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INTRODUZIONE
Davvero degno della teologia medievale è questo vedere tutto in chiave di
storia teleologica… In una prospettiva antropologica e semiologica non ha
senso parlare di forme meno o più evolute in quanto ogni società esprimerà
quei tipi di scrittura che le saranno congeniali e necessari …
G.R. Cardona
Così scriveva Giorgio Raimondo Cardona all’inizio degli anni Ottanta,
lasciando intravedere la possibilità di oltrepassare i limiti della prospettiva
evoluzionistica ed etnocentrica dominante nella maggior parte dei testi
scientifici che trattavano lo studio delle manifestazioni scrittorie, e non solo,
presso i più diversi popoli. Oggi l’approccio allo studio antropologico dei
fenomeni di produzione e strutturazione dei sistemi di scrittura tiene sempre
meno in considerazione definizioni e concetti generalizzati e si tende ad
adattare perfino lo stesso metodo di indagine conoscitiva al contesto socio–
culturale che della scrittura, oggetto dello studio, è il legittimo produttore e
fruitore.
Questo conduce spesso gli studiosi più impavidi ad allargare eccessivamente
il campo di indagine, dando al fenomeno scrittorio definizioni che la
controparte accademica spesso ha etichettato come ambigue e fuorvianti.
Non si può, infatti, negare che una esagerata estensione della definizione
farebbe perdere di vista il reale oggetto di studio, non solo distogliendo
l’attenzione da ciò che ci si è veramente prefissi di analizzare, ma
ostacolando persino una comprensione adeguata dei perché del fenomeno in
esame, così da ottenere risultati completamente fuori contesto.
Del resto, se vogliamo dare una definizione valida alla scrittura, non
possiamo non constatare che, essendo essa produzione tecnica specifica di
un ambiente culturale, risulta arduo assegnarle categorie universali.
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Preso atto di tale difficoltà, lo scopo di questo studio sarà offrire una
esaustiva disamina delle definizioni attualmente in uso presso gli “addetti ai
lavori”, mettendone in luce conquiste e rinunce.
Dopo una serie di considerazioni di natura generale sui processi di
produzione, di fruizione e anche di studio delle manifestazioni scrittorie più
varie, seguirà l’applicazione di suddette categorie di indagine a un caso
particolare di scrittura: Teotihuacan, sito archeologico che si trova circa 50
km a nord-est della capitale, all’ interno di un’area comunemente definita
Bacino del Messico, frequente oggetto di indagine per le sue caratteristiche
“anomale” se confrontate con il panorama culturale e politico circostante,
coevo e non. Solamente negli ultimi decenni gli studiosi hanno azzardato
ipotesi circa la presenza di un sistema scrittorio a Teotihuacan, mentre in
passato l’ analisi delle pitture che ricoprivano le pareti degli edifici più
importanti del sito non si spingeva oltre la definizione di manifestazioni
artistiche figurative. Obiettivo di tale elaborato è, dunque, sollevare
interrogativi sulle ragioni intrinseche che spinsero gli abitanti di
Teotihuacan a scegliere un così speciale sistema di scrittura, ragioni di
natura sicuramente politica, sociale, culturale, tutt’ altro che generalizzabili.
Tutto ciò alla luce di un’analisi di alcune “pitture” del sito, pitture dentro le
quali sarà frequente riscontrare elementi glifici, elementi, cioè, che vanno
oltre ciò che si definisce una pittura, ma per i quali si dimostreranno strette
le definizioni più accreditate di scrittura. Qualcosa che, insomma, non
possiamo inserire in categorie determinate, ma di cui non possiamo non
attestare la presenza.
L’ esito di tale indagine sarà, dunque, constatare l’impossibilità dei nostri
mezzi conoscitivi di catalogare questo tipo di manifestazione visiva?
Si spera di no. Sta di fatto che quello che i reperti archeologici attestano agli
occhi di un ricercatore è un ingente numero di soggetti e di loro attributi che
non senza un motivo preciso stanno dove stanno, dei quali, forse, non
sapremo mai il significato esatto, nonostante i passi della ricerca in questa
direzione, ma che possono essere comunque un valido strumento di indagine
antropologica a largo respiro.
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Non possiamo negare, infatti, che se uno studio di sistemi culturali, come la
scrittura, diversi da quelli occidentali e consueti arrivasse a conclusioni
importanti, questo ribalterebbe finalmente le nostre categorie di giudizio e,
forse, l’ alterità non farebbe più così paura. Ma, senza arrivare a
cambiamenti epocali di questo genere, ciò che ci si auspica di raggiungere è
un’apertura mentale nei confronti di un fenomeno variegato ed
estremamente specifico e contestualizzabile come quello della scrittura,
tenendo presente che ogni categoria da noi definita è assolutamente
arbitraria e, pertanto, opinabile.
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1. Antropologia della scrittura
Fig. 1.1. Dettaglio dal murale di Cuevo del Rio, Mexican Cultural
Institute, New York.
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Ci troviamo di fronte a un processo che si manifesta in divenire e che, nel
tempo, può registrare una naturale “evoluzione”, qui intesa come
mutamento interno e non come ascesa alla perfezione, in direzione di un
fine ultimo quale l’ alfabeto. Ciò, inoltre, avviene secondo ritmi che sono
propri della comunità umana che di quel particolare sistema grafico è
produttrice. Tale gruppo si esprimerà mediante pratiche sociali specifiche,
fra le quali si inserisce a pieno titolo la pratica della scrittura.
Non ci sono tappe obbligate, passaggi necessari perché si giunga allo
strumento alfabetico, giudicato il sistema più fedele alla lingua parlata.
Come se questo grado di fedeltà a essa sia interesse primario e ragione
principale della necessità stessa dello scrivere. Già negli anni Settanta,
alcuni studiosi lungimiranti avevano tentato di sganciare il concetto di
scrittura da quello di lingua, confutandone la coincidenza assoluta:
“Il concetto di scrittura eccede e comprende quello di lingua” (Derrida,
1976).
Addirittura, Derrida si era spinto persino a negare l’ esistenza della scrittura
fonetica, adducendo come spiegazione il fatto che non esiste sistema
grafico, per alfabetico e occidentalizzato che sia, in grado di rendere
pienamente tutte le sfaccettature di pronuncia contenute in un messaggio
verbale.
Di conseguenza, oggi non vi è, in questi termini, dal punto di vista dello
studioso, il proposito di inserire in una graduatoria di valore i sistemi che
più o meno si discostano da quello occidentale. I potenziali processi di
elaborazione e di mutamento sono, invece, riconosciuti come originati
all’interno degli stessi sistemi culturali in generale, grafici, in particolare,
(Mignolo, 1989), anche nel caso in cui siano dovuti a influenze esterne.
Il cammino che la storia degli studi antropologici sulla scrittura ha dovuto
compiere, per giungere al superamento della suddetta visione teleologica ed
eurocentrica è stato lungo e non immune dai condizionamenti dovuti al
fenomeno del colonialismo e alle sue conseguenze storico – ideologiche.
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Alla fine del XIX secolo studiosi fra cui Isaac Taylor (1883) si
preoccupavano di tracciare, per la scrittura, percorsi evolutivi standard che
prevedevano una comune origine nella pittura, quindi un’ evoluzione nella
pittografia da cui si facevano scaturire in sequenza sistemi logografici, poi
sillabici, quindi, finalmente, alfabetici. Se possiamo inquadrare tale visione
alfabetocentrica ed eurocentrica nel contesto storico del colonialismo, la
stessa cosa non si può dire di conclusioni raggiunte negli anni Sessanta del
XX secolo, in particolare di quello che Gelb (1963) definisce il “ Principio
dello Sviluppo Unidirezionale”, che potremmo considerare un derivato della
teoria di Taylor. Secondo tale principio l’ evoluzionismo insito nel
fenomeno della produzione grafica segue le tappe sopra elencate in
direzione obbligata e necessaria.
Negli stessi anni, David Diringer (1962) costringeva la scrittura nella teoria
darwiniana della “lotta per la sopravvivenza”, spiegandone l’ esistenza e i
mutamenti in direzione di una sempre maggiore funzionalità, riproponendo
un punto di vista estremamente laico e occidentale e dimenticando che non
tutti i gruppi sociali che usano un determinato sistema di scrittura ritengono
priorità fondamentale della scrittura la funzionalità, come avviene in
Occidente, dalla modernità in poi.
Durante la prima metà del XX secolo, dunque, in linea con l’ opposizione
ideologica barbaro – civilizzato, era largamente diffusa l’ idea che solo
sistemi grafici culminanti nell’ alfabeto, potessero essere considerati vera
scrittura. Fu il già citato Gelb a chiamare i sistemi esclusi “semasiografici”,
ovvero, “sistemi descrittivo - rappresentazionali e mnemonico –
identificativi” che non hanno precisi corrispondenti linguistici. In altre
parole, Gelb si riferiva alla pittografia e usava, erroneamente, come
esempio, i sistemi grafici del Nuovo Mondo, quello maya in particolare. In
questo modo, l’oggetto di studio veniva ristretto a quelle forme di scrittura
che si addensano intorno al Vicino Oriente Antico, considerata la sede in
cui ebbe origine quella che poi, grazie all’ intervento del mondo greco,
diventerà la scrittura alfabetica. Anche nella formulazione di questa tesi è
evidente la necessità di legittimare le scritture del Vicino Oriente solo in
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funzione di quella greca, assegnando a esse il ruolo di illustri antecedenti
di quella che sarà la scrittura usata dalla “civiltà madre” dell’ Occidente.
Fu sempre Gelb a coniare anche il termine “semasiologografia”, la cui
definizione, più che a quello maya, bene si sarebbe adattata al sistema
scrittorio azteco. Gli aztechi, infatti, utilizzavano un sistema grafico che
tracciava segni registranti idee, non necessariamente parole, che affidava la
codificazione dei significati a parametri come la posizione di ogni segno, i
rapporti dimensionali e le distanze fra i segni. Parametri del genere
presupponevano un’ integrazione orale, oltre che mentale, da parte della
comunità di parlanti.
Possiamo, allora definire tale sistema soltanto mnemonico di supporto, ma
non scrittura? Quanto peso si decise di dare al fonetismo nella codificazione
dei segni? In che direzione si sarebbe evoluto nei secoli successivi tale
sistema? Sarebbe aumentata la componente fonetica?
Probabilmente no. Ma è evidente che una questione posta in questi termini
sarebbe inutile, perché affetta dello stesso alfabetocentrismo dominante nel
secolo scorso. La ricerca archeologica fornisce dati in direzione di una certa
stasi, di una tradizione e un immaginario ben consolidati, che all’ arrivo dei
Conquistadores apparivano ben lungi dall’essere sul punto di evolversi in
forme diverse. In altre parole, non si stava per verificare quel passaggio
“obbligato” da sistema logografico a sistema fonografico, un sistema, cioè,
in cui nella resa del testo si dà maggiore importanza al suono, alla
componente fonetica della lingua parlata di riferimento. Il passaggio
avviene tramite la sostituzione dei logogrammi con segni sillabici, quindi,ad
un passo successivo, alfabetici.
A un’analisi attenta, però, lo stesso confronto fra resa in sillabe e resa
alfabetica, rende chiaro che, anche dove la scrittura è da secoli alfabetica, la
scansione mentale e anche verbale di un testo avviene in forma sillabica,
come se l’ alfabeto quasi non fosse altro che “semplicemente, un modo
economico per scrivere sillabe” (Justeson e Stephens, 1993). Si
comprenderà, perciò, quanto il passo dal sillabario all’ alfabeto non sia poi
così ovvio. Non stupisce il fatto, a tal proposito, che scritture derivate da
stimoli esterni che utilizzano l’alfabeto, nascano e rimangano sillabiche.
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Del resto, senza allontanarci troppo dal nostro immaginario comune, ogni
lettera alfabetica ha un nome che corrisponde a una sillaba e con quella
sillaba viene identificata e letta.
A questi fattori intrinseci al fenomeno, si aggiungano, per esempio, i vincoli
imposti dalle componenti politiche e dagli organi di potere di un sistema
statale che, di fatto determinano e fissano nel tempo la forma d’ essere di
ogni pratica sociale, come la scrittura, e che fanno spesso leva sul peso che
il rispetto della tradizione esercita sulla società. Risulta evidente che non si
può applicare una teoria dell’ evoluzione lineare a processi del genere, che
si manifestano in modalità fin troppo differenziate per permettere
generalizzazioni.
Se consideriamo, infatti, contesti storico culturali dove vige un sistema di
scrittura radicato nei secoli e assorbito dalla cultura locale, assisteremo al
verificarsi dello stesso fenomeno di conservatorismo: si pensi al cinese,
cristallizzato nei suoi ideogrammi, ognuno dei quali ha un preciso valore
semantico e le cui trasformazioni verso forme sillabiche, in alcuni momenti
storici vengono addirittura ostacolate dai governi conservatori. Per vederne
dei mutamenti bisogna volgere lo sguardo a quei paesi che hanno adattato la
grafia cinese alla propria lingua, o che hanno derivato il loro sistema grafico
direttamente dal cinese, ma che non ne sono i “proprietari” originari, come
il giapponese o il coreano. Lì dove il senso di appartenenza a una precisa
tradizione si fa più debole esiste una maggiore probabilità che si insinui il
motore dell’ innovazione (Gelb, 1963) .
Un altro dato che emerge da queste considerazioni sulle interferenze del
potere costituito è la relatività dei fattori che determinano la scelta di un
sistema grafico piuttosto che un altro. Spesso rimangono in uso per secoli
forme di scrittura desuete o di difficile fruizione anche in contesti culturali
dove circolano altri sistemi che, da un punto di vista occidentale,
sembrerebbero più “funzionali”.
In molte società antiche la scrittura era un dono della divinità, veniva
considerata relativa all’ ambito del sacro, manifestazione del potere
sovrannaturale del dio che ne aveva fatto dono ai suoi devoti. Spesso la
pratica dello scrivere era appannaggio delle élites sacerdotali, figure sociali
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ruotanti intorno alla sfera del sacro. Le forme della scrittura, perciò,
dovevano essere difficilmente accessibili, i contenuti misteriosi, esoterici.
Insomma, era fuori discussione un qualsiasi tentativo di espandere
democraticamente l’ accesso alla comunità di scriventi. Stando così le cose,
è molto più plausibile che le autorità spingessero piuttosto nella direzione
opposta.
Quando, allora, si cambiava scrittura?
Spesso tale mutamento era accompagnato dall’ introduzione di nuovi culti
religiosi o da rapporti di forza alterati fra entità politiche diverse. Quando,
cioè, cambiava l’ élite al potere, cambiavano le regole da essa stabilite.
Decidere di modificare i propri sistemi comunicativi può essere per una
società necessario in caso di negoziazione di identità (Trigger, 2004). I
conquistati possono scegliere in autonomia di adattare parzialmente la loro
scrittura a quella dei conquistatori, in segno di rispetto e riverenza;
viceversa, in momenti diversi si possono promuovere i segni che sono
espressione dell’ identità di un popolo, a discapito delle innovazioni o delle
contaminazioni straniere.
Questi sono meccanismi sociali che interessano anche altri ambiti attraverso
i quali si manifesta la cultura materiale di un popolo nel tempo. La stessa
cosa, però non si può dire dello spazio. Determinare i fattori alla base delle
scelte sociali richiede un’analisi empirica dei dati a disposizione. Nel caso
della scrittura, in particolare, non è possibile creare parallelismi fra aree
culturali diverse, a volte nemmeno nel caso di ceppi linguistici comuni, né si
possono giustificare tali confronti facendo appello alla obsoleta teoria
dell’origine monogenetica delle scritture (Wilford 1999, 2001).
Eppure, intorno alla fine degli anni Novanta è ancora presente fra gli
studiosi l’ idea che assegna un’ origine comune a scritture prodotte da
ambienti culturali non proprio sovrapponibili. Così aveva scritto Wilford
riguardo a un antecedente del Cinese originatosi, però, in Asia centrale e
alla presenza, in Egitto, di testi alfabetici, entrambi “modello” per le
manifestazioni successive. Si tentava di dimostrare la parentela genetica di
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tali antecedenti con forme più evolute rispettivamente di cinese vero e
proprio e di alfabeto (ibidem).
Oggi, però, sembra che questa tesi sia apertamente rigettata dalla maggior
parte degli studiosi, in favore di quella che si ispira al “modello dello
equilibrio interrotto” ( Gould, 1999), in cui le acquisizioni tecniche di un
popolo non sono lineari, ma, si verificano spesso a interruzione di lunghi
periodi di stasi, e al “modello ideologico” (Street, 1993) in cui tali progressi
tecnici, come la scrittura, vanno di pari passo con esigenze di natura
ideologica e sociale altamente specifiche.
Elaborando in linguaggio matematico quest’ ultimo modello, si arriva a
collocare un sistema grafico nell’ intersezione di due assi: l’ asse della
cultura e l’ asse della personalità, come già scrive negli anni Ottanta
Cardona. Egli attribuisce all’ asse della cultura “ la visione che del mondo
ha una data cultura, il suo modo di interpretare i fatti esterni, la sua
classificazione dei fenomeni, ma anche la sua scala di valori” . Colloca,
invece, sull’ asse della personalità “ le capacità, le pulsioni, la visione del
singolo scrivente” . Rappresentare in questo grafico la scrittura serve a
comprendere bene quanto sia ampio lo spettro di possibilità in cui un
sistema scrittorio si può articolare in quanto a motivazioni ideologiche e
strumenti materiali e tecnologici in possesso degli scriventi.
In altre parole, ogni manifestazione grafica “registra” al suo interno tutte le
scelte pratiche e le operazioni mentali necessarie alla sua produzione, grazie
alla convivenza di più piani di significazione sociale di cui è portatrice.
Essa, quindi, fornirà, simultaneamente, informazioni che vanno dal
contenuto del testo, alla necessità di comunicare tale contenuto, alle idee che
questo veicola indirettamente, ma anche ai materiali utilizzati, all’ambiente
di produzione, fino a dare persino un esempio dell’ ideale estetico che ne
motiva le scelte formali, perché non bisogna dimenticare che la modalità di
percezione della scrittura è, ovviamente, quella visiva.