Tali episodi, peraltro, sempre repressi e accompagnati da
disposizioni legislative antisciopero quali le costituzioni dell’imperatore
Zenone nel 470; le norme dettate da Federico I; le misure contro lo
sciopero contemplate dagli Statuti di Sassari, di Bologna, di Padova; le
proibizioni imposte da vari sovrani in Francia e in Gran Bretagna.
In realtà lo sciopero aveva quali principali presupposti non solo il
moderno consolidamento degli Stati e delle antitesi di classe o l’esistenza
di lavoratori liberi, ma soprattutto l’acquisizione di un’autonoma coscienza
sia pure elementarmente classista da parte di questi ultimi e la loro
conseguente tendenza all’organizzazione con specifici scopi rivendicativi
di lotta economica e in seguito anche politica.
Perciò, appunto, una pratica quantitativamente e qualitativamente
sempre più rilevante degli scioperi si è sviluppata prima in concomitanza
con l’assetto corporativo delle organizzazioni di mestiere, poi con il
passaggio a forme associative più complesse (unioni e federazioni operaie).
Storicamente, pertanto, lo sciopero è stato una delle “armi”
principali utilizzata dal movimento operaio e ha seguito gli sviluppi del
diritto del lavoro e dei processi economici che hanno determinato
l’evoluzione delle norme giuridiche e della loro funzione di mediazione sui
conflitti di interesse.
In tal senso la storia della libertà e del diritto di sciopero è andata
avanti di pari passo con la difficile acquisizione strappata alle classi
padronali e dirigenti dei singoli Stati, del diritto di associazione dei
lavoratori.
Questo decisivo processo ebbe inizio già nel secolo XVII e XVIII in
Inghilterra nel 1721, con molteplici diramazioni precedenti; in Francia
soprattutto con le ardue vicende degli operai di Lione, dove già nel 1744
scoppiò una grande insurrezione, e con gli scioperi urbani e agricoli
almeno dal 1688.
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Durante il secolo XIX, però, conseguì un sostanziale incremento,
dopo i cruciali eventi della rivoluzione industriale sul piano economico-
produttivo e della Rivoluzione Francese sul piano politico.
Rispetto alla rivoluzione industriale le reazioni iniziali ebbero come
protagonisti i lavoratori inglesi, che dopo varie forme di resistenza, dagli
scioperi e dalle associazioni più o meno segrete alla rivolta contro
l’introduzione stessa delle macchine, si orientarono in senso
corporativistico successivamente al riconoscimento fondamentale dei loro
diritti, ricorrendo spesso sia all’azione legislativa del Parlamento, sia a
soluzioni arbitrali delle vertenze.
Rispetto alla Rivoluzione francese prevalsero abbastanza a lungo le
tradizioni illuministiche e le concezioni individualistiche informanti la
rivoluzione, sicchè, con il pretesto di prevenire la rinascita delle antiche
corporazioni, le coalizioni operaie furono considerate un “delitto”
dall’Assemblea Nazionale, e il divieto di sciopero e di serrata fu ribadito
dal Codice Napoleonico.
Con la Restaurazione vi fu una prolungata ripresa degli scioperi fino
all’emanazione di una legge in Francia che autorizzava la costituzione
delle cd. Camere sindacali.
All’incirca nello stesso periodo si aggiornavano le legislazioni di
altri Paesi, in tutto il mondo numerose e spesso cruente furono le astensioni
dal lavoro, principalmente per ottenere miglioramenti salariali o delle
condizioni lavorative e per motivi di solidarietà.
In Italia lo sciopero ha subito una trasformazione particolare in
quanto è stato oggetto di una “fase di repressione” durata fino al 1889 e
ripresa nel periodo fascista, dove era considerato reato, successivamente,
dal 1890 al 1926, di una “fase di tolleranza”, dove veniva in rilievo come
forma di manifestazione dell’attività sindacale, per giungere, dopo la
caduta del regime fascista e l’avvento della Costituzione repubblicana
4
(1948), all’attuale “fase di riconoscimento” quale diritto pubblico
soggettivo.
Alle origini, nel ‘700 e nel primo ‘800, qualsivoglia coalizione di
lavoratori e di datori di lavoro volta ad influire sulla determinazione delle
condizioni di lavoro, veniva considerata reato dal codice penale sardo a
quel tempo in vigore.
La dura repressione penale risultò impossibile con l’affermarsi del
sindacalismo sotto la spinta incontenibile delle forze sociali.
Infatti, il reato di coalizione venne cancellato con l’entrata in vigore
del Codice Zanardelli, che ritenne lo sciopero fatto penalmente lecito,
purchè posto in essere senza violenza o minaccia, ma, essendo oggetto di
una mera libertà, era giuridicamente irrilevante, e piuttosto tollerato come
forma di manifestazione dell’attività sindacale.
Infatti, nonostante il Codice Zanardelli non aveva posto divieto al
diritto di sciopero, esso continuava ad essere ostacolato dalle forze
dell’ordine o da provvedimenti governativi, quali l’invio di soldati in
funzione di crumiraggio, la militarizzazione dei lavoratori delle ferrovie o
di altri servizi pubblici, gli alterni momenti di riformismo e di repressione
della politica giolittiana.
Nei primi anni del XX secolo lo sciopero assumeva recise aperture e
finalità politiche.
Tutto ciò, ovviamente, non avvenne soltanto sulla base di più o
meno spontanee reazioni delle masse, ma trovò contemporaneamente
giustificazione e sostegno teorico nelle nuove ideologie sviluppatesi in
funzione delle classi lavoratrici: le teorie socialiste e comuniste, e in
particolare il “Marxismo”.
Tali teorie rivendicavano nello sciopero la basilare forma di difesa
economica e politica dei lavoratori contro l’aspetto capitalistico.
5
Su tali basi con la crescente industrializzazione e tecnicizzazione
della società contemporanea, la pratica dello sciopero si è moltiplicata e
ulteriormente differenziata nel nostro secolo, estendendosi anche alle
masse dei Paesi coloniali e sottosviluppati.
La tematica delle agitazioni operaie si è notevolmente arricchita
nella seconda metà del secolo scorso, riflettendo i complessi problemi
economico-normativi, politici, organizzativi, umani, connessi con le
innovazioni tecnologiche e con il crescente peso delle masse lavoratrici nel
mondo contemporaneo.
Così si sono applicate forme nuove, “abnormi” rispetto alla prassi
tradizionale di lotta sindacale e politica, a fianco di quelle ufficiali, e di
regola acquisite anche dalle legislazioni statuali: dall’ostruzionismo e dallo
sciopero “bianco”, applicanti alla lettera le disposizioni vigenti, alla non
collaborazione; dallo sciopero cd. “alla rovescia”, espletante attività non
preordinate dagli imprenditori, allo sciopero “a scacchiera”, paralizzante
in tempi diversi singole branche produttive, e allo sciopero “a singhiozzo”,
caratterizzato da interruzioni brevi e alternate dal lavoro.
Nel nostro ordinamento, durante il periodo corporativo vennero
create una serie di figure criminose tra cui il reato di sciopero e di serrata
per fini contrattuali, reati di sciopero politico e di sciopero di solidarietà, di
boicottaggio, di occupazione d’azienda e di sabotaggio.
Tutte figure, queste, che vennero inserite nel codice Rocco, tuttora
vigente, dove vennero sanzionate come delitti tutti i mezzi di lotta
sindacale.
Lo sciopero, oltre ad essere represso penalmente, dagli artt. 502-505
c.p., in quanto delitto “contro l’economia pubblica”, era, inoltre, vietato
dalla cd. legge sindacale, art. 18 della l. 563/26.
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Con l’emanazione della Costituzione del 1948 lo sciopero ha trovato
solenne riconoscimento come diritto, inquadrandolo come tale
nell’ordinamento giuridico.
Il legislatore costituente ha segnato un decisivo “salto di qualità” nel
processo di giuridificazione dello sciopero nell’ambito dell’ordinamento
statale, identificando nello sciopero uno dei diritti fondamentali che
caratterizzano i rapporti economico-sociali e che, al tempo stesso,
delimitano la posizione soggettiva dei lavoratori tutelata nell’ordinamento
costituzionale.
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Infatti, qualificando l’astensione dal lavoro come diritto, è stata
garantita ai partecipanti allo sciopero l’immunità da qualsiasi sanzione in
quanto, per un principio giuridico, l’esercizio di un diritto da parte del suo
titolare non può essere qualificato come illecito.
Il significato di questa norma va al di là di una semplice
contrapposizione al precedente regime di repressione penale del ricorso ai
mezzi di lotta sindacale.
Essa non si limita a riportare in vita una libertà già vigente
nell’ordinamento dell’Italia prefascista, ma supera la concezione liberista,
che ammetteva lo sciopero come libertà, ma senza specifiche garanzie, e,
sulla base della considerazione dell’ineguale rapporto di forze esistenti tra
le stesse parti, configura lo sciopero come diritto.
5
L’art. 40 della Costituzione, affermando che “il diritto di sciopero si
esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”, ha attribuito il cd. diritto
di sciopero, e in tal modo ha legittimato il comportamento dei lavoratori
sia sotto il profilo di inadempimento al contratto di lavoro, sospendendo
per la sua durata la responsabilità per violazione dell’obbligo di lavorare, e
4
Vedi G. Pera, “Lo sciopero e la serrata”, in Nuovo Trattato di diritto del lavoro, Padova, 1971, pag.
557.
5
Vedi G. Giugni, Lo sciopero nella Costituzione, in Diritto sindacale, Bari, 2001, pag. 215.
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consentendo al datore di lavoro di non corrispondere il compenso per le
prestazioni lavorative non effettuate.
Tale diritto viene interpretato come un diritto potestativo in senso
tecnico, che consente ai lavoratori di modificare il contenuto del rapporto
di lavoro determinando la temporanea quiescenza delle due obbligazioni
principali, di prestare l’attività lavorativa e di corrispondere la retribuzione.
La caduta del regime fascista e la promulgazione della Costituzione
della Repubblica non ebbero per conseguenza l’automatica scomparsa
delle norme repressive dello sciopero.
Il legislatore ordinario si è astenuto per un lungo periodo
dall’intervenire in materia di rapporti sindacali, e sono, pertanto, mancate
leggi regolatrici che inquadrassero la norma costituzionale
nell’ordinamento giuridico
Solo dopo più di un ventennio è stata emanata la legge n. 300/1970
(cd. Statuto dei lavoratori) recante norme sulla tutela della libertà e dignità
dei lavoratori, nonché della libertà e dell’attività sindacale nei luoghi di
lavoro.
Sono trascorsi ulteriori venti anni per arrivare alla legge n. 146/1990
sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali.
Altri interventi legislativi si sono occupati della materia solo per
aspetti e per settori particolari.
Nella costruzione del sistema oggi vigente, ha assunto grande
rilievo, l’attività di elaborazione e di interpretazione della disciplina
giuridica dello sciopero, svolta dalla dottrina e dalla giurisprudenza;
attività che ha influenzato profondamente anche la successiva produzione
legislativa.
Le difficoltà interpretative, sorte dall’espressione “leggi che lo
regolano”, sono state considerate, non solo come un rinvio alle leggi
future, ma, anche, come rinvio alle norme legislative preesistenti, da
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reinterpretare, al fine da armonizzarle con il principio stabilito dalla
Costituzione.
Pertanto, doveva essere abbandonata la tesi che attribuiva carattere
programmatico all’art. 40 della Costituzione, poiché riteneva ancora
vigente la regolamentazione repressiva dello sciopero.
L’abrogazione esplicita delle norme incriminatici dello sciopero non
è avvenuta con atto legislativo, ma si è avuta attraverso l’incisivo
intervento della Corte Costituzionale, la quale, parzialmente, e a più
riprese, ha dovuto correggere la normativa del codice penale.
L’attività decisoria della Corte Costituzionale, con numerose
sentenze di interpretazione e di delimitazione dell’area di operatività delle
norme penali contenute nel Codice penale del 1930, ha contribuito a
definire le forme di esercizio legittimo dell’azione sindacale nel rispetto
dei principi generali dell’ordinamento.
Tali principi impongono la necessità di contemperare le esigenze
dell’autotutela dei lavoratori con altri beni e valori giuridicamente
rilevanti, che trovano diretta protezione in altre disposizioni della stessa
Costituzione.
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6
Vedi F. Carinci, Il conflitto collettivo nella giurisprudenza costituzionale, Milano, 1971.
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