
delle odierne autrici americane, e la possibilità che esse oggi
hanno di esprimersi attraverso i più diversi generi, partendo da
Jane Campion, passando per Sofia Coppola, per arrivare a
Kathrine Bigelow. Tre diversi modi di sentire, guardare,
descrivere.
In conclusione, per offrire anche una testimonianza dell’essere
una donna regista in Italia ci avvarremo del parere di una nota
lavoratrice del nostro cinema: Cristina Comencini.
Non esistono colpevoli o vittime del sistema, è la storia che
vivendo, cresce e modifica le proprie sembianze ed è da questo
assunto che bisognerebbe far partire ogni tipo di discorso
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PARTE PRIMA
CAPITOLO 1: L’IMMAGINARIO E LA SUA RAPPRESENTAZIONE
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1.1 L’immaginario, la ripetizione e la fabulazione
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del mondo
Per tentare di descrivere la complessità dell’immaginario
contemporaneo e delle relazioni che esso continuamente
intrattiene con la società a cui si rivolge, bisognerebbe
soffermarsi ad analizzare i testi mediali nel corso della
fruizione, ma bisognerebbe soprattutto investigare il relativo
sottotesto celato dietro ognuno di essi.
I simboli e le immagini che continuamente rimandano a miti e
ad archetipi
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universalmente percepibili, altro non sono che
tracce della sedimentazione culturale, storica e umana di ogni
singola società stanziata.
La risonanza dell’universo mediale, le pratiche sociali e la
produzione di mondi immaginari, imprimono con forza l’effige
dell’attuale immaginario collettivo. In ogni epoca, gli strumenti
a disposizione dei mass media, hanno esplorato ed
implementato la fabulazione dei contenuti che noi percepiamo
come facenti parte della realtà.
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S.Leonzi, “Lo spettacolo dell’immaginario. I miti,le storie, I media”, Tunuè
srl, Latina 2010.
2
S.Leonzi, ibidem
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I media possono essere considerati una potente tecnologia
discorsiva della nostra epoca e i testi mediali non sono altro
che tracce del processo di stereotipizzazione, messo in atto dai
e attraverso i media.
La cultura somatizza e cristallizza il corpo semantico di ogni
discorso, ponendolo negli anni come un qualcosa da cui
interiorizzare per tramutarlo in esperienza, in contenuto
culturale dell’essere umano in perpetua evoluzione.
Ogni momento storico ha prodotto e raccontato un frammento
di realtà attraverso le differenti forme di comunicazione
disponibili, pertanto, inquadrare l’attuale metodologia di
interscambio comunicativo, significa rendersi coscienti della
compartecipazione che ogni individuo applica, seppur
involontariamente, alla creazione dei contenuti audiovisivi:
essere spettatori oggi, significa essere parte performativa della
creazione dei testi mediali, significa rendersi soggetto e oggetto
dei discorsi.
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Oggi più che mai, siamo ufficialmente di fronte all’era della
convergenza del quotidiano con il testo, della mediatizzazione
del racconto popolare, materia prima dell’immaginario.
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I media sono intrinsecamente intertestuali, sono una macchina
narrativa basata sulla contaminazione delle esperienze umane,
essi creano racconti dal mondo e ne estendono la mitologia.
L’atteggiamento chiave della narrazione mediale, non si limita
più a presentarsi come una mera fotografia della realtà, bensì,
mira ad essere parte performativa dei discorsi che propone,
cioè mira ad essere ricordata anche dopo l’atto della semplice
fruizione, e lo fa, agganciandosi al potere evocativo - re
iterativo della citazione e della ripetizione storica.
In altre parole, quello che Milly Buonanno ha definito il
ritorno del già noto, consiste nell’arte della ripetizione delle
storie, nelle fiction e nel cinema, metodi che, sin dai tempi de
“Le mille e una notte”, creano quel necessario aggancio
affettivo tra performer e spettatore.
4
.
3
Cfr con H.Jenkins, “Convergence Culture: Where Old and New Media
Collide”, New York University Press, New York 2006.
4
Cfr con M.Buonanno “Sulla scena del rimosso. Il dramma televisivo e il
senso della storia”,Ipermedium libri, S.Maria Capua Vetere 2007
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Se poniamo attenzione sulle modalità di scrittura di una storia,
possiamo renderci conto di una struttura più o meno simile e
ricorrente tra le diverse narrazioni; esistono schemi e paradigmi
che insieme compongono l’arte della sceneggiatura: per un
autore, è importante conoscere cosa alimenta l’immaginario
collettivo di cui fa parte. Ogni autore, letterario o
cinematografico, radica in sé una serie di parametri universali
che fanno parte dell’esperienza umana, ancor prima di far parte
di quella immaginativa.
Famosi studiosi come Campbell e Vogler, o come Popp o Jung,
si sono interrogati sulla lunga storia del racconto; dai loro
studi, quel che dovremmo riconoscere, è quella teoria che vede
comparire in tutte le storie, personaggi e simboli ricorrenti,
presenti nei miti di tutte le epoche.
Esistono infatti delle componenti dinamico-strutturali, che
fungono da trama comune in tutte le storie, e all’interno di
esse, di solito vi è un mosaico di immagini in grado di
connettere gli esseri umani apparentemente più distanti.
Anticipiamo che tali componenti, sono denominate da Jung,
Archetipi, ossia quelle strutture di comportamento che
perpetuate nei millenni sono in grado di dare vita ad una storia,
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portando sempre a termine una “mission” di un viaggio reale o
fantastico.
Interessante a questo proposito è il testo di Vogler, “Il viaggio
dell’eroe”, in cui viene esplicato minuziosamente il viaggio che
ogni personaggio affronta nella propria avventura
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: affinchè
una storia arrivi a compimento, deve necessariamente nutrirsi
di uno sviluppo che implichi la costruzione di un plot o di una
trama, e la progressione delle avventure e degli intrecci dei
personaggi porta la vicenda a compimento.
Il mito del viaggio dell’eroe, che è atemporale e universale,
vive sempre un processo di cambiamento e si sviluppa secondo
determinate tappe, uguali in tutte le storie (dal personaggio
mitologico di “Ulisse” al celebre film di Geoge Lucas, “Star
Wars”).
Anche se inconsapevolmente abbiamo l’impressione di trovarci
catapultati sempre in nuovi mondi ogni volta che assistiamo
alla proiezione di un film, in realtà siamo messi di fronte la
medesima struttura drammaturgica: sono gli eventi e i conflitti
al suo interno che cambiano, ma non il suo scheletro
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C. Vogler, “Il viaggio dell’eroe”,Dino Audino Editore, Roma 1999.
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L’eroe per Jung rappresenta il sé, che per sua indole, non può
essere scisso dalla persona, indifferentemente dal tipo di eroe
che ritrae, sia esso un guerriero, un mago, un amante o un re
6
.
Nonostante gli inevitabili mutamenti socioeconomici o politici
delle epoche, il racconto mitico non scompare, ma anzi, è il
padre di tutte le storie: quel che crea la differenza tra una
pellicola ed un’altra, è la ricerca di un tema di rilievo, un
conflitto condiviso, un messaggio da tramandare.
Sarà poi la metafora di utilizzo registico che esprimerà
esattamente quel tema e quel messaggio, creando un
plusvalore: la solitudine metropolitana in “Taxi Driver”,
l’ascesa e il declino al potere in “C’era una volta in America”,
così come tante altre pellicole di rilievo, hanno metaforizzato
un messaggio con differenti e personali criteri.
“A film without a message is just a waste of time”...
(D.W. Griffith)
Quindi, se il meccanismo della narrazione, opera sempre
secondo una logica di ripetizione drammaturgica, a volte,
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Cfr S. Leonzi, “Lo spettacolo dell’immaginario”, op cit, pag.86