INTRODUZIONE.
Il mito dello sport e la sfida del corpo.
Dove corrono i confini del corpo?
Dove termina il corpo?
M. Heidegger
Il fenomeno dello sport ha raggiunto al giorno d’oggi un’estensione
incredibile, non solo nella sua pratica, ma anche per le influenze che esso esercita
nella cultura, intesa in senso ampio. In questa pervasività esso è soggetto a diventare
un mito del nostro tempo
1
; ma in che senso oggi lo sport assume uno scenario
mitico? Non tanto, almeno non primariamente, nel concretarsi di un racconto a tinte
sacrali o eroiche, come si è soliti pensare il mito. Lo sport tende ad assumere un
connotato mitico in maniera più profonda e radicale:
A differenza delle idee che pensiamo, i miti sono idee che ci possiedono e ci
governano con mezzi che non sono logici, ma psicologici, e quindi radicati nel
fondo della nostra anima, dove anche la luce della ragione fatica a far giungere il
suo raggio. E questo perché i miti sono idee semplici che noi abbiamo mitizzato
perché sono comode, non danno problemi, facilitano il giudizio, in una parola
ci rassicurano, togliendo ogni dubbio alla nostra visione del mondo che, non
più sollecitata dall’inquietudine delle domande, tranquillizza le nostre coscienze
beate che, rinunciando al rischio dell’interrogazione, confondono la sincerità
dell’adesione con la profondità del sonno
2
.
In questo preciso senso anche lo sport moderno può essere considerato un
mito: la quotidianizzazione ha prodotto quasi un’assuefazione al fenomeno, che viene
vissuto perlopiù in modo banale e scontato; se pensiamo poi che manca una
riflessione filosofica di nota sul fenomeno sportivo – una filosofia dello sport non esiste
– mentre al contrario sono fiorenti le discipline che si occupano di tale ambito,
capiamo come lo sport sia un’idea che rischia di possederci e di nascondere
dinamiche profonde che in superficie appaiono tranquille, comode, acquietando la
nostra coscienza. Dove si annidano queste tematiche? Qual è il rischio che rischiamo
di non vedere? Come si può porre una filosofia dello sport, a partire da quale
orizzonte di pensiero? Queste domande hanno una matrice comune che rappresenta
l’approccio d’indagine scelto da questo lavoro: e cioè il sospetto e la persuasione che
1
Non è un caso che Barthes, nei Miti d’oggi, accolga anche alcune manifestazioni sportive Cfr.
Roland Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino, 2005 [ed. or. Mythologies, 1970] e anche Id., Lo sport e
gli uomini, Einaudi, Torino, 2007 [ed. or. Le sport et les hommes, 2004].
2
Umberto Galimberti, I miti del nostro tempo, Feltrinelli, Milano, 2009, p. 11.
II Introduzione. Il mito dello sport e la sfida del corpo
dietro alla superficialità con cui ci si approccia al vissuto sportivo odierno, e ad una
relativa esaltazione del fenomeno stesso, si nasconda, in realtà - e questo è ciò che
rende lo sport un mito di oggi - un travisamento e una negazione profonda del
corpo. Quest’affermazione può apparire paradossale; lo sport, infatti, e l’attività fisica
che lo accompagna, sembra a prima vista un fenomeno dove il corpo trova il suo
maggior risalto; anzi, dopo secoli di dominio spirituale, finalmente, e anche grazie
soprattutto allo sport, il corporeo ha potuto liberarsi e valorizzarsi per quello che è,
senza doversi piegare allo spirito. Ma è proprio così? L’estensione e il successo del
fenomeno sportivo rispecchiano cioè una liberazione del corpo? Il sospetto che ci muove
è, invece, che dietro alle forme di liberazione del corpo si nasconda in realtà una
logica molto più fine e nascosta di dominio, strutture che si fanno carico del corpo e
lo codificano fin nei suoi più particolari aspetti, velando così quell’apertura di senso
che il corpo, come vedremo, originariamente è. Il fatto è anzi, ed ecco il sospetto, che
“questo sistema di liberazione […] finisce col mobilitare, e per liberare, le potenzialità
espressive del corpo (che già da tempo sono state confiscate dall’«anima», dallo
«spirito» o dai «valori») per un’emancipazione programmata, in vista di uno
sfruttamento più razionale e sistematico”
3
. Anche lo sport, dunque, dietro alla
presunta liberazione del corpo, promuoverebbe al contrario il suo sfruttamento: il
fatto è che sport e tecnica, e, in particolare, sport e tecnica moderna, sono
profondamente legati da logiche omologhe, e l’apparato tecnico odierno è in questo
senso un enorme tentativo di razionalizzazione e sfruttamento del corpo. Non
dunque all’esaltare la liberazione del corpo attraverso l’attività sportiva mira una
filosofia dello sport, bensì ad esaminare più approfonditamente lo sport in relazione
a quelle logiche che coinvolgono il corpo. Ed in questa comprensione del fenomeno
sportivo la filosofia può rappresentare un’autentica sfida allo stesso mondo dello
sport; essa può infatti metter luce e rivelare in questa operazione l’originaria innocenza
del corpo, la sua ambivalenza simbolica; ciò può offrire di conseguenza al mondo dello
sport un’occasione per una sua comprensione e, perché no, un radicale ripensamento
di sé. Per far questo la filosofia deve intraprendere non un discorso sul corpo, come
fanno i saperi che hanno preventivamente oggettivato il corpo riducendolo a cosa, e
di cui gli sport moderni, nonché le scienze dello sport che lo scrutano, condividono
lo sfondo teorico, ma un discorso a partire dal corpo, cercando di metter in luce il potere
del corpo di dispiegare un mondo e il suo legame fondamentale con l’esistenza; ma
questa operazione rappresenta una sfida alla filosofia stessa se è vero che il corpo è
per lei “la cosa più difficile”
4
. La domanda immediatamente successiva è allora:
3
Umberto Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano, 2008, p. 13.
4
Citazione di Martin Heidegger tratta da Franco Rella, Ai confini del corpo, Feltrinelli, Milano, 2000,
p. 40.
Introduzione. Il mito dello sport e la sfida del corpo III
“Dove corrono i confini del corpo? Dove termina il corpo?”
5
. La filosofia, in questo
senso, alla ricerca del corpo, compie allora un itinerario erratico che è anche uno
spaesamento e una messa in discussione di lei medesima: non è infatti essa stessa la
prima responsabile dello smarrimento dell’ingenuità del corpo? Non cresce e non si
sviluppa in un dualismo di anima e corpo dove alla prima è affidato il primato
conoscitivo e il secondo rimane marginalmente sullo sfondo? La sfida del corpo è
dunque una sfida alla filosofia stessa e al suo tentativo di recuperarne l’ambivalenza
simbolica, di cui, vedremo, è al contempo la custode e la carceriera.
Il primo capitolo, Simbolica del corpo, è proprio il concretizzarsi di questo
intento. Attraverso l’erranza che la fa sconfinare nei territori dove sono soliti
naufragare i poeti, tra le lande di Amore e dell’Aperto, la filosofia cerca di recuperare
la sua vocazione ambivalente, che è poi il suo simbolo perduto, e scopre che essa ha
strettamente a che fare con il corpo, il quale mostra la nostra esistenza concreta che si
disvela. Tale ambivalenza corporea era ben presente nella vita delle comunità arcaiche
dove il corpo esercita continuamente il suo scambio simbolico col mondo.
Il secondo capitolo, Il corpo in azione, indaga proprio questa relazione
originaria di corpo e mondo attraverso la loro correlazione all’azione. Se il corpo non
è una cosa, ma è la nostra modalità originaria di essere al mondo, l’azione in cui si
esercita nel mondo è la sua autentica ingenuità; un’ingenuità da subito persa, però,
perché l’azione è quello scenario ambivalente che se da una parte apre il corpo al
mondo, al contempo, dispiegando e fissando all’uomo dei segni che consentano il
suo orientamento al mondo, ne fa smarrire l’ingenuità nei prodotti della cultura. Ma
l’azione si esercita anzitutto nel movimento; qui la filosofia, dopo aver ritrovato la
sua primigenia natura, può iniziare la sfida al fenomeno sportivo: anche lo sport è,
infatti, essenzialmente movimento; comprendere il movimento dal punto di vista
dell’azione, cioè della relazione di corpo è mondo, è rivalutarne la portata filosofica,
al di là delle riflessioni poste in essere su di esso dalle scienze del movimento.
Nel terzo capitolo, Genealogia dello sport, la filosofia si può finalmente
avvicinare in misura maggiore al fenomeno sportivo, innanzitutto rispetto alla sua
matrice ludica, e cioè al gioco, concepito come pura manifestazione dell’azione e del
movimento; qui lo sport emerge come una declinazione particolare del gioco, risvolto
che ne privilegia soprattutto la sua portata agonistica; Agon è il termine che i Greci
usavano per le loro competizioni, ma i giochi competitivi furono assai diversi nel
grande arco di tempo in cui si svilupparono presso gli antichi. Gli agoni raggiunsero
la loro forma più eccelsa in Olimpia, il simbolo del gioco agonistico greco, l’astro più
lucente del mondo antico che influenza l’intera storia dello sport.
5
Ibidem.
IV Introduzione. Il mito dello sport e la sfida del corpo
Nel quarto capitolo, Fenomenologia dello sport, la filosofia può finalmente
legare il tema della corporeità a quello del fenomeno sportivo, innanzitutto
intercettando un avvenimento decisivo nello sviluppo non solo di lei medesima, ma
soprattutto nel discorso riguardante lo sport: il dualismo di anima e corpo inaugurato
da Platone segna un solco decisivo in questo senso; un tema questo poi ripercorso
dalla tradizione moderna che lo radicalizza: sarà allora vista in quest’ottica anche la
formazione degli sport moderni, in relazione cioè alla concezione di un corpo che
viene assimilato sempre più ad una macchina. Il fatto è che la modernità è
contrassegnata dall’enorme incremento dell’apparato tecnico, il quale inizia a
produrre sul corpo i suoi effetti di sfruttamento e razionalizzazione. Tale sfondo
rende anche comprensibili delle dinamiche e delle tendenze che portano ad estendere
il fenomeno sportivo oltre il paradigma della prestazione che si era affermato nella
modernità: questi sviluppi odierni, infatti, rivelano un corpo che disperde la sua
apertura di senso, per farsi contenitore e residuo di logiche di significazione in cui
traspare la ricerca di un’identità e di un senso ormai smarriti, e inseguiti nel
paradigma espressivo delle nuove attività sportive. In queste manifestazioni è anche
la presunta liberazione contemporanea del corpo che le nuove tendenze sportive
affermano, e la filosofia, invece, a termine del suo cammino, può ora infine smentire.
Nel quinto ed ultimo capitolo, Filosofia dello sport, si tracciano brevemente le
condizioni di possibilità di una filosofia dello sport in relazione al viaggio erratico che
essa ha intrapreso nella ricerca del corpo, e della sua manifestazione nel fenomeno
sportivo stesso. Lo sport si è rivelato infine, anziché nella presunta e tanto decantata
liberazione del corpo, in logiche di sfruttamento e sistematizzazione, anche e
soprattutto dove fa vedere nuove dinamiche, che solo apparentemente vanno nella
direzione opposta, legate all’espressione del corpo e non più alla sua macchinazione;
si è rivelato, in definitiva, come un mito, un’idea non debitamente pensata che,
invadendo la nostra esistenza, ci possiede; e da ultimo si è rivelato come lo scenario
di una disperata ricerca di senso che si va via via acuendo a mano a mano che le
logiche di razionalizzazione dell’apparato tecnico si vanno affinando e affermando.
Ma forse è proprio qui, dove ci si avvicina alla dispersione nell’abisso, dove si è più
vicini allo smarrimento del corpo nell’ordine dei segni, dove lo sport si pone in prima
linea nella costruzione del corpo e dell’identità che la tecnica opera, che il non senso
dispiegato può far riscoprire paradossalmente il corpo stesso come apertura
originaria, come possibilità di una nuova donazione di senso; perché, come ricorda il
poeta: “Dove è il rischio, anche ciò che salva cresce. Le aquile abitano la tenebra,
senza timore varcano l’abisso”
6
; guardare a questo tempo come ad un abisso senza
6
Friedrich Hölderlin, Patmo, in Le liriche, Adelphi, Milano, 2004, p.667.
Introduzione. Il mito dello sport e la sfida del corpo V
fondo, in cui anche lo sport è intriso di logiche dispersive e disparate che sfruttano e
programmano il corpo, accompagnate dalla ricerca spasmodica di identità ed
espressione attraverso il suo movimento, apre forse lo spazio per un ripensamento
del corpo sportivo che si dona alla filosofia come una sfida; il fatto è, ecco il punto
decisivo che la filosofia può guadagnare in tale sfida, che anche lo sport nasconde
uno sfondo simbolico, quello di essere un fenomeno profondamente ambivalente:
dietro e al di là dell’equivalenza tecnica di cui oggi il corpo sportivo porta i segni, nel
paradigma prestazionale dello sport come in quello espressivo, e che copre quello
sfondo, abita infatti la possibilità di pensare e vivere il corpo più originariamente,
nella sua ambivalenza simbolica: detta potenzialità che si radica nell’azione, nel
movimento e nel gioco così come la filosofia li ha compresi, può far guadagnare allo
sport un modo nuovo e rigenerato di considerare il corpo e di viverlo nel fenomeno
sportivo; ecco perché una filosofia dello sport, attraverso il cammino che riscopre
finalmente l’ambivalenza del corpo, è quell’apertura di senso che sola può
rappresentare, per il mondo dello sport, un’autentica sfida. Infatti:
Sfidare non è opporsi a qualcosa o a qualcuno. S-fidare è non affidarsi, è non
concedersi a una pienezza di senso e di valore, non perché si hanno obiezioni o
riserve che qualsiasi discorso sarebbe in grado di recuperare e assorbire, ma
perché quella pienezza di senso e di valore ha lasciato senza senso, senza nome,
senza identità colui che lancia la sfida. La sfida non è una dialettica, né uno
scambio che prevede una vittoria o una sconfitta. La sfida non è neppure un
atto di disperazione. La sfida è un’attesa
7
.
Quando i valori dello sport si confondono e crollano, quando il suo senso si fa
più che mai incerto, quando le identità ricercate rimangono vuote e senza nome, si
apre allora lo scenario della sfida, come un orizzonte di attesa. Questa attesa come
possibilità di comprensione e rigenerazione è la sfida che oggi lo sport, ed il suo mito,
lancia alla filosofia; l’attesa attende ed evoca una filosofia dello sport. Ma per accogliere
questa sfida il filosofo deve avere lo sguardo dell’aquila che non ha paura di
affrontare la tenebra e di varcare l’abisso, non ha timore di mettersi in gioco e di
affrontare nuovi scenari; lo sguardo della filosofia ha bisogno allora dell’occhio del
poeta che non teme il rischio, ed anzi si arrischia nel pericolo; ecco perché la filosofia
dello sport non può che essere innanzitutto una poesia in movimento: il movimento
poetico dell’azione e del gioco, che è poi quello della filosofia, del corpo, dello sport.
Cogollo Del Cengio, 3 Ottobre 2010
Tommy Dal Santo
7
Umberto Galimberti, Il corpo, cit., p. 574.
1. SIMBOLICA DEL CORPO
Effimeri! Cosa siamo? Cosa non siamo? Sogno di un’ombra
l’uomo. Ma quando, dono degli dei, appare un bagliore,
vivida luce si spande sugli umani, e dolce la vita.
Pindaro, Pitiche, VIII, vv. 94-97.
1.1. Il simbolo, la filosofia e il corpo.
Giorno e notte un fuoco divino ci spinge
ad aprirci la via. Vieni, guardiamo nell’Aperto,
cerchiamo ciò che è nostro, per quanto lontano.
[Friedrich Hölderlin, Pane e vino, in Le liriche, Adelphi, Milano, 2004, p. 521]
I poeti spesso sconfinano in una terra dove il paesaggio consueto si sfalda e
l’orizzonte si fa più incerto; ed è come se ivi si immergessero in una fonte originaria,
sorgente del loro canto, dove sgorgano parole che lacerano nell’intimo e dischiudono
un nuovo scenario: il cuore della domanda. Essi sono “i più arrischianti”
1
, si accompagnano col rischio in una regione straniera nella totale assenza di
protezione, come viandanti alla ricerca, in sentieri erranti dove crolla la geografia
dell’abitare quotidiano, essi “sono i più dicenti e presagenti”
2
che in cammino verso il
non detto “arrischiano il dire”
3
: i poeti si espongono all’Aperto, al cuore della
domanda, e “dicono il taciuto”
4
.
L’Aperto è la terra della dis-protezione, l’abisso dove il terreno solido, le
mura circondarie, i confini tracciati e chiusi, vacillano, è la radura della ricerca,
l’erranza della domanda. All’origine del domandare vi è infatti quella frattura, quella
mancanza, quell’indigenza che segnano la condizione umana esponendola a quella
regione in-usuale e pericolosa che i poeti più di chiunque altro, essendo i più
arrischianti tra gli arrischianti, come vuole Heidegger, abitano, senza crogiolarsi nelle
stanze chiuse degli edifici del calcolo razionale, laddove gli uomini trascorrono la loro
vita assicurandosi dall’incombenza del rischio, senza accontentarsi delle parole
consuete, dove nel rumore del mondo non si ode più quella voce che “chiama nel
modo spaesato del tacere”
5
. I poeti non hanno paura di guardare in faccia il dolore,
1
Martin Heidegger, A che i poeti?, in Holzwege, sentieri erranti nella selva, Bompiani, Milano, 2006, pp.
317-378 [ed. or. Holzwege, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main, 1950].
2
Ivi, p. 372.
3
Ivi, p. 367.
4
Ivi, p. 375.
5
Id., Essere e tempo, Utet, Torino, 1978, §57, p. 412 [ed. or. Sein und Zeit, M. Niemeyer, Halle,
1927]. Tale voce sottrae il richiamato alle chiacchiere pubbliche del Si (Man), ossia a quella
2 Simbolica del corpo
la tragicità cui è sottoposta l’umanità, “stirpe miserabile ed effimera”
6
, perché
avvertono che in questa ferita, in quest’intima lacerazione, è custodito il prezioso
segreto della domanda, la terra vergine in cui i ricercatori di nuove verità possono
coltivare le loro speranze. Effimeri, creature di un giorno, in balìa del tempo chiama
Pindaro gli uomini; ed è proprio muovendo dal riconoscimento di questa fragilità e
precarietà che egli è condotto subito a interrogarsi: chi è l’uomo? cosa siamo? cosa
non siamo?
Tali domande perseguitano incessanti il pensiero, lo rincorrono
inesorabilmente, allora come oggi
7
; inquietano perché nessuna risposta ancora le
riesce a placare
8
, inquietano forse perché, come ci ricorda il coro dell’Antigone, “molte
sono le cose inquietanti, ma nulla più inquietante dell’uomo”
9
. È l’uomo stesso che
racchiude nel suo essere il cuore del domandare; esso sta nell’inquietante sua
condizione che lo accompagna dalla sua venuta al mondo, nella sua incompiutezza e
incompletezza, che religioni e mitologie non si stancano di raccontare; è allora
proprio perché ne va del suo essere che egli pone in questione il suo essere. Qui la
domanda si fa radicale poiché “essere radicale – come dice Marx – significa
considerare le cose in base alla radice. Ora, per l’uomo, la radice è l’uomo
medesimo”
10
: è l’uomo ad essere primariamente in questione, e per questo egli chiede
del suo essere. Se essere radicali è dunque volgersi alla radice, e se la radice è la
condizione impersonale per cui: “Nell’uso dei mezzi di trasporto, nei mezzi di trasmissione delle
informazioni, ognuno è come l’altro […]In questa irrilevanza e impersonalità, il Si (Man) esercita
la sua tipica dittatura. Ce la passiamo e ci divertiamo come ce la si passa e ci si diverte, leggiamo,
vediamo e giudichiamo di letteratura e di arte come si vede e si giudica. Ci ritiriamo anche dalla
gran massa come ci si ritira, troviamo rivoltante ciò che si trova rivoltante. Il Si, che non è alcun
essere determinato, bensì tutti (ma non come somma), decreta il modo di essere nella
quotidianità”. (Ivi, §27, pp. 215-216) Nel silenzio il richiamato può avvertire pertanto di non
padroneggiare la propria e-sistenza e può de-situarsi rispetto a tale situazione: lo s-paesamento
che ne consegue è l’abbandono del paesaggio abituale, l’apertura ad autentiche possibilità di
libertà.
6
Il riferimento è chiaramente al grido tragico del Sileno, seguace di Dioniso, che così risponde al
re Mida il quale chiedeva quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo: “Stirpe
miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena perché mi costringi a dirti ciò che per te è
vantaggioso non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile. Non essere nato, non
essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto” (Friedrich
Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano, 2008, pp. 31-32 [ed. or. Die Geburt der Tragödie,
1872])
7
Il titolo di un famoso dipinto di Paul Gauguin, Da dove veniamo? Che siamo? Dove andiamo? È
assurto, spesso abusandone fino a farne uno slogan banale, quasi a simbolo dei massimi quesiti
esistenziali dell’uomo.
8
Max Scheler sottolinea anzi come “noi siamo la prima epoca in cui l’uomo è diventato
completamente e interamente “problematico” per se stesso; in cui egli non sa più che cos’è, ma
allo stesso tempo sa anche che non lo sa”. La citazione, contenuta nel testo di Scheler Uomo e
Storia, è tratta da Maria Teresa Pansera, Antropologia filosofica, Bruno Mondadori, Milano, 2001, p.
3.
9
Sofocle, Antigone, vv. 332-333.
10
Traggo la citazione da Maurice Merleau-Ponty, Marxismo e filosofia, in Senso e non senso, Il
Saggiatore, Milano, 2009, p. 149 [ed. or. Sens et non-sens, Editions Gallimard, Paris, 1996]; le parole
di Karl Marx sono contenute in Contributo alla critica della filosofia del diritto di Hegel.
Simbolica del corpo 3
condizione umana stessa, si tratta, quando ci si chiede chi è l’uomo, di guardare in
faccia la ferita che ci abita, come Pindaro, e di farci accompagnare nell’Aperto, come
poeti, viandanti per sentieri erranti attorno al cuore della domanda.
All’alba del pensiero occidentale anche Platone narra della frattura costitutiva
dell’esistenza umana e lo fa in un dialogo incentrato sull’amore: il Simposio. Qui, si
dice che Zeus, volendo castigare l’uomo per la sua superbia e forza, senza tuttavia
distruggerlo, lo tagliò in due
11
. Prima del taglio, gli uomini erano uniti nella
contrapposizione di maschile e femminile, l’uno e l’altro insieme; dalla punizione di
Zeus, invece, ciascuno di noi non è più propriamente un uomo, “ma il simbolo di un
uomo, diviso com’è da uno in due”
12
. La parola “simbolo” usata da Platone è in
greco symbolon: originariamente “tra gli antichi era diffusa l’abitudine di tagliare in due
un anello, una moneta o qualsiasi oggetto, e darne una metà a un amico o a un ospite.
Queste metà, conservate dall’una e dall’altra parte, di generazione in generazione,
consentivano ai discendenti dei due amici di riconoscersi. Questo segno di
riconoscimento si chiamava simbolo. Tale è il senso originario della parola”
13
. Syn-
bállein è pertanto l’attività del congiungere, del mettere insieme ciò che è stato diviso,
lacerato (dia-bállein); nel Simposio Eros (l’amore) è la forza che ricongiunge ciò che
Zeus ha separato: egli cerca di ricomporre l’antica ferita, tendendo a “fare di due uno
solo”
14
e risanando così l’umana natura: è desiderio e aspirazione all’unità (degli
uomini tra loro, o degli uomini agli dei). Eros però, così come lo intende Platone,
non è tanto un sentimento umano che si può descrivere e spiegare
15
, e neppure ha la
perfezione di un dio, in quanto è mancante e desiderante: egli è piuttosto un demone,
che afferra l’uomo e lo colpisce nella forma della possessione; così Diotima
16
istruisce
Socrate alla domanda che chiede la natura di Eros: “un gran demone, o Socrate:
infatti, tutto ciò che è demonico è intermedio tra il dio e il mortale. […]Egli ha il
potere di interpretare e di portare agli dei le cose che vengono dagli uomini e agli
uomini le cose che vengono dagli dei […]. E stando in mezzo fra gli uni e gli altri,
opera un completamento, in modo che il tutto sia ben collegato con se medesimo”
17
.
11
Platone, Simposio, 190d. Dopo aver tagliato l’uomo in due Zeus da disposizione ad Apollo
affinché rivolgesse la ferita sul davanti, in modo che questa fosse sempre presente al mortale;
questi segni li portiamo ancora, a sentire il Simposio, sul ventre e sull’ombelico (Ivi, 190e).
12
Ivi, 191d.
13
Umberto Galimberti, La terra senza il male. Jung: dall’inconscio al simbolo, Feltrinelli, Milano, 2005,
pp. 184-185.
14
Platone, Simposio, 191d.
15
Coloro che si amano infatti, ricorda il Simposio, “non saprebbero neppure dire che vogliono
l’uno dall’altro. Infatti, non sembrerebbe essere il piacere d’amore la causa che fa stare insieme gli
amanti l’uno con l’altro con così grande attaccamento. Ma è evidente che l’anima di ciascuno di
essi desidera qualche altra cosa che non sa dire, eppure presagisce ciò che vuole e lo dice in forma
di enigmi” (Ivi, 192 c-d).
16
Diotima è la sacerdotessa di Mantinea che nel dialogo inizia Socrate ai misteri dell’amore.
17
Platone, Simposio, 202 d-e.
4 Simbolica del corpo
Amore è pertanto mediatore tra l’uomo e il dio, li pone in colloquio, è evento
simbolico che tende a riconciliare ciò che è opposto, il mortale e il divino; ma tale
relazione non si risolve mai in una pura identificazione, in un’unità indeterminata:
“un dio non si mescola all’uomo”
18
ricorda Diotima; Eros, piuttosto, tiene in
tensione i distanti, li congiunge pur mantenendoli nella loro diversità, li lega
custodendone la differenza. La ferita inferta insomma non si rimargina, è lì come
segno ineludibile della nostra condizione: eppure il dio che l’ha inflitta ha escogitato
anche il rimedio, la possessione che conduce alla ricerca dell’anello mancante; per
questo Amore è testimonianza chiara della fragilità dell’uomo, dell’insufficienza
radicale del suo essere, ed è anche forza che de-situa perché conduce oltre quella
situazione originaria, perché sospende l’ordinario svolgersi della vita per aprirsi al
desiderio stra(extra)-ordinario della riconciliazione. Questo doppio rimando, alla
frattura e alla cura, è inscritto nella genealogia stessa di Eros, così come è raccontata
nel dialogo: egli infatti è figlio di Penia, la povertà, l’indigenza, e di Poros, l’espediente,
il rimedio
19
, rispecchiando così da un lato la penuria causata dalla ferita, dall’altro la
scaltrezza nel farvi fronte. La natura simbolica di Amore è pertanto caratterizzata da
una costitutiva ambivalenza: la parola significa che l’una cosa in questione e l’altra, ambi
(da amphí, l’uno e l’altro insieme, l’affacciarsi degli opposti come nell’anfi-teatro)
hanno lo stesso valore, valenza; per cui crolla quel principio di identità e differenza in
base al quale una cosa è questo e non quello (si identifica con se stessa e si differenzia
da un’altra): nell’ambivalenza invece la cosa è questo, ma anche quello
20
. Ecco perché
nel Simposio si dice che Eros non è né povero né ricco, ma l’uno e l’altro insieme, né
mortale né immortale, ma partecipe di entrambe le nature, né ignorante né sapiente,
ma filosofo
21
. La filo-sofia, infatti, si situa in quella situazione intermedia tra la
sapienza degli dei, che non desiderano diventare sapienti in quanto lo sono già, e la
stoltezza degli ignoranti, che non ne avvertono il desiderio in quanto ritengono di
non averne bisogno: essa è amore per il sapere, tensione verso una pienezza che sa di
non poter raggiungere, ma di cui avverte la mancanza, consapevole com’è dell’intima
ferita da cui ha moto la via della ricerca; anche i filosofi abitano il cuore della
domanda.
Abbiamo incontrato il poeta, vagante per i sentieri ignoti dell’Aperto, e
abbiamo incontrato il filosofo, errabondo sulle tracce di Amore; entrambi cercano di
18
Ivi, 203 a.
19
Ivi, 203 b-e.
20
Inoltre, è necessario distinguere l’ambivalenza dalla bivalenza: la prima è evento simbolico (syn-
bállein) che congiunge ciò che è distante, la seconda è ottenuta dall’atto disgiuntivo (dia-bállein) in
cui si poi si rispecchia ciò che è stato polarmente separato (Dio e gli uomini, bene e male,
positivo e negativo…). Sull’ambivalenza Cfr. Umberto Galimberti, La terra senza il male. Jung:
dall’inconscio al simbolo, cit., capitolo 4 “L’ambivalenza simbolica”, pp. 59-70.
21
Platone, Simposio, 203 d-e.