PARTE I. LA NASCITA DELL’ISLAM TRA STORIA, POLITICA E RELIGIONE
Cap.1. I tratti fondamentali della teologia, della politica e della storia islamica
L'Islam
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è la sola delle grandi fedi monoteistiche a diffusione mondiale ad aver avuto fin
dai suoi inizi una denominazione specifica che, con l'aggettivo derivato muslim, appare
ripetutamente nel testo rivelato da Dio (Allàh in arabo), il Corano. Si consideri per
esempio il versetto (àya) 19 del capitolo (sura) III: «In verità la Religione presso Dio è
l'Islam»; oppure il capitolo V della sura 3: «Oggi v'ho reso perfetta la vostra religione, e ho
compiuto su voi i Miei favori, e M'è piaciuto darvi per religione l'Islam».
Bisogna inoltre sottolineare che nel Corano stesso il termine muslim significa
essenzialmente 'monoteista'. Per esempio è in questa accezione che Abramo, al pari di altri
profeti pre-islamici, viene definito non solo hanif (termine assai frequente ad indicare chi
seguiva un culto puro già prima dell'Islam) ma addirittura muslim: «Abramo
2
non era né
ebreo, né cristiano: era un hanif, dedito interamente a Dio, e non era idolatra». I seguaci di
Muhammad sono invece chiamati nel Corano semplicemente credenti (mu'minùn, sing.
mu'min, da imam, fede, credenza). Solo dopo la morte del Profeta e il costituirsi del dar al
i-Islam l'aggettivo muslim passò a designare i seguaci della religione predicata da
Muhammad stesso, così distinguendoli dagli altri ahl al-kitàb (le genti del Libro), ossia gli
ebrei seguaci del profeta Mosè (Musa), e i cristiani seguaci del profeta Gesù ('Isà).
Comunque, per tornare alla parola islam, essa deriva dalla radice slm che significa essere
incolume, essere sicuro e più specificamente affidare, rimettere qualcosa al giudizio di
qualcuno. Ma l'accezione semantica complessiva del vocabolo islam esprime una
1
G. Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano, Torino, Einaudi, 2002, p.6
2
Corano, III, 67
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«concreta e attiva sottomissione alla volontà del Dio Unico», dove le specificazioni
concreta e attiva sono essenziali.
In effetti un qualsiasi atto, dalla semplice abluzione rituale che precede le cinque
preghiere canoniche quotidiane fino al compimento del hajj, il pellegrinaggio alla
Mecca, culmine massimo della vita del fedele, non ha valore agli occhi di Dio se il
credente stesso non ha l'intenzione chiara e precisa (niya) di compierlo.
Pur non essendo coranica, la nìya ha assunto una tale importanza nella cultura
musulmana che esiste un detto (hadìth) del profeta Muhammad secondo cui: « Le opere
esistono solo con le loro intenzioni perché ogni uomo riceve solo per quello per cui ha
avuto un'intenzione». D'altro canto l'importanza dell'intenzione, della volontà, è
dimostrata dal fatto che da un punto di vista linguistico-grammaticale islam è un nome
verbale (masdar) di quella quarta forma che indica appunto un causativo (far essere).
Qui dunque si manifesta la decisiva nozione di responsabilità individuale del credente
nell'adempimento dei doveri religiosi, che oltretutto nell'Islam ricoprono un ambito
assai più vasto rispetto al contesto cristiano. Infatti deve esistere sempre una cosciente
e volontaria, per quanto innata, scelta di realizzare quanto richiesto da Dio attraverso
un'intenzionale ed effettiva attuazione del Volere divino. Proprio l'opposto del passivo
fatalismo così spesso attribuito all'Islam. Né al fedele è richiesta alcuna rinuncia, in
quanto scopo dell'osservanza della Legge divina (la shari'a) è assicurare il giusto e
ordinato godimento di quanto Dio stesso ha voluto concedere alle Sue creature. Come
dice il Corano: «Ma
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i credenti e le credenti sono l'un l'altro amici e fratelli , invitano
ad atti lodevoli e gli atti biasimevoli sconsigliano, e compiono la Preghiera e pagano la
Decima e obbediscono a Dio e al suo Messaggero: di questi Dio avrà misericordia, che
Egli è potente e sapiente». Questo programma che sembra quasi la summa dell'Islam è
ripetuto più volte nel Corano: « In
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verità Dio è potente e possente; soccorrerà coloro
che, quando Noi li abbiamo stabiliti nel paese, osservano la Preghiera e pagano la Deci-
ma e invitano al Bene e sconsigliano il Male a Dio tutte le cose ritornano alla fine».
3
Corano, IX, 71
4
Corano, XXII, 40-41
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In questi versetti si trovano racchiusi i principali elementi costitutivi dell'Islam:
l'onnipotenza di Dio, che è misericordioso, e a cui tutto è destinato a tornare alla fine
dei tempi; la missione del Suo Inviato sulla terra; e infine i doveri del fedele . Questi a
loro volta sono di tre tipi: verso Dio (qui esemplificati dalla Preghiera), verso la società in
genere (la Decima, cioè l'elemosina legale) e infine verso la comunità dei credenti
nell'Islam qui espressi attraverso la formula «invitare al Bene e sconsigliare il Male».
Quest'ultimo aspetto in particolare è dunque costituito nella sua parte positiva e
propositiva dalla realizzazione di quanto attiene e a Dio cosi come definito dal Corano
stesso (i cosiddetti diritti di Dio, huquq Allàh), integrato dalle rivendicazioni dei singoli
(diritti umani, huqùq al- àdamìym o anche huquq al-'ibad, diritti degli schiavi). A
questo «Bene» si contrappone il « Male » a sua volta rappresentato dalle trasgressioni
dei limiti (huquq) giuridici più che morali posti da Dio e non già dagli uomini:
«Questi
5
sono i termini di Dio: non oltrepassateli, che quelli che oltrepassano i termini di
Dio sono gli empi».
L'imposizione espressa dalla citata formula coranica al-amr bi 'l-ma'ruf wa 'l-nahy 'an al-
munkar deriva chiaramente dall'ordine morale della società tribale, dove il modo noto
(ma'ruf) di agire era quello approvato mentre ciò che era ignoto veniva rifiutato perché
sfuggiva alle tradizioni. Munkar infatti, legato alla radice nkr, ignorare, non conoscere, e
quindi antinomica proprio a 'rf (sapere, conoscere), da cui ma'ruf, a sua volta significa
esattamente negato, disapprovato, riprovevole: un significato quindi senza alcuna
accezione di «peccato» del tipo di quello della cultura cristiana. La nozione di tali diritti
(huquq) tuttavia deve essere precisata. Loro fondamento è il già citato volontarismo
dell'Islam (nìyà) concretizzato attraverso un'esplicitazione giuridica. Questo perché alla
base del rapporto tra l'uomo e Dio esiste un Contratto, o meglio un Patto ('ahd)
liberamente concesso dal Signore all'uomo Suo servo o schiavo ('abd), il quale, accettando
di diventare credente (mu'min), si impegna ad attuarne le disposizioni. Non a caso gli
obblighi religiosi gravano solo sul mukallaf, ossia sul musulmano sano di mente, mentre ne
5
Corano, II, 229-230
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sono legittimamente esentate, pur trattandosi di «comandamenti divini», precise categorie
di persone.
Secondo la tradizione musulmana tale Patto è stato definito una volta per tutte nella pre-
eternità (azal), allorché all'uomo è stato chiesto di riconoscere la propria condizione di
servitore e il conseguente dovere di adorazione nei confronti del suo Signore'. È in base a
ciò che i dotti islamici sostengono che ogni uomo nasce predisposto all'Islam, e da ciò anche
l'universalismo di questa religione e, a ritroso, l'accettazione sia di tutte le precedenti
Rivelazioni sia dei citati hanif. Il Patto in questione differisce da tutte le altre numerose
forme contrattuali che caratterizzano la civiltà islamica in quanto le sue clausole (shurut)
sono state proposte unilateralmente da Dio alle Sue creature e non sono soggette ad alcuna
reciprocità. Preliminare tra queste clausole è proprio il libero ed esplicito riconoscimento o
testimonianza (shahada) da parte dell'uomo dell'assoluta unicità e trascendenza del suo
Signore. Si tratta
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quindi per l'essere umano di adempiere non già a quanto sarebbe dovuto
a Dio per Sua natura ma a quanto Dio stesso ha fissato come a Lui pertinente e che il
credente ha accettato, un qualcosa che più che a precetti di perfezione soggettiva si rifà ad
obblighi contrattuali.
Dunque, l'idea di «patto» è uno dei fulcri fondamentali dell'ideologia dell'Islam e del
mondo musulmano, in quanto sta alla base non solo dei rapporti tra Dio e uomo ma anche
di molte altre relazioni tra diversi attori, in primis quelle tra il credente in quanto soggetto
sociale da un lato e il detentore del potere temporale dall'altro. E infatti mediante un patto
(bay'a o mubàya'a, giuramento di reciproca alleanza) che assumevano le proprie funzioni i
capi della comunità (khalìfa, ossia vicari del Profeta o imam, guide dei credenti). Il loro
potere era perciò per principio non già assoluto ma sottomesso all'approvazione della
comunità stessa, espressa attraverso i suoi notabili, 'la gente che slega e lega' per
eccellenza. È interessante evidenziare che si trattava di una ripresa islamica (la prima fra
varie che indicherò) di costumi di origine tribale. Nell'Arabia preislamica infatti il capo
era riconosciuto come tale dagli altri membri della tribù appunto tramite una bay'a,
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Ivi, p.9
7
parola che si riferiva al gesto simbolizzante la conclusione di un accordo tra due persone,
costume consistente in una stretta di mano.
Per inciso la bay'a sopravvive ancora oggi come atto formale di riconoscimento del nuovo
sovrano, per esempio in Arabia Saudita o in Marocco. E
7
d'altronde l'importanza data alla
nozione di «patto reciproco» spiega pure l'accusa che molti movimenti politico-religiosi
contemporanei rivolgono ai dirigenti dei diversi Stati di aver tradito l'accordo con il popolo.
Ma ulteriori «patti» erano quelli che regolavano le relazioni tra musulmani e non
musulmani (dhimmà) . L'idea di «contratto», ossia l'idea di un negozio giuridico con
effetto reciproco, è quindi fondamentale nella mentalità musulmana. Riprova di una
simile affermazione è che la parola araba che più si avvicina al nostro concetto di
«religione», ossia din, copre proprio un campo semantico di questo genere. Infatti
mentre il nostro religio evoca innanzitutto ciò che unisce l'uomo a Dio, din al contrario
fa riferimento agli obblighi che Dio impone alle Sue 'creature ragionevoli (ashàb al-
'uqul), il primo dei quali è quello di sottomettersi e di rimettersi volontariamente a Lui.
Questa dunque è una delle ragioni per cui molto acutamente è stato scritto che mentre
il cristianesimo è innanzitutto la religione dell'amore, l'Islam è soprattutto la religione
della giustizia. Ciò non significa naturalmente che i cristiani siano per ciò stesso mi-
gliori rispetto all'amore, o che la società musulmana abbia un atteggiamento più
favorevole rispetto alla realizzazione della giustizia. Tuttavia le due parole d'ordine,
amore e giustizia, possono essere utilmente impiegate come indicatori per mettere in
luce un'ampia gamma di differenze fra le due religioni, riguardanti sia le pratiche e i
dogmi ufficialmente riconosciuti, sia i pregiudizi inconsci dei rispettivi credenti».
Ma qui sta anche la ragione profonda per cui l'Islam non è affatto una religione ma
soprattutto una cultura, una civiltà, un modo di vivere in cui la relazione con la divinità
era certo cruciale ma tale da lasciare ampi spazi all'intervento del temporale.
Nell'Islam infatti la distinzione tra sacro e profano, tra eterno e temporale, è riflessa non
tanto in una sfera etica, quanto nella teoria giuridica, nella shari’a, tecnicamente la via
retta che conduce a un luogo dove dissetarsi, e quindi la 'via maestra' per la salvezza.
7
Ivi, p.10
8
Orbene la shari’a, che è appunto la Legge rivelata da Dio per guidare il credente
nell'espressione pratica della sua fede e della sua condotta in direzione della
ricompensa finale nell'aldilà, distingue tra ibàdàt e mu' amalàt. Le prime sono le norme
attinenti alle manifestazioni del rapporto tra uomo e Dio (quell'insieme cioè che
impropriamente si potrebbe tradurre con 'rituale religioso); le mu 'amalat invece dettano
le norme che governano le azioni e le relazioni del credente con gli altri esseri umani.
Le 'ibdàt coinvolgenti il legame di una persona con il suo Creatore sono
essenzialmente i cosiddetti arkan al-din, i cinque 'pilastri della religione', e rimangono
eterne e immutabili". Viceversa le mu 'amalat, che coprono tutti gli altri aspetti della
vita sociale, economica e politica della comunità, possono essere adattate alle esigenze
via via mutanti dei tempi e dei luoghi, a condizione che i risultati prodotti non si
allontanino dalla parola (nass) e dallo spirito (maqsad) della shari’a.
Noto per inciso che possono essere ricollegate alle 'ibàdat in quanto non giustificate
dal punto di vista delle mu 'amalat le disposizioni relative ai cibi e alle bevande leciti o
illeciti, comprese le norme sulla caccia e sull'uccisione rituale, e quelle sui giuramenti
(con i modi di espiazione in caso di spergiuro).
Le mu'amalat possono dunque essere modificate. Ne consegue l'ammissibilità anche
teorica di diverse forme storiche di «Islam», che si differenziano da un punto di vista
tanto religioso che temporale, purché siano accettati e rispettati il dogma dell'unicità di
Dio e l'applicazione delle immutabili 'ibdàdat. Da ciò in primo luogo l'impossibilità
di definire l'eresia, elemento su cui tornerò più avanti. Ma accanto a questo punto si
impone l'idea che tradizione (sunna) non implichi di necessità l'esistenza fin
dall'origine di un insieme di principi immutabili, indipendenti da specifiche condizioni
politiche e sociali. Al contrario la nozione di ciò che è tradizionale nell'Islam può
cambiare di generazione in generazione, e in rapporto al gruppo sociale, alla classe o
alla regione interessata. L'elemento è cruciale perché di conseguenza la tradizione
islamica per eccellenza, quella risalente al Profeta e ai suoi compagni (sunnat al-nabi),
non riguarda affatto la fede (imàm), che trova il proprio nucleo integrale nel Corano, ma
si riferisce solo alla vita temporale; a proposito della quale il singolo credente nella
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sua azione pratica si rifà in primo luogo proprio all'imitazione (taqlid) del Profeta, il
quale attraverso il suo comportamento ha definito ciò che è il Noto (al ma’ ruf), quindi
ciò che è il Bene. In questo nodo si trova la ragione per cui l'Islam e quindi il mondo
musulmano, pur essendo in teoria staticamente vincolati all'attuazione della Parola di Dio
espressa in maniera definitiva attraverso il Corano, per diversi secoli sono stati
estremamente aperti alle più diverse e ampie sperimentazioni e varianti, e solo attraverso
tappe successive (la definizione dell'accettabilità dei hadith, la vittoria degli ahl al-
sunna nello scontro con gli ahl al-kalam, il rifiuto della ijtihad) sono giunti ad una
normalizzazione concettuale, anch'essa però attenuata dalle prassi che via via si svi-
lupparono parallelamente alle disposizioni dottrinali. Basti segnalare per ora a questo
proposito la capacità dell'Islam di venire a patti con civiltà e culture diverse come
quelle turche, mongole, indiane, dell'Africa nera, modificandosi e assorbendole. Primo
fattore caratterizzante l'appartenenza all'Islam è dunque la proclamazione della
proposizione enunciatrice della fede islamica: là illaha ila 'llah Muhammad rasul Allah
(«non c'è dio se non Dio e Muhammad è il Suo inviato»). Questa dichiarazione, che
costituisce la già citata shahàda, libera espressione individuale e pubblica", racchiude
l'unico vero dogma dell'Islam, quello dell' unicità assoluta di Dio (tawhìd). Che essa sia
qualcosa di semplice, basilare e soprattutto indiscutibile è dimostrato dalla constatazione
che i manuali di diritto non ne parlano neppure.
Dall'esplicitazione
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di tale formula discendono per l'individuo, divenuto cosi fedele
musulmano, non solo obblighi personali verso Dio ma anche una nuova situazione sociale.
Innanzitutto la shahada stabilisce una frontiera netta fra ciò e chi appartiene all'Islam e ciò
e chi non vi appartiene. Ma soprattutto essa rende chi la pronuncia membro in senso
oggettivo e sostanziale della comunità musulmana, la ummatal-islamiya. Ed è a questo
punto che si inseriscono gli altri arkan al-din o arkàn al-Islam, quei citati i doveri
fondamentali che regolano la vita del fedele musulmano e che, elemento decisivo,
riguardano prassi e non già dogmi.
8
Ivi, p.12.
10
Si tratta di obblighi collettivi, o meglio di obblighi che il fedele deve compiere
comunitariamente, sia nel senso di adempierli insieme ad altri nello spazio o nel tempo, la
preghiera (salat), l'astinenza (sawm) e il pellegrinaggio (hàjj), sia nel senso di attuarli a
|beneficio di altri, come l'elemosina (zakat o sadaqa). Il fatto è che, strumento del volere
divino, i credenti, costituiscono quella comunità di eguali cui Dio ha affidato il compito
di far trionfare la Sua causa, operando il bene e impedendo il male
9
. Si comprende così
perché è stato detto a ragione che l'Islam è in sostanza un voler vivere insieme di singoli
credenti, certo individualmente isolati nel loro rapporto con il Dio Unico ma fortemente
uniti nella comunità dei fedeli secondo principi e regole di rapporti sociali definiti
anch'essi da Dio attraverso il Corano. Per questo, oltre che per l'accennata mancanza di
dogmi con l'eccezione del tawhìd, nel caso dell'Islam è più appropriato parlare di
ortoprassi (vale a dire di esistenza di una base comune di pratiche e di rituali) piuttosto
che di ortodossia intesa come perfetta conformazione e accettazione di dogmi e
credenze. Tanto più che il concetto di ortodossia e quello speculare di eterodossia sono
di fatto inapplicabili nell'Islam. Infatti ogni e qualsiasi attribuzione di patenti di tal
genere, e ancor più l'accusa di eresia, rimane pur sempre impugnabile. E quand'anche
una qualche forma di consenso dottrinario si generalizzi, essa potrà sempre venir
contestata all'indomani.
Questo innanzitutto perché non esiste alcuna struttura ecclesiale abilitata a fornire un
placet che legittimi un movimento religioso. Chiunque può a suo piacere costituire un
gruppo o un'organizzazione che si richiama all'Islam: l'unico elemento determinante è la
sua accettazione da parte del resto della comunità. In modo speculare all'interno
dell'umma nessuna autorità può dichiarare un non placet: il che equivale a dire che
nell'Islam non esiste alcuna forma di scomunica, istituto cosi tipico della storia del
mondo cristiano in genere e cattolico in particolare. Senza contare che anche chi venisse
stigmatizzato come eretico potrebbe comunque continuare a professarsi in maniera del
tutto legittima «musulmano», a meno che non dichiari, di nuovo esplicitamente (e cosi
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Corano, III, 104 cfr. Bonelli “E si formi da voi una nazione di uomini che invitano al bene, che
promuovono la giustizia e impediscono l’ingiustizia. Questi saranno fortunati”.
Corano, III, 110 cfr Bonelli “Voi siete la migliore nazione ma suscitata fra gli uomini: promuovete
la giustizia e impedite l’ingiustizia, e credete inDio”
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torna il concetto di niya) di voler abbandonare l'Islam, di non riconoscere il tawhìd, di
voler diventare apostata. Ma in questo caso egli si pone volontariamente fuori dalla
comunità, diventa miscredente, e quindi può e deve essere eliminato. La stessa shi’a,
da molti orientalisti considerata come espressione più tipica di una «eresia musulmana»,
non solo nasce fenomenologicamente nell'Islam e con l'Islam stesso, fin dalle sue ori-
gini, ma nella sua dottrina poco si discosta dal sunnismo se si eccettuano problemi di
rituale e di gestione del potere, cioè di nuovo questioni di prassi. Il fatto è che nell'Islam
l'eventuale predisposizione ereticale corrisponde al più ad una devianza
comportamentale. Perfino a livello lessicale troviamo una riprova di quanto precede
infatti in arabo (la lingua del Corano e quindi per eccellenza dell'I
slam in quanto fenomeno religioso) non esiste un corrispettivo di
eretico nel senso cristiano di seguace di una dottrina che si
contrappone ad una Verità originaria e indiscussa proposta dalla
Chiesa. I termini che più si avvicinano a questo concetto sono
ghali che tuttavia significa esattamente esagerato, estremista
o mulhid, che indica colui che devia, mentre mubtadi è l’innovatore, colui che introduce
elementi nuovi nella shari’a, in ovvio
contrasto con la lettera della Legge stessa. Rafidi infine è colui che
respinge qualcosa, che si allontana da qualche cosa piuttosto che
avvicinarsi ad altro. II fatto è che già nell'Arabia preislamica esisteva all'interno della
tribù una solidarietà di gruppo, 1' 'asabiya, vincolo reso ancora più forte dal fatto che il
singolo beduino non aveva posto né vita propria nel mondo senza il clan stesso. L'umma
di Muhammad in fondo non fece altro che ridefinire questo senso della tribù,
affiancando e sostituendo ai vincoli di sangue quelli religiosi tra i credenti.
Ma così come in ambito tribale esistevano ed esistono diversi livelli e diversi
segmenti tutti ugualmente paritari, accettabili e funzionanti, allo stesso modo l’umma
islamica può accettare l'esistenza nel proprio seno di diversi livelli o segmenti senza
che ciò provochi in alcun modo fratture irrimediabili e insanabili come le eresie dei
primi secoli del cristianesimo o la Riforma e la Controriforma.
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Tra l'altro, dato questo approccio tribale che contemplava pure la possibilità di
aggregazioni tra diversi clan, Muhammad non ebbe difficoltà ad accettare di entrare in
relazione con gli appartenenti ad altre comunità religiose, soprattutto gli ebrei di
Medina e poi, in generale, gli ahi al-kitdb.
Alle tradizionali virtù arabe e beduine dell' 'asabiya furono conferiti da Muhammad e
dai suoi primi seguaci nuovi significati islamici. Per esempio il valore della razzia e lo
sprezzo del pericolo nel difendere la propria tribù si tramutarono nella tenace dedizione
alla nuova fede e nella capacità di sacrificarsi disciplinatamente nel nome della nuova
comunità. La sopportazione di fronte alle avversità (sabr) si mutò nell'incrollabile fede in
Dio che consentiva di superare prove e tentazioni.
Ma soprattutto
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grazie al Profeta e al Messaggio di cui era portatore, la nuova comunità
riuscì a risolvere la pericolosa discrepanza tra l'umanesimo a carattere collettivo ereditato
dalla società tribale araba e l'ideale del cittadino fortemente individualizzato quale si
veniva imponendo nella civiltà mercantile della Mecca dell'epoca di Muhammad.
Non a caso alla sua morte, come nel passato e nel contesto nomadico, la comunità venne
guidata per i primi decenni da persone scelte perché godevano del prestigio necessario.
Vale a dire che al posto di uno shaykh (vecchio, anziano), espressione dell'assemblea
tribale e la cui autorità derivava dal carisma personale senza implicare potere e forza per
imporre il proprio comando o punire i sottoposti, i quali dovevano governarsi secondo un
codice morale sviluppato nel corso di generazioni, adesso venne eletto un khalifa o imam
vicario del Profeta, o guida della comunità o amministratore dei credenti, cioè un
rappresentante tanto del volere divino che della comunità. Ed esattamente come il capo
tribale, costui guidava la jamà'at al-mu'minin, l'assemblea dei fedeli, certo non più
secondo le usanze tribali tradizionali ma con una nuova sunna costituita dalla Parola di
Dio e dall'autorevole esempio del Profeta.
Furono questi appunto gli anni (632-61) seguenti immediatamente la morte del Profeta in
cui regnarono i khulafà '1-ràshidun, i 'Califfi ben Guidati': la mitica età dell'oro verso la cui
«ri-creazio-ne» tendono i musulmani, come si vedrà meglio più avanti. È da un simile
10
Ivi, p.14.
13
contesto che nasce l'aspetto paradossale per cui l'Islam, religione dell'assoluta unità
teologale, è sfociato di fatto in una pluralità sociale. Ciò perché l'unità spirituale assoluta
della umma non esclude affatto la differenza, che anzi è esplicitamente riconosciuta
accettata e valorizzata nel Corano stesso.
Da ciò
11
, oltre che ovviamente dalle evoluzioni storiche, deriva che non esiste una società
musulmana ma una molteplicità di strutture sociali e di istituzioni che si richiamano
all'Islam. Altrettanto dicasi per la facilità con cui nel mondo musulmano sono convissute e
si sono integrate in forma positiva popolazioni appartenenti a gruppi etnici, linguistici,
culturali, sociali, economici cosi diversi come gli Arabi, i Persiani, i Turchi.
Non solo in seno alle società musulmane si registra la compresenza di due stili religiosi in
continua tensione tra loro. Da un lato c'è l'ideale del Dio Unico, al quale si accede senza
mediazioni di clero, ma al più facendo riferimento alla Rivelazione tramite l'aiuto della
classe dei dotti ('ulama) privi comunque di qualsiasi sacralità carismatica, e quindi non
assimilabili a un corpo sacerdotale. Dall'altro invece esiste un ideale associativo che
propone una gerarchia di uomini e donne che mediano e propiziano il rapporto con Dio. Ma
tra Islam colto, ufficiale, dotto, e Islam popolare non c'è separazione: si tratta, come detto,
di due stili di un'unica realtà.
Anche storicamente e per cosi dire cronologicamente l'appartenenza del musulmano
all'Islam si struttura su due piani. Da un lato essa si pone infatti in riferimento al Corano,
dove si è incarnata la Parola di Dio, e all'imitazione (taqlid) del Profeta da realizzare tramite
il ricorso ai testi fondanti della Tradizione (sunna). Tutto questo apparato rinvia dunque
ad un Tempo mitico, para-digmatico: quello della Comunità originaria del Profeta e dei
suoi immediati successori, il momento cioè in cui la società ideale si è fatta quotidianità e
storia.
L'Islam infatti ha i suoi secoli d'oro, che non sono però collocati in un'epoca utopica all'alba
dell'umanità né alla fine dei tempi, ma bensì in un periodo storico definito, quello del
regime di Medina e dei quattro Califfi ben Guidati, punto centrale della memoria della
comunità. Di conseguenza l'utopia si pone per l'Islam non come un luogo o un tempo
11
Ivi, p.16.
14
archetipale o futuro, ma come nostalgia di un'epoca storicamente identificata e
ricostruibile, anche se in maniera inevitabilmente arbitraria. Così come il Profeta è un
personaggio storico di cui si può tentare di ricostruire la biografia nel dettaglio,
accettando quindi quale ideale da imitare un'esistenza concreta fatta anche di umane
esitazioni e di incongruenze, allo stesso modo è sul già accaduto, e a posteriori, che si
possono e si devono costruire principi cui uniformarsi per ricreare la situazione entro
cui l'utopia sia realizzabile.
Ossia, per riprendere una formulazione di Abdelwahhab Bouhdiba, nell'Islam la
tendenza principale verso l'Eterno è caratterizzata da una nostalgia verso un ordine
assoluto che è Dio. Per cui,
12
lungi dall'essere portatrice di progresso, la Storia è
indietreggiamento, allontanamento progressivo in rapporto al Modello originale, che
per forza di cose sarà avvolto in un alone, ingigantito, mitizzato. Storia, profezia,
leggenda e mito finiscono per confondersi. Il comportamento esemplare sarà sempre di
restituzione e di restaurazione, mentre ogni creazione originale posteriore alla Profezia
sarà sentita come innovazione e talora perfino come innovazione da condannarsi. Al
contrario lo sforzo autentico sarà rivolto verso un adeguamento di se stessi all'esempio
perfetto, sarà cioè ri-creazione.
Lo stesso concetto è stato riaffermato, con un riferimento polemico alle realtà politiche
attuali, da M. Talbi: «per un'attitudine propria a tutti gli uomini e forse presso gli Arabi
ancor più marcata, si è presto giunti a pensare che la società islamica perfetta non è
davanti ai musulmani, i quali devono tendere ad essa asintotica-mente in un perpetuo
sforzo di edificazione, ma piuttosto dietro a loro, nel migliore dei momenti della storia,
cioè quello del Profeta. Nessuno più si oppone al progresso, né gli sarebbe facile farlo,
ma, soprattutto sul piano spirituale, dell'etica e quindi della società, si continua a
concepirlo in termini di involuzione più che di evoluzione. Tutti i movimenti
riformisti, anche i più recenti, hanno ingaggiato la battaglia dell'evoluzione sotto la
bandiera della salafiya, cioè di un movimento a ritroso, il che non è probabilmente
estraneo al loro ormai palese fallimento.
12
P. Branca, Voci dell’Islam moderno. Il pensiero arabo-musulmano tra rinnovamento e tradizione,
Genova, Utet, 1991, p.93.
15
Veniamo cosi al secondo piano dell'appartenenza storico-cronologica del musulmano
all'Islam. Essa trova allora fondamento nel vissuto quotidiano attraverso una serie di
azioni concrete e iterate, tra cui prevale la preghiera. Individuale ma nello stesso tempo
collettivo perché compiuto da tutti nello stesso momento, questo rito esprime una
forma comunitaria, effimera certo perché dura solo il tempo della preghiera stessa, ma
con un potente effetto di strutturazione del credente in rapporto agli altri fedeli.
Strutturazione sia a livello del tempo, dato il carattere ripetitivo e ciclico, sia nello
spazio, attraverso i ranghi dei credenti posti gomito a gomito, tutti orientati verso un
unico punto (la Mecca). Quest'ultimo perciò non è soltanto un simbolo o la meta del
pellegrinaggio, ma diventa il polo di attrazione quotidiano dell'immaginario collettivo.
Senza contare che accanto alla preghiera coesistono l'astinenza del mese di ramadàn e
appunto il pellegrinaggio alla Mecca, entrambi atti individuali ma nello stesso tempo
collettivi che si reiterano regolarmente in uno specifico periodo dell'anno fino al
giorno della Resurrezione.
Quindi, in sostanza, se da un lato c'è un Tempo assoluto già pre-fissato, dall'altro
esiste la Storia che nella visione dei popoli musulmani non sarà un'evoluzione
ininterrotta e progressiva, i intinto una continua successione di fratture, di rinnovamenti
e di adattamenti. Volendo tener conto anche delle realtà contemporanee è importante
segnalare che il concetto di umma ovviamente non prendeva in considerazione le
divisioni moderne tra Stati, e quindi ignorava (e ignora) le frontiere di recente e
recentissima definizione, quelle stesse frontiere nondimeno ritenute oggi inviolabili e
immodificabili anche da molti musulmani.
Da
13
qui derivano tutta una serie di contraddizioni. Infatti i circa cinquanta Stati che si
definiscono in vario modo «musulmani» hanno oggi strutture politiche, economiche,
sociali spesso assai diverse le une dalle altre, nonostante si richiamino tutti all'Islam e
facciano parte di alleanze o accordi sovrannazionali auto-definentisi «islamici» come ad
esempio la Conferenza Islamica. A proposito della diversità di interpretazioni,
clamoroso il caso messo in luce dal cosiddetto «rapporto Munir» presentato da mia
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G. Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano, Torino, Einaudi, 2002, p. 20.
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