INTRODUZIONE
Il cannibalismo è un fenomeno tra i più controversi ed enigmatici della storia
dell‟umanità. Esso produce da un lato curiosità e dall‟altro disgusto e
disapprovazione. Prescindendo dalle reazioni emotive a cui il cannibalismo
inevitabilmente sottopone, è necessario tenere conto di tutte le implicazioni
politiche, storiche, etiche, ideologiche e religiose in cui il cannibalismo è
invischiato per approdare ad un‟interpretazione verosimile della pratica
antropofagica. Il presente elaborato lungi dall‟essere esaustivo, si prefigge
l‟obiettivo di ripercorrere i dibattiti sul cannibalismo: a partire dalla scoperta del
Nuovo Mondo sino ai più recenti studi antropologici.
Nel primo capitolo della mia trattazione evidenzierò i momenti salienti del
dibattito che ha preceduto l‟interpretazione del cannibalismo in antropologia. A
partire dai resoconti latini e greci e dagli scritti dei gesuiti, traccerò le principali
tappe del contatto tra europei e nativi del Nuovo Mondo; una relazione questa
tutt‟altro che paritaria, in cui si assiste a continue e reciproche accuse di
cannibalismo. Cercherò quindi di porre in evidenza come la pratica antropofagica
sia servita come potente strumento in mano europea per asservire i popoli
amerindiani: dal viaggio di Colombo alla colonizzazione del Messico ad opera di
Cortes, emerge infatti la volontà precisa dell‟Occidente cristiano di utilizzare il
cannibalismo e l‟opera di evangelizzazione per legittimare l‟assoggettamento
degli amerindiani e l‟accaparramento dei loro beni, primo fra tutti l‟oro. Solo
aderendo ai precetti del cristianesimo e concedendo i propri beni al “civile
europeo”, il “primitivo” indigeno avrebbe potuto salvarsi dallo stato brado in cui
viveva. Iniziano così ad essere divulgate tutta una serie di teorie che indagano la
natura dell‟indigeno e che trovano la più estrema elucubrazione concettuale nella
teoria “dell‟inferiorità naturale del popolo indiano” formalizzata da Vitoria.
La concezione che dei nativi amerindiani aveva l‟Occidente subisce una
radicale modificazione concettuale grazie all‟opera di Montaigne, che è riassunta
nella celebre frase del suo Des Cannibales (1579) in cui lo studioso francese
afferma: «Si chiama barbarie ciò che non è nei nostri costumi» (Montaigne
2005:17). Seguendo la “logica dello specchio”, Montaigne conduce l‟Occidente
1
ad una riflessione sul sé e sulle proprie nefandezze. Posta di fronte ad uno
specchio, all‟Europa non resta che prendere coscienza di quanta barbarie ci sia nel
suo modus operandi e di come talvolta, il “crudele cannibale”, sia di gran lunga
più “umano” del “civile” europeo. Sarà dunque grazie a questo nuovo modo di
interpretare i fatti storici e gli individui che contribuiscono alla loro
determinazione, che durante l‟epoca dei Lumi si arriverà alla teorizzazione del
mito del “buon selvaggio”, in cui si assisterà alla contrapposizione tra la
rettitudine del popolo amerindiano e la corruzione delle istituzioni europee.
Queste sono le premesse con cui la nascente antropologia si affaccerà nella nostra
trattazione sulla scena del dibattito sul cannibalismo.
Nella stesura del secondo capitolo metterò in luce in primis alcune distinzioni
preliminari indispensabili per la comprensione della pratica antropofagica. In
particolare, possiamo distinguere due tipologie di cannibalismo
l‟endocannibalismo e l‟esocannibalismo, in base all‟appartenenza o meno del
soggetto da cannibalizzare, alla comunità che ne consuma le membra. Questa
distinzione si lega a quella tra i due contesti in cui la pratica è attuata: quello
funerario, in cui la vittima è il defunto, e quello “guerresco”, in cui la vittima
designata è un nemico.
Dopo aver tracciato questa classificazione tipologica focalizzerò la mia
attenzione sulle teorie antropologiche che hanno indagato il fenomeno del
cannibalismo. Seguendo un‟impostazione cronologica, inizierò dallo studio di
Volhard il quale, benché manifesti l‟evidente limite di essersi basato su fonti
alquanto discutibili e non su ricerche sul campo condotte in prima persona, risulta
comunque il primo tentativo dell‟antropologia di isolare e scandagliare le diverse
forme che questa pratica assume. Lo studioso tedesco distingue così ben quattro
forme di cannibalismo: profana, giuridica, magica e rituale e si addentra nel
tentativo di fornire una valida interpretazione di ognuna di queste, adducendo
numerosi esempi in merito. Lo studio di Volhard sta alla base delle interpretazioni
antropologiche posteriori ed il dibattito che segue si muove come un pendolo che
oscilla tra un‟interpretazione del fenomeno su base biologica e all‟altro estremo,
un‟analisi in chiave simbolica dello stesso. Emergono soprattutto in riferimento
all‟interpretazione del cannibalismo azteco, le teorie materialistiche di Harner ed
2
Harris che forniscono una lettura della pratica a partire delle condizioni
ecologiche del Messico le quali, avrebbero spinto gli Aztechi a cercare nella carne
umana apporti proteici altrimenti non disponibili. A questa teoria, come vedremo,
si oppone una rivisitazione dell‟argomento in chiave simbolica, le cui prime
mosse si devono a di Sahlins che sottolinea come, anche qualora il fenomeno
avesse alla base una spiegazione di tipo alimentare, ciò non spiegherebbe i
complessi rituali collegati al cannibalismo.
Come vedremo nella parte conclusiva del secondo capitolo, le teorie di Harner,
hanno posto le basi per ulteriori riflessioni di carattere biologico-medico a partire
dagli anni ‟90 dello scorso secolo. Queste nuove teorie mostrano una possibile
corrispondenza tra cannibalismo e carenza di serotonina. Secondo studiosi come
Ernandes, Giammanco, e Tartabini, che hanno indagato tale relazione, la carenza
di serotonina avrebbe determinato l‟insorgere di comportamenti aggressivi tra cui
annoverano il cannibalismo.
Nel capitolo conclusivo osserverò infine, a partire dalla riflessione di Augè,
come il cannibalismo manifesti la sua appartenenza ad una duplice dimensione:
quella della rappresentazione e del mito e quella di pratica reale. Ciò che nel
lavoro di Augè emerge con chiarezza è come del cannibalismo si possano
analizzare tre dimensioni intrinseche: ci si può interrogare su quale sia l‟origine
del connubio cannibalismo-mostruosità, che ha caratterizzato questa pratica lungo
tutto il corso della storia e che Augè definisce “fantasma cannibalico”; insistere
poi sul ruolo assunto delle cerimonie che si legano al cannibalismo, ed infine,
riflettere sul significato della rappresentazione.
Anche il vaglio delle testimonianze in merito al cannibalismo, come
sottolineato dagli studi di Evans-Pritchard ed Arens, manifesta questa continua
tensione tra reale ed immaginario, tra volontà di descrivere e desiderio di
“descriversi nell‟alterità”. Come indica Kilani, le testimonianze mostrano più
della società che le produce che della pratica in sé e per sé.
Il cannibalismo e la dialettica identità-alterità sarà quindi il tema proposto nella
parte conclusiva del mio elaborato. Cercherò mediante l‟analisi delle due forme
principali in cui la pratica si manifesta, l‟una funeraria e l‟altra “guerresca”, di
mostrare come il cannibalismo contribuisca alla costruzione dell‟identità collettiva
3
mediante la contrapposizione tra il «sé» e l‟«altro». Proverò dunque a evidenziare
come il cannibalismo funerario fornisca la possibilità di comprendere le istituzioni
culturali del popolo in cui ha luogo, sottolineando i processi sociali legati al lutto
ed il concetto secondo cui il divoramento del cadavere legittima un processo di
interiorizzazione delle qualità ed energie vitali del defunto.
La stessa dialettica dell‟alterità è presente nella cannibalizzazione del nemico
vinto in battaglia, nel divoramento della sua carne, nella sua riduzione ad animale
per legittimare i carnefici a consumarne le membra e nella creazione di modelli ed
antimodelli di umanità in cui una collettività si identifica ed alla quale
contrappone gli schemi interpretativi che non le sono propri.
Proporrò dunque, seguendo quest‟ultima prospettiva teorica, una visione del
cannibalismo come: «un operatore simbolico dell‟identità e dell‟alterità, del
dentro e del fuori, dell‟ordine culturale e dell‟ordine naturale, dell‟umano e
dell‟animale, dell‟ordine e del disordine» (Kilani 2005: 281).
4
CAPITOLO I – I DIBATTITI SUL CANNIBALISMO PRIMA DELLA
NASCITA DELL’ANTROPOLOGIA
1.1 La „scoperta‟ dei cannibali nel Nuovo Mondo: il cannibalismo come
“barbarie”
Sin dalle prime esplorazioni nel Mediterraneo occidentale i greci avevano
riservato all‟interno dei loro resoconti un posto privilegiato alle descrizioni dei
“mangiatori di uomini”. Tale usanza è descritta in numerose opere letterarie,
prima fra tutte a livello cronologico le “Storie” di Erodoto in cui lo storico greco
riscontra tale pratica presso due popolazioni: gli androfagi, popolo asiatico vicino
agli sciiti (Storie, IV,18; 106) e i messageti (Storie, I, 216), che probabilmente
corrispondono ai Birhor dell‟India. I resoconti latini e greci furono divulgati dagli
enciclopedisti cristiani che aggiunsero altri popoli alla lista degli antropofagi.
Fanno seguito scrittori quali Plinio il Vecchio (“Storia naturale”, IV, 88; VI, 53;
195), Tolomeo (Introduzione geografica, IV, 8, 3; VI, 16, 4), Marco Polo che nel
“Milione” racconta degli usi cannibalici di alcuni popoli di Sumatra, Giappone e
delle isole Andamane nell‟Oceano Indiano, la Commedia dantesca e la penna di
Rabelais e Defoe (Comba, voce cannibalismo, in Enciclopedia Treccani,
http://www.treccani.it/enciclopedia/tag/cannibalismo/).
A coniare il termine “cannibalismo” fu Cristoforo Colombo. Il vocabolo trae la
sua origine da canibal, un‟alterazione dello spagnolo caniba usato dagli Arawak
per designare i Caribi ovvero l‟altra popolazione presente nella zona dei Caraibi,
nelle isole delle Piccole Antille, descritta per la prima volta da Cristoforo
Colombo come guerriera, sanguinaria che attuava il cannibalismo.
La storia della scoperta dell‟America e la figura del suo protagonista offrono
notevoli spunti d‟analisi sul fenomeno dell‟antropofagia. Come afferma Todorov
nel testo La conquista dell‟America (1992: 6-7): «La scoperta dell‟America, o
meglio degli americani, è l‟incontro più straordinario della nostra storia […]. La
storia del globo è fatta, certo, di conquiste e di sconfitte, di colonizzazioni e di
scoperte dell‟altro; ma […] è proprio la conquista dell‟America che annuncia e
fonda la nostra attuale identità». Per capire realmente la portata di
5
quest‟affermazione sarà dunque necessario comprendere i motivi che spinsero
Colombo a compiere una simile impresa.
Cristoforo Colombo genovese per nascita e in seguito suddito spagnolo partì da
Palos de la Frontera il 3 agosto del 1492 e sbarcò in America il 12 ottobre dello
stesso anno esattamente nell‟isola di Guanahani che egli ribattezzò San Salvador.
Si potrebbe affermare che il viaggio di Colombo sia avvenuto per soddisfare il
desiderio di arricchirsi di un mercenario e della corona spagnola che ne finanziò la
spedizione, ma alcune lettere scritte dallo stesso Colombo fanno ipotizzare che
non fosse solo questo a motivare la spedizione. Infatti, nella Lettera ai sovrani del
31 agosto 1498, Colombo scrive: «Fu necessario anche parlare di cose temporali,
e perciò furono loro mostrati gli scritti di tanti dotti degni di fede che si erano
occupati di storia e che raccontavano come in quelle regioni vi fossero immense
ricchezze» (cit. in Todorov 1992: 11). Da queste parole emerge come tali
“immense ricchezze” fossero usate come esca da Colombo per indurre la corona
spagnola a finanziare il suo viaggio. Nella Lettera al papa Alessandro VI, del
febbraio 1502, Colombo scrive: «Spero di poter diffondere il santo nome di
Nostro Signore e il Suo vangelo» (Todorov 1992: 13). Dunque la missione di
diffusione del cristianesimo si cumula con il motivo dell‟arricchimento ed il
desiderio di scoperta, presupposti che non si escludono reciprocamente.
È opportuno domandarsi cosa vuole realmente scoprire Colombo, in che modo
le sue credenze influenzano le sue interpretazioni, e infine, quale sia il rapporto
che egli ha stabilito con i nativi. Come sottolinea Vignolo (2009), per
comprendere il punto di vista di Colombo e dei primi esploratori che giunsero nel
Nuovo Mondo, bisogna tenere in giusta considerazione come questi credessero di
essere approdati in un emisfero fino ad allora sconosciuto ed irraggiungibile,
collocato agli antipodi. Gli antipodi, letteralmente “anti piedi” o “piedi al
contrario”, secondo la visione medievale sono terre lontane, associate in genere al
regno dei morti o a regioni ignote del sogno e dell‟inconscio. Essi evocano quindi
l‟immagine di un luogo i cui abitanti sono individui che vivono “a testa in giù e
gambe all‟aria” (cfr. Vignolo 2009: 1-2). Come è intuibile, Colombo sbarcato agli
“antipodi” era certo di trovare in quelle terre lontane individui bizzarri “che
vivono a testa in giù” ed è per tale ragione che evidenzia nelle sue descrizioni,
6
tutte quelle particolarità che collocano i nativi amerindiani nella sfera della
stranezza. Prima fra tutte emerge la caratteristica della nudità. Per la concezione
dell‟epoca cinquecentesca, alla nudità fisica corrispondeva una mancanza di
“civiltà” ed il passaggio da questa nudità materiale a quella spirituale fu
consequenziale. Ad avvalorare la tesi secondo cui i nativi non fossero altro che
dei “selvaggi privi di cultura” si aggiunge la mancanza di una lingua, o per meglio
dire l‟utilizzo di una lingua diversa da quella di Colombo che “è la lingua”. Le
descrizioni dell‟esploratore genovese sembra trattino l‟indigeno come fosse un
mero elemento paesaggistico tanto che egli descrive la loro bellezza fisica con un
atteggiamento di ammirazione. Dopo queste preliminari descrizioni legate
all‟aspetto fisico degli indigeni egli si inoltra nel tentativo di descriverne anche le
caratteristiche “morali” tra cui la generosità appare la più evidente. Ciò farebbe
presagire l‟instaurarsi di un futuro rapporto di stima reciproca tra i due popoli, ma
ben presto la stessa generosità, finirà per essere utilizzata come elemento volto ad
esplicitare la mancanza di intelligenza dei nativi: dato il diverso sistema di
scambio di doni, Colombo arriverà ad affermare che gli indigeni non sono in
grado di distinguere il valore degli oggetti, e con ciò ovviamente li accostava al
mondo delle bestie, legittimando un senso di superiorità dell‟uomo bianco.
Assistiamo così ad una colonizzazione spagnola che usando come pretesto la
volontà di “esportare/imporre” il messaggio cristiano rende possibile
l‟espansionismo militare e la sottomissione delle popolazioni amerindiane:
gli spagnoli danno la religione e prendono l‟oro.[…] Ma se [gli indigeni] non
vogliono dare le loro ricchezze? Bisognerà allora sottometterli militarmente e
politicamente, per potergliele prendere con la forza. […].Colombo passerà
dall‟assimilazionismo, che presupponeva un‟eguaglianza di principio, all‟ideologia
schiavista, cioè all‟affermazione dell‟inferiorità degli indiani [Todorov 1992: 54-
56].
Quanto fin‟ora detto si esprime altresì nella rappresentazione che Colombo
offre dei cannibali. Come evidenzia Vignolo (2009), tra tutte le creature
mostruose che popolavano l‟immaginario europeo rinascimentale, i cinocefali
furono quelli scelti da Colombo per descrivere i cannibali del Nuovo Mondo:
7
«Capì ancora che lontano di lì c‟erano uomini con un solo occhio e altri con un
muso di cane, i quali mangiavano gli uomini e, catturando qualcuno, gli
tagliavano la testa, ne bevevano il sangue e ne tagliavano i genitali» (cit. in
Vignolo 2009: 39). Essi si esprimono con suoni similari al verso animale e ciò
induce Colombo ed i suoi uomini e ritenerli esseri mostruosi simili alle bestie:
«La frontiera tra civiltà e barbarie nella cultura greca è innanzitutto una frontiera
linguistica. E i cinocefali sono gli abitanti di questa frontiera» (Vignolo 2009: 42).
L‟immaginario europeo che associa i nativi amerindiani ai cinocefali muta nel
corso della storia e approda all‟immagine dell‟uomo scimmia, non più una
creatura mostruosa bensì l‟animale che più si avvicina al prototipo di essere
umano, di cui ne rappresenta una “parodia”. Interrogandoci sul perché di questa
trasformazione iconografico-concettuale possiamo comprendere il significativo
cambiamento di relazione tra oppressori e sottomessi. Il cinocefalo ha infatti la
caratteristica di «mediare tra la condizione umana e la condizione animale, la
scimmia, al contrario, imita l‟uomo: i suoi versi, i suoi gesti sono una parodia
dell‟espressione umana» (Vignolo 2009: 67). Cinocefali e uomini-scimmia non
sono le sole figure mitologiche emblema del cannibalismo. Come afferma Rivera
(2000) assai diffusa è l‟idea secondo la quale all‟interno degli uomini dorma una
bestia pronta sempre a risvegliarsi. Questa concezione è presente in molteplici
figure mitologiche che albergano in Europa come il vampiro o il lupo-mannaro.
Quest‟ultimo in particolare, tormentata creatura della notte, ben rappresenta
questa bestialità che una volta esplosa, culmina in «un‟irrefrenabile pulsione verso
il cannibalismo e la violenza sessuale» (Rivera 2000:33).
Assistiamo quindi ad un graduale passaggio da una concezione secondo la
quale gli indigeni sono solo delle creature bestiali a quella che li vede come
tabulae rasae su cui è possibile “imprimere” il messaggio cristiano (cfr. Vignolo
2009: 63-65). Pertanto la questione si direziona verso la possibilità di
addomesticare i “selvaggi” del Nuovo Mondo insegnando loro a “ripetere” la
parola di Dio (cfr. Vignolo 2009: 67). Come scrive Vignolo: «I popoli dell‟altro
emisfero, opposti e complementari a noi, diventano i nostri simili. Ma l‟unico
modo di comunicazione possibile è l‟imitazione: per venire inclusi di nuovo nella
comunità umana, essi devono rinunciare alla loro alterità» (Vignolo 2009: 68).
8