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«something that stands for something else» - (Peirce, Collected Papers
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, 1931-1958,
2.228). Un segno è per esempio una testimonianza, una figura, un sintomo, un tratto
della fisionomia, ecc. La funzione primordiale del segno è quella di rimandare
(Chiesa, Sémiosis, 1991, pag. 331). Una cosa diventa segno di qualcos'altro se
rimanda ad una realtà determinata, con la quale stabilisce una relazione. In tal senso,
cose diverse possono essere trasformate in segni e utilizzate come strumenti di
riconoscimento, di distinzione, di rappresentazione o per far conoscere le cose alle
quali rimandano e che significano.
Per Peirce non c'è bisogno di una volontà comunicativa umana. Cioè, non è
necessario che il segno sia prodotto intenzionalmente. L'emittente del segno può
anche essere non umana, l'importante è che sia umano il ricevente.
Per esempio, prendiamo coloro che ci informano sul tempo: perché sono sicuri,
quando ci dicono che domani non farà bel tempo? Lo sono perché sanno
interpretare i segni meteorologici (anticicloni, umidità, nuvole, tutti fenomeni che
non sono prodotti intenzionalmente), nel senso che sanno che un certo segno ha un
certo significato, se messo in relazione con un altro segno che ne ha un altro.
Quindi, i segni di cui si servono i meteorologi per consigliarci non sono emessi da
uomini; tuttavia, poiché ci sono degli interpreti che li registrano e li "leggono", essi
acquistano "valore semiotico". Va da sé che questi segni esistevano anche tanto
tempo fa, solo che gli uomini non erano in grado di stabilire correttamente le
relazioni tra di loro.
Non erano in grado, cioè, di vedere certi indici (termine usato da Tonino Casula ne Il
libro dei segni, pag. 60) come segni, in quanto non erano capaci di dar loro dei
significati (Tonino Casula, op. cit., pag.59-60).
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La numerazione delle opere di Peirce segue quella classica dei Collected Papers, 1931-58, il primo numero
indica il volume mentre i numeri dopo il punto indicano i paragrafi.
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La scienza che si occupa dei segni è la semiotica
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che Peirce definisce come la
«dottrina quasi necessaria e formale dei segni» (Peirce, C.P., 1931-1958, 2.227).
Chiamandola "semiotica", egli ci dà una visione più allargata della semiologia. La
semiotica quindi non è solamente lo studio del linguaggio ma è lo studio della
relazione tra la lingua, il pensiero ed il comportamento. Casula sostiene che tutta la
cultura, cioè tutti i comportamenti umani (dalla comunicazione attraverso le parole,
ai diversi modi di tenere in mano un bicchiere) è comunicazione, nient'altro che un
sistema di significazioni strutturate (op. cit., pag. 60). Ciò vuol dire che le regole di
comunicazione non riguardano solo i segni linguistici che utilizziamo per dare forma
a cose e concetti (come li chiama Saussure, i "significanti") ma anche gli attributi che
diamo alle cose e ai concetti. Prendiamo, ad esempio, una «cosa» come la cattedra.
Non solo esprime dei significanti quando se ne usa il significante (cioè, la «parola»,
l'immagine, ecc.), ma anche quando si presenta come «cosa», come «oggetto». In
altre parole, sia che «se ne parli», sia che la si veda concretamente, la si organizza in
strutture che si definiscono campi semantici. A dirla diversamente, il significato
«cattedra» non assume valore comunicativo solo quando è messo in relazione col
suo significante (la parola e l'immagine cattedra), ma anche quando lo si considera
come qualcosa di diverso e di opposto, per esempio, a banco, scrivania, ecc. (Tonino
Casula, op. cit., pag. 64).
Una cattedra (non solo come parola) difficilmente sfugge al suo destino: assume il
significato di «potere», «posto di lavoro», «mobile con cassetti dove si conserva il
registro, il gesso» (dal punto di vista del professore), oppure di «repressione», «posto
riservato al professore» (dal punto di vista degli studenti). Oppure, richiama altri
campi semantici, come tavolo, scrivania, altare (per esempio in un contesto dove la
scuola è il " Tempio della Cultura "! ).
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Sinonimo di semiologia, in quanto scienza dei segni (linguistici o altri): più in particolare, la semiotica si
propone come oggetto i modi dell'attività semica o semiosi. Con riferimento a una disciplina autonoma, il
termine, nella forma angloamericana semiotic, fu usato la prima volta da Ch. S. Peirce (1839-1914) ed è stato
preferito rispetto a semiologia , dagli studi che s'ispirano alla tradizione anglosassone e che riguardano per lo
più il funzionamento dei sistemi di segni sia naturali sia artificiali. (cit. da Vocabolario della lingua italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Treccani, Milano, 1994).
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Nella logica moderna è la semantica che studia le leggi e le condizioni sotto le quali i
segni ed i simboli, incluse le parole, si possono considerare aventi significato. È una
disciplina che riguarda la lingua, ma si parla, estensivamente, anche di semantica
pittorica, musicale, ecc. Nel suo libro, Introduzione alla semantica (1999), Tullio
De Mauro afferma che il significato non scaturisce da virtù contenute negli involucri
delle parole, delle frasi e di tutte le forme linguistiche, bensì dai contenuti che gli
uomini decidono di metterci dentro. Per "cultura" ad esempio possiamo intendere
solo il possesso di nozioni, cioè sapere qual è il peso specifico del cloruro di
polivinile, chi ha scritto il 5 Maggio, oppure anche l'insieme delle istituzioni (la
scuola, la giustizia, le fedi religiose, ecc.) che una società, in un dato momento si dà;
sono cultura l'economia, l'arte, la scienza; ma anche i costumi, le abitudini, la
consapevolezza dei propri diritti e dei propri doveri e anche la produzione di
oggetti, il loro uso, le loro trasformazioni, il loro scambio, le relazioni di parentela; e
il modo di camminare, di mangiare, di ricevere gli ospiti…Inutile dire che un tale
concetto di cultura non ammette che esistano popoli "più colti" di altri, ma solo
culture «diverse».
Ad ogni modo, gran parte dei concetti fondamentali della semiologia saussuriana e
della semiotica di Peirce sono trasformazioni di nozioni che erano state utilizzate
frequentemente nella tradizione culturale sin dai tempi dei Greci.
Spesso infatti si crede che la semiotica sia una disciplina legata strettamente alla
contemporaneità. In realtà, l'interesse per i segni è molto antico ed è ampiamente
attestato nel mondo classico.
Il presente lavoro si propone di indagare la riflessione teorica sul segno che è stata
elaborata nel mondo antico, in particolare da Aristotele, e che c'è stata consegnata
dalla tradizione letteraria, filosofica, medica, storiografica, retorica. Si propone cioè
di ripercorrere le tracce di un filo che, dalle origini porta alla costituzione di una
nozione di segno abbastanza diversa da quella proposta nelle teorie del Novecento.
Infatti, la maggior parte delle dottrine del segno che sono state elaborate in questo
secolo si fondano su due presupposti che non compaiono nella riflessione classica
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su quest'argomento: 1. il modello di segno su cui si incentra l'indagine semiologica,
per la gran parte, è quello di segno linguistico; 2. il tipo di rapporto postulato come
istaurantesi tra le due facce del segno è quello dell'equivalenza. Da quest'ultima
assunzione dipende il fatto che la nozione di significato più diffusa fino a qualche
anno fa nelle teorie semantiche fosse quella che lo vedeva come sinonimia o come
definizione essenziale. A partire infatti dallo strutturalismo hjelmsleviano, fino ad
arrivare alle teorie di semantica componenziale ed interpretativa di impostazione
generativista, il singolo termine linguistico, o se si preferisce la forma
dell'espressione di un segno, è sentito come equivalente a una serie di figure del
contenuto, o marche semantiche, espresse a loro volta metalinguisticamente da
altrettante forme linguistiche (ad esempio, uomo = "essere animato" + "umano" +
"maschio" + "adulto") (cfr. Manetti, Le teorie del segno nell'antichità classica,
1987, pag. 2).
Un'analisi sul modo in cui nasce e si articola nell'antichità classica la riflessione sul
segno ci permette di affermare, rispetto al primo punto, che in origine non solo non
si ha omologazione dei vari tipi di segno sotto la specie di quello linguistico, ma che,
anzi, le due teorie procedono in maniera parallela, senza interconnettersi. Ne è un
esempio chiaro il fatto che Aristotele adoperi il termine sýmbolon per indicare il
segno linguistico e le espressioni semeion (sgmeÚon) o tekmérion (tekmòrion) per
indicare quello non linguistico. Per quanto riguarda il secondo punto, le teorie
classiche prevedono un funzionamento del segno secondo lo schema
dell'implicazione e non dell'equivalenza. Per citare un esempio celebre, che percorre
l'intera tradizione antica da Aristotele in poi, un caso paradigmatico di segno è : "Se
una donna ha latte, allora ha partorito", oppure "Se ha la febbre, allora è malato". In
altre parole si tratta di un "segno necessario", di un tekmérion nel senso di "prova"
(Eco, Semiotica e filosofia del linguaggio, 1984, pag. 25). Il segno necessario può
essere tradotto nell'affermativa universale, secondo la terminologia aristotelica,
"Tutte le donne che hanno latte allora hanno partorito" oppure "Tutti coloro che
hanno la febbre sono malati". Si noti che esso non instaura un rapporto di
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equivalenza (bicondizionale): infatti si può avere latte senza aver partorito e si può
essere malati (per esempio di ulcera) senza avere la febbre. Secondo Aristotele, vi è
anche un altro tipo di segno, detto "segno debole": "Se ha la respirazione alterata,
allora ha la febbre". Qui si vede che la conclusione è solo probabile perché la
persona potrebbe respirare in modo alterato perché, per esempio, ha corso.
Trasformato in premessa, sempre secondo la terminologia aristotelica, esso darebbe
solo una particolare affermativa: "Ci sono alcuni che hanno la respirazione alterata e
costoro hanno la febbre" (la forma logica non è quella dell'implicazione ma della
congiunzione). Si noti che il segno debole è tale proprio perché il segno necessario
non instaura un'equivalenza. Infatti, si ha un segno debole convertendo l'universale
affermativa, in cui si risolve il segno necessario, in una particolare affermativa: la
subalterna di "Tutti coloro che hanno la febbre sono malati" dà appunto, in termini
di quadrato logico, "Ci sono alcuni che sono malati e hanno la febbre" (che è
appunto un segno debole) (Eco, Semiotica e filosofia del linguaggio, 1984, pag.
26).
Questi schemi argomentativi, che non tengono ovviamente conto dei più recenti
rigori e formalismi logici, sono dei sillogismi ipotetici e saranno la gloria degli stoici
(Ibid.)
L'interesse di un lavoro di ricostruzione delle teorie semiotiche dell'antichità sta
nell'osservare come i campi nozionali e la terminologia associata ad essi si siano
venuti distinguendo lentamente e abbiano preso forma a partire da situazioni di usi
linguistici originariamente molto più magmatici. Già dai tempi di Omero in poi, la
parola sema designa tutto ciò che costituisce un segno, un segnale, un segno di
riconoscimento, un segno inviato dagli dei. Tutte queste cose sono segni nella
misura in cui possono essere riconosciute, interpretate o utilizzate come strumenti
per rimandare a qualcos'altro. Ma il segno è anche "il segno della voce" (semeion tes
phones), un nome, un discorso, dei caratteri scritti, delle lettere, delle sillabe. Per
Aristotele il "segno" e il "significare" sono le nozioni più adeguate per descrivere, in
modo generale, i fenomeni e le attività che riguardano la lingua. I nomi e i discorsi
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funzionano come segni perché possono rinviare alle idee e alle essenze, ai concetti e
agli stati d'animo, infine, alle cose stesse.
Aristotele è il primo che impone dei confini netti a termini e concetti che sono stati
usati sino alla fine del V secolo a.C. e oltre (ad esempio nei testi del Corpus
Hippocraticum) con un'oscillazione semantica considerevole. Prima della
categorizzazione aristotelica, espressioni quali semeion, aitía, próphasis, tekmérion,
eikós, non solo costituivano un campo di termini apparentati, ma anche di termini
che ammettevano una certa intercambiabilità e una parziale sovrapposizione.
Ugualmente, il riferimento culturale di certe espressioni era stato, prima di
Aristotele, eterogeneo e diverso: semaíno, ad esempio, era il verbo che indicava la
rivelazione oscura del Dio di Delfi; tekmaíromai, poi, denotava in generale il
procedere attraverso un ragionamento congetturale, ma nei tragici e nei lirici veniva
usato in riferimento alla pratica dell'interpretazione divinatoria; semeion, infine (o la
sua variante omerica sema), era il termine più complesso di tutti, indicando, fin dalle
origini, una molteplicità di cose, dall'indizio al segno di riconoscimento, al prodigio
divino, fino ad essere usato come termine generale per il segno divinatorio
(Manetti, op. cit. pag. 4). Con Aristotele, i termini del vocabolario semiotico, che
avevano mantenuto fino ad allora il riferimento alla sfera del sacro (e che
continueranno ad essere usati in tal senso fuori dagli ambienti filosofici e
razionalistici), vengono piegati ad un uso esclusivamente profano (Ibid.).Tuttavia, se
si perde il carattere sacro delle origini, qualche traccia rimane ed è leggibile in
trasparenza, se è vero che Aristotele, nella sua delimitazione dei campi concettuali,
riserva l'espressione semeion al segno che non dà certezze e che può risultare
ingannevole in quanto segno fisiognomico, segno del carattere, che indica questa o
quella disposizione d'animo (mentre riserva l'espressione tekmérion al segno sicuro):
qui, quello che era stato il segno ambiguo della rivelazione divina, diviene il segno
ambiguo del modello conoscitivo razionalistico. La nozione di segno quindi è
polivalente.
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Aristotele non ha cercato di classificare tutti i segni e non ha sviluppato una dottrina
semiologica autonoma. Tuttavia l'interpretazione della lingua in termini di segni e di
significato che ha proposto determina e segna tutto lo sviluppo delle teorie
linguistiche e semiologiche.
Il presente lavoro si propone di analizzare la teoria aristotelica della comunicazione e
della significazione linguistiche nella prospettiva di una ricostruzione ragionata della
semiologia del linguaggio di Aristotele. A tal fine, studieremo il rapporto di
significazione che lega i simboli alle cose; vedremo in che modo le parole rimandano
alle cose come segni e simboli di queste ultime; esamineremo il suono ed il senso e
in che modo le parole acquistano significato; spiegheremo la categorizzazione
aristotelica del nome (omonimi, sinonimi, paronimi), del verbo e delle parole
indefinite; studieremo i generi delle cose, la regola del predicato e il logos.
Aristotele ha chiaramente riconosciuto l'importanza, la specificità e l'autonomia
relativa a tutte le arti della parola e delle funzioni linguistiche che corrispondono
loro.
La filosofia del linguaggio di Aristotele appare come una filosofia "plurale" della
significazione. Mezzo di significazione sociale, tutto il linguaggio è segno. Aristotele
ha sviluppato, inventato la maggior parte delle discipline che si occupano, in un
modo o in un altro, del linguaggio: la grammatica, la logica, la dialettica, la retorica,
la poetica, la fisiologia e la psicologia del linguaggio.
Ma non ha tentato di costruire una scienza unica del linguaggio. Come filosofo, si è
limitato a fornirci, con osservazioni ellittiche e fuggitive, gli elementi e i principi
generali che sono diventati per noi "simboli" e "segni"; il nostro intento, con
quest'analisi, è quindi quello di raggruppare le osservazioni di Aristotele in materia di
significazione linguistica principalmente attraverso i seguenti scritti: Le
Confutazioni sofistiche, Dell'Anima, la Poetica, le Categorie e il
Dell'Espressione.