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l’uomo in quanto animale intrinsecamente sociale e possono sussistere
solo laddove sia garantito il totale rispetto per la persona umana
globalmente intesa. In reazione ad un’esperienza di totalitarismi e
violenza, come fu quella della seconda guerra mondiale, gli autori della
scuola di Francoforte ricercarono la situazione dialogica ideale, fondata
sulla totale assenza di coercizioni e sulla ricerca cooperativa della verità.
E’ il periodo di Habermas con le sue teorie sull’opinione pubblica
generata da occasioni di scambio e di dibattito pubblico. E’ anche
l’epoca della psicologia costruttivista e del suo celebre teorema secondo
il quale sono necessarie almeno due persone per avere una verità.
Etico è in quest’ottica ciò che alimenta il dialogo, lo scambio costruttivo,
la criticità, la rappresentazione pluralista della verità. Può considerarsi
etica una comunicazione che spegne la capacità di astrazione e pensiero
critico? Questa è la domanda che prepotentemente pone Giovanni
Sartori, quando afferma che la nostra è una società tele-diretta. Secondo
l’autore le comunicazioni di massa, ed in prima linea la televisione,
impoveriscono le informazioni disattivando la capacità logico-critica del
pubblico. Ciò è il risultato del sensazionalismo, dell’eccessivo
coinvolgimento emotivo, della esaltazione del pathos sul logos, come
testimonia ad esempio la vicenda di Lady Diana, in una finalità
commercialmente spendibile. La forte critica di Sartori non risparmia
certamente Internet: questo medium, dal potenziale informativo e
dialogico enorme, risulta purtroppo svilito dalle sue applicazioni
culturalmente più basse e di solo intrattenimento. Quando l’homo
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sapiens rinunci alla capacità di apprendere e sviluppare un pensiero
proprio ed originale, per dedicarsi al solo svago e ricezione passiva, e
passivante delle informazioni, dice l’autore, l’ignoranza si converte in
virtù.
Se dunque etico è ciò che stimola il dialogo e lo spirito critico, il Web è
solo potenzialmente più etico di altri media.
D’altro canto, c’è chi nella necessità di relazione e dialogo affonda le
radici della sua esistenza: il mondo dell’associazionismo.
Un’associazione nonprofit nasce laddove più persone sono riunite da uno
scopo comune, da una comunanza di intenti, spesso in vista di un
cambiamento sociale. Dunque i movimenti sociali vanno considerati, in
prima istanza, come reti di relazioni, ossia legami sociali il cui collante è
lo scambio comunicativo a vari livelli. Associarsi significa creare una
rete, un network, per poter dare risposte articolate nei confronti delle
problematiche sociali caratterizzate spesso da un alto livello di
complessità.
Per promuovere il cambiamento sociale un ente nonprofit necessita, in
primo luogo, di una serie di competenze tecnico-amministrative e di una
notevole quantità di informazioni (legislazione, opportunità, bandi,
conoscenze di management, gestione aziendale, eccetera) per poter
operare in maniera professionale e poter gestire il rapporto, complesso
ma necessario, con le istituzioni pubbliche. La comunicazione si
presuppone, in questo caso, come fondamento della conoscenza, in
un’ottica vygoskiana di apprendimento costruttivista. Gli operatori del
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nonprofit necessitano di formazione, aggiornamento e competenza
professionale per garantire un servizio di qualità e una oculata gestione
delle risorse.
Il successivo passo per implementare il mondo dell’associazionismo
consiste nel creare legami comunicativi interni al settore, in vista di
occasioni di collaborazione e ideazione di iniziative congiunte e, in
un’ottica di più ampio respiro, per la costruzione di una comune identità
del terzo settore, nella consapevolezza che, nonostante le diversità,
esistono fini comuni e un’anima comune. Quello del nonprofit si
configura come un settore estremamente frammentato, frutto di una
molteplicità di origini e scopi. Fare rete, dunque, significa anche
confrontarsi, dialogare e collaborare, passando da una prospettiva di
gruppo ad una prospettiva di comunità.
Ad un livello ancora più ampio, comunicare significa, per un ente
nonprofit, aprirsi alla società civile, coinvolgere con il proprio messaggio
le scuole, le aziende ed i singoli cittadini per ampliare il consenso attorno
alla causa e aprire nuove vie al cambiamento. Le associazioni nonprofit
non possono pensare di operare da sole, in un atteggiamento auto-
referenziale, ma nutrono la necessità di creare ponti ad ogni livello della
società.
Infine il terzo settore comunica sensibilizzando, divulgando la propria
mission, facendo conoscere problematiche e proposte, sviluppando il
proprio punto di vista. Il settore nonprofit deve fare informazione,
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portando agli occhi dell’opinione pubblica le problematiche sociali che
affronta e le risposte che propone.
Una comunicazione quella del settore nonprofit che si sviluppa, dunque,
in cerchi concentrici: conoscere, conoscersi, farsi conoscere, far
conoscere.
Questi quattro livelli di comunicazione comportano la conoscenza di
competenze specifiche, affinché lo si faccia in maniera corretta ed
efficace, nonché eticamente corretta. L’associazionismo necessita di
relazionarsi in un’ottica dialogica, di scambio costruttivo, di sapersi
confrontare con le sue diverse sfaccettature, nel rispetto delle sue varie
identità.
Di qui l’incontro obbligato con le nuove tecnologie. Esse forniscono
potenzialmente spazi di dibattito pubblico permanente, svincolati da
limitazioni spazio temporali, capillari ed economici, finora indipendenti
da esigenze di vendite e auditel. In Internet la comunicazione è reticolare
e decentrata, nessun interlocutore è in posizione privilegiata sugli altri e
tutti possono facilmente partecipare alla costruzione dei contenuti.
I luoghi di incontro on line e le recenti comunità virtuali possono
rispondere efficacemente alla domanda di comunicazione reticolare del
settore nonprofit: questa è la tesi di fondo sostenuta in questo lavoro.
La realizzazione della democrazia elettronica e la concretizzazione del
così detto “villaggio globale” sono probabilmente ancora ideali molto
lontani; troppe le disuguaglianze di accesso, la disinformazione e le
resistenze culturali al pieno utilizzo delle possibilità aperte dal Web. Ma,
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proprio questa situazione di passaggio dovrebbe stimolarci ancora più
nell’indagine delle nuove strade di comunicazione e relazione aperte
dalla comunicazione on line. Concretamente, infatti, esistono già
applicazioni pionieristiche delle comunità virtuali per lo sviluppo del
terzo settore e si stanno tentando esperienze tangibili del “fare rete”
anche grazie alla rete globale.
In fondo, la nostra è una epoca molto fluida e dinamica, in cui sembra
che la sola costante sia il cambiamento. Occorre rimaner consci che,
come amava affermare lo scrittore ceco Franz Kafka, credere nel
progresso non significa affatto che il progresso ci sia già stato.
Concludendo si può dire che la possibilità di interagire attraverso le
comunità virtuali non può essere ignorata dal mondo delle associazioni
nonprofit, a maggior ragione perché si tratta di un settore che fa della rete
la sua ragion d’essere. Il cammino è la sperimentazione e l’apertura alla
conoscenza, nella consapevolezza che uno strumento non possa essere
considerato etico o non etico, se non alla luce dell’uso che ne viene
fatto.
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NOTA METODOLOGICA
L’intento che questa tesi si propone è quello di analizzare le modalità
comunicative reticolari e le tecnologie ad esse vicine, in relazione alle
esigenze comunicative del settore nonprofit. I flussi comunicativi
vengono qui considerati non come elemento marginale o puramente
strumentale, bensì come funzione essenziale per la vita di una
organizzazione, in quanto rete di persone e di relazioni. Proprio a partire
dalle diverse funzioni che la comunicazione assolve negli enti nonprofit
sono strutturati i diversi capitoli: conoscere, conoscersi, farsi conoscere,
far conoscere. All’interno di ogni sezione, poi, si mostra come tale
funzione sia solitamente gestita, quali e perché nuove possibilità
vengono aperte dalla comunicazione on line e chi, nel panorama del
nonprofit, ha già eventualmente intrapreso un cammino in questo senso.
Si tratta di una ricerca esplorativa, che mira a descrivere la complessa
relazione che sussiste attualmente tra enti nonprofit e uso della rete. Non
esistono, infatti, griglie teoriche di riferimento entro le quali orientare la
ricerca, poiché, nonostante le comunità virtuali siano al centro
dell’attenzione di numerosi sociologi e studiosi, si tratta comunque di un
fenomeno di recente esplosione. Inoltre, la letteratura esistente sulla
comunicazione mediata dal computer si concentra principalmente su
tematiche solo parzialmente connesse al tema in questione, mentre
sembra che l’interesse del mondo della solidarietà per questo nuovo
media sia recentissima. Per questo l’inquadramento teorico della
10
problematica ha avuto un’impostazione di fondo prettamente
informatica, attraverso testi che inquadrassero le comunità virtuali
secondo una prospettiva tecnica. In questa fase ho mirato a delineare la
struttura, il ciclo vitale e le dinamiche dei luoghi di incontro on line.
D’altro lato, ho cercato di ricostruire il frammentato panorama del terzo
settore, anche attraverso la recente rilevazione censuaria condotta
dall’Istat. In particolare, mi sono soffermata sulle esigenze comunicative
proprie delle organizzazioni nonprofit e sulle loro strategie di marketing.
In un secondo momento, grazie anche alle indicazioni fornitemi
dall’Osservatorio sulla comunicazione sociale e l’editoria del terzo
settore, ho fatto riferimento ad una serie di articoli di sociologi degli Stati
Uniti, dove il dibattito circa lo sviluppo del terzo settore in relazione alle
comunità virtuali è già avviato.
Alla revisione della letteratura ho però affiancato una costante
immersione nel Web, attraverso i motori di ricerca e la navigazione
libera, per conoscere alcune esperienze italiane di solidarietà on line.
L’osservazione sul campo non è stata eccessivamente strutturata e spesso
accompagnata da contatti con “testimoni privilegiati”, ossia direttamente
con i rappresentanti delle associazioni presenti in rete. Per ogni area
tematica trattata nel mio lavoro ho cercato di associare un riscontro
concreto on line, individuando le esperienze fatte in Italia e, in alcuni
casi, a livello internazionale.
E’ una ricerca che procede dunque idiograficamente poiché il rapporto
tra comunità virtuali e nonprofit non può, allo stato attuale delle cose,
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essere generalizzato, ma va posto in relazione alla cultura e alle risorse
delle singole associazioni. Allo stesso tempo la ricerca si propone una
valenza operativa ed è parzialmente finalizzata alla valutazione dei
traguardi raggiunti nell’efficacia e nell’efficienza della comunicazione
on line degli enti nonprofit. Per tale ragione ho cercato di mettere in
evidenza luci ed ombre di questo rapporto, sottolineando, in
atteggiamento propositivo, i risultati positivi ottenuti. Inoltre è proposta
una analisi di alcuni portali Web a cui ho fatto riferimento nel corso del
mio lavoro, valutando l’efficacia e l’impatto comunicativo sia a livello
strutturale che contenutistico.
Si è comunque volutamente evitata qualsiasi generalizzazione empirica
perché sono in gioco numerosissime variabili poco controllabili: l’uso
del Web all’interno di una associazione dipende infatti da una
molteplicità di fattori che spaziano dalla formazione del singolo
operatore volontario, alla cultura interna dell’ente, dalle risorse umane ed
economiche disponibili, alla generale resistenza culturale ai nuovi media.
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CAPITOLO I: IL SETTORE NONPROFIT E LE
COMUNITA’ VIRTUALI
1.1 - Una panoramica sul nonprofit tra innovazione e tradizione
E’ ormai opinione condivisa che il così detto terzo settore vada
crescendo visibilmente e si vada guadagnando un ruolo via via più ampio
e riconosciuto. La sua rilevanza economica e la qualità dei servizi offerti
hanno lentamente raggiunto livelli non trascurabili all’interno
dell’economia italiana.
Negli anni ’90 l’importanza del terzo settore non è stata immediatamente
compresa dalla società, tanto che il settore nonprofit è rimasto a lungo
oscurato dalle statistiche ufficiali e l’unico tentativo di stimare le sue
dimensioni risaliva ad un progetto internazionale dell’Università di
Baltimora del 1991. Ma è proprio in quel periodo che si è assistito
all’esplosione del settore: durante i primissimi anni ’90, nonostante una
diffusa sensazione di cambiamento derivato anche dal crollo del vecchio
sistema di partiti, il terzo settore italiano giocava un ruolo ancora
secondario all’interno del sistema economico del paese. Nel 1991 infatti
esso dava lavoro a circa 400.000 persone, mobilitava quasi 300.000
volontari e generava poco più dell’1% del valore aggiunto nazionale.
1
In quello stesso anno però vengono varate due importanti leggi che
daranno un notevole impulso all’intero settore: la legge quadro sul
volontariato ( n. 266/91) e la legge sulla cooperazione sociale (n.
1
Dati tratti da: G. P. Barbetta, Il settore nonprofit italiano, Il Mulino, Bologna, 2000, pag. 10
13
381/91). Ecco che delle 221.412 istituzioni nonprofit censite nel 1999, il
55% risulta nato nell’ultimo decennio. Attualmente il fatturato
complessivo si aggira intorno ai 73.000 miliardi di lire annui, i lavoratori
retribuiti ammontano a 630.000 e si sfiorano i 3,2 milioni di volontari.
2
Cifre, dunque, importanti, che ci spingono a guardare al settore nonprofit
come ad una risposta di qualità alla crescente domanda -pubblica e
privata- di servizi.
Oltre alle lacune statistiche, recentemente si è colmata anche una lacuna
terminologica giungendo alla definizione <<strutturale/operativa>> di
ciò che si debba intendere per istituzione nonprofit. Con questo termine
si indicano “gli enti giuridici o sociali creati allo scopo di produrre beni e
servizi, il cui status non permette loro di essere fonte di reddito, profitto
o altro guadagno finanziario per le unità che lo costituiscono, controllano
o finanziano”.
3
Secondo questa definizione, devono essere considerate
come nonprofit quelle organizzazioni che:
a) sono formalmente costituite;
b) hanno natura giuridica privata;
c) si autogovernato;
d) non possono distribuire profitti a soci dirigenti;
2
ISTAT, Istituzioni nonprofit in Italia: i risultati della prima rilevazione censuaria, anno
1999, ISTAT, Roma, 2001
3
Ibidem.
14
e) sono volontarie, sia nel senso che l’adesione non è obbligatoria,
sia perché sono in grado di attrarre una certa quantità di lavoro
gratuito.
4
Vengono quindi escluse le “organizzazioni informali”, quelle cioè prive
di statuto o di un atto costitutivo, e le società cooperative che violino il
vincolo della “non distribuzione dei profitti”.
Sotto questa definizione si riuniscono comunque forme giuridiche molto
variate. Il codice civile distingue tra associazioni riconosciute o non
riconosciute (a seconda che abbaino ricevuto o meno la personalità
giuridica)
5
; le fondazioni che godono di un patrimonio dedicato al
perseguimento di uno scopo specificato all’atto; il comitato, associazione
temporanea che persegue uno scopo definito e raggiungibile in un arco
temporale limitato
6
.
La già citata legge 381/91 disciplina la figura giuridica dell’impresa
sociale: essa si caratterizza dallo scopo solidaristico, più che
mutualistico, e si dividono in cooperative di <tipo A> che erogano
servizi a persone in stato di bisogno e di <tipo B> che si occupano del
reinserimento lavorativo di soggetti svantaggiati.
Un altro tipo di istituzione nonprofit è dato dalle organizzazioni non
governative (ong) per la cooperazione allo sviluppo dei popoli sui
principi sanciti dalle Nazioni Unite, regolamentata però da una disciplina
ormai obsoleta: la 49/87.
4
G. P. Barbetta e F. Maggio, Nonprofit, Il Mulino, Bologna, 2002, pag. 14
5
Articoli dal numero 14 al numero 42 del codice civile
6
Articoli dal numero 2511 al numero 2545 del codice civile