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INTRODUZIONE
Nel nostro tempo è quanto mai opportuno e necessario ripensare Buber: mentre le difficoltà
dell’educare aumentano, si diffonde lo scetticismo riguardo alla possibilità stessa di
sperimentare una vera e propria relazione educativa. Il nichilismo e il relativismo sono ormai
divenuti espressioni di un vuoto esistenziale che genera solitudine, noia, mancanza di senso.
Nel linguaggio comune si è diffusa l’espressione emergenza educativa: in essa si coglie la
gravità del momento, ma anche un tono allarmante che rischia di paralizzare gli educatori.
Rendere attuale il pensiero di Martin Buber è un’opportunità per rispondere alla crisi educativa,
ma soprattutto esistenziale, che l’individuo di oggi sperimenta; vuol dire rimettere al centro il
primato della persona, la sua relazionalità costitutiva, la sua dignità, valori molto spesso minati
da un individualismo esasperato. Secondo Buber il senso dell’esistenza umana deve essere
rintracciato nel principio dialogico, cioè nella capacità di porsi in un rapporto totale con la
natura, con le entità spirituali, con gli altri uomini. In Buber assume molta importanza il
concetto di trascendenza etica, cioè di quel movimento mediante il quale l’io esiste solo in
funzione di uno sguardo in grado di accoglierlo senza riserve; l’uomo, per il filosofo, diviene
autentico quando, nella relazione Io-Tu, prende coscienza della sua soggettività. Ne segue
l’imprescindibilità del dialogo, cioè di quel reciproco rivolgersi dell’Io e del Tu che costituisce
il tema centrale delle riflessioni del filosofo. E’, cioè, un argomento che il Buber svolge nelle
sue più diverse sfaccettature. Posto questo presupposto, la riflessione pedagogica di Martin
Buber si può rintracciare in molteplici spunti presenti, spesso in maniera implicita, nella sua
poliedrica produzione. L’ambito educativo, pur non essendo il suo principale focus d’interesse,
pervade tutte le sue opere; il linguaggio ponderato del filosofo preserva, in ogni sua pagina, un
rispetto quasi sacrale per la relazione educativa. Mediante l’analisi bibliografia dei suoi testi
principali, emergono dei temi forti, cioè senza luogo e senza tempo; in grado cioè di penetrare
nel cuore del lavoro educativo di ogni epoca; sono inoltre temi che abbracciano diverse età:
l’infanzia, l’adolescenza, l’età adulta. Nel primo capitolo, Martin Buber e il principio dialogico,
si cerca di radicare tali temi nell’appartenenza culturale del filosofo: l’impegno educativo di
Martin Buber non può essere, infatti, separato dalla sua esperienza in qualità di membro della
comunità ebraica nonché dalla sua passione per la tradizione chassidica. Inoltre, prima di dar
maggior rilievo al discorso pedagogico, si è analizzata l’idea di condizioni umana che il filosofo
presenta nel Problema dell’uomo: si tratta di considerare l’individuo nel suo configurarsi come
essere sociale. Secondo Buber, infatti, la socialità umana non è un sentimento empirico di
compassione o simpatia, ma un a priori che pone in contatto l’io e il tu in modo totalmente
gratuito. Sempre nello stesso testo il filosofo espone una chiara preoccupazione sulla
condizione umana: il mondo del Tu, ovvero dell’essere, è costantemente minacciato dal mondo
dell’Esso, cioè dell’avere e dell’apparire. Il capitolo successivo, Il contributo pedagogico di
Martin Buber, vuole infatti essere un invito a considerare le riflessioni del filosofo come
presupposto da cui partire per fondare il proprio compito educativo, oltre che la propria
esistenza, su una dimensione spirituale di riconoscimento dell’altro. Martin Buber non si è mai
dichiarato implicitamente un teorico dell’educazione, tuttavia ha voluto dare maggior
importanza al discorso pedagogico in un volume dal titolo I discorsi sull’educazione. Si tratta
di tre testi che si rifanno rispettivamente all’età infantile, all’età adulta e all’adolescenza. Ogni
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discorso è caratterizzato da spunti che possono arricchire il lavoro educativo di ogni educatore.
I tre discorsi hanno il compito di interpellare non solo l’educatore di ogni tempo, ma anche tutti
coloro che vogliono sperimentare una relazione autentica, a vivere responsabilmente qualsiasi
tipo di rapporto. La responsabilità educativa, in particolare, si traduce, per il filosofo, in un
lavoro attento e consapevole nel quale l’educatore seleziona per l’educando alcune realtà e
alcuni aspetti del mondo. In questo senso Buber utilizza la metafora della pompa: l’educatore,
mediante la sua selezione, deve altresì potenziare gli interessi dell’educando. Lo scopo
educativo è, dunque, la maggiore autonomia del soggetto educativo. Questa è vista non come
un obiettivo, ma come un mezzo affinché “le energie creative” dell’educando vengano alla luce
in modo del tutto unico e irripetibile. Come si possono, però, porre le basi per una relazione
autentica tra educatore-educando? Come in quest’ultimo può accendersi quella “piccola
scintilla” da cui dipende una risposta appassionata? Oltre ad elencare gli atteggiamenti base
della relazione educativa, dal contatto alla fiducia, Buber sostiene che prima ancora di parlare
di educazione bisogna partire dai fondamenti dell’identità stessa di chi si accinge ad educare.
“Chi sei?”; “Su cosa si basa la tua visione del mondo”? sono alcune delle domande che il
filosofo, nel testo Il cammino dell’uomo, rivolge agli adulti, educatori e non: l’emergenza
educativa è infatti rintracciabile nella mancata risposta a questi interrogativi. La fiducia di cui
parla il filosofo non può essere fondata se l’educando non sperimenta nell’adulto una presenza
autentica, in grado ciò di saper rispondere mediante una concreta presenza. L’auspicio del
filosofo, nell’ultimo dei suoi discorsi, è quello che l’educazione possa formare persone in grado
di saper afferrare e cogliere la realtà, distinguendo cioè che è apparenza e fondando la propria
esistenza mediante una verifica continua del proprio cammino. Dopo un focus, dunque,
sull’analisi filosofica e pedagogica dei testi di Martin Buber, l’attenzione, nel terzo e ultimo
capitolo, si sposta su quelle tematiche che possono essere ancora attuali e utili per chi
intraprende un lavoro educativo e di cura: suggerimenti su come impostare una vera e propria
pedagogia dell’incontro, i tratti di una conversazione autentica, la formazione continua di chi
educa e la sua messa in gioco. L’ultima parte di questo lavoro si focalizza, pertanto, sul proporre
delle soluzioni, mediante la riflessione sul pensiero buberiano, ad alcuni problemi odierni: il
nichilismo che giovani e adulti sperimentano e la difficoltà di attuare una vera pedagogia
interculturale. In ultimo si fa riferimento ad alcune pratiche dialogiche odierne, come l’Open
Dialogue finlandese, che si rifanno alla stessa idea di Martin Buber: il dialogo è una scintilla,
una chiave di volta che può innescare processi generativi e trasformativi.
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1. MARTIN BUBER E IL PRINCIPIO DIALOGICO
Martin Buber fu un filosofo, pedagogista e teologo collocabile nel panorama della cultura
ebraica del secolo scorso. Nacque a Vienna l’8 febbraio del 1978 da una famiglia di ebrei
assimilati. All’età di tre anni si trasferì però a Lemberg (in Galizia) in seguito alla separazione
dei suoi genitori. Qui passerà molto tempo con i nonni paterni. Questi furono determinanti per
la formazione umana e culturale di Buber: il nonno, Salomon, era infatti uno studioso della
tradizione ebraica, mentre la nonna, Adele, «un amante della parola». Fin da piccolo, pertanto,
iniziò a studiare le lingue, in particolare l’ebraico, il francese e il latino. Il nonno era un
appassionato di filologia, ma fu la nonna paterna a trasmettergli maggiormente la passione per
le lingue per le quali nutriva un interesse puro e immediato. Il legame con i nonni colmò inoltre
quel senso di perdita che Buber testimonia dopo la fine del matrimonio dei suoi genitori. La
separazione dei genitori fa sperimentare al piccolo Martin quello che poi chiamerà disincontro
(Vergegnung): con questo termine sottolinea il fallimento di un autentico incontro tra le
persone:
Il dolore di quell’evento si impresse pertanto in modo indelebile nel piccolo Martin e, con lo scorrere
degli anni, lo portò ad individuare in quel fatto non solo un significato personale ma un
insegnamento vero, valido universalmente: sull’incontro e, in negativo, sul mancato incontro, si
gioca l’umanizzazione dell’uomo; è questa, in fondo, l’esperienza più significativa e drammatica
degli uomini tutti, il problema primo sul quale deve pertanto impegnarsi il discorso pedagogico
autentico
1
.
Rimase a Lemberg fino al 1896 e in seguito ritornò nuovamente a Vienna all’età di quattordici
anni. Qui trascorse la sua adolescenza e riprese i rapporti con il padre, Karl Buber. Nonostante
l’interesse per la filosofia laica, Martin, grazie al padre, ebbe l’occasione di incontrare uno
zaddiq, cioè uno dei punti di riferimento della comunità chassidica. Provò in questa occasione
ammirazione e curiosità per l’esperienza del chassidismo. Tuttavia svilupperà più tardi un vivo
interesse per tale movimento. In questa fase giovanile iniziò inoltre i suoi studi filosofici per
poi continuarli a Lipsia, Berlino (dove fu allievo di Dilthey e Simmel), Basilea e Zurigo. Nel
1904 diventa Dottore in filosofia e inizia ad impegnarsi attivamente nel movimento sionista
2
.
Mantenne le distanze dalla posizione politica del fondatore del movimento, Theodor Herzl, per
interessarsi prevalentemente alla dimensione spirituale e culturale del movimento: il suo intento
era quello di far rinascere una nuova coscienza ebraica. Fonda a questo proposito un circolo, il
«il Forte Kreis», che però non ebbe vita a causa dell’inizio della Prima guerra mondiale.
Durante questo periodo sarà però uno dei sostenitori della Commissione Nazionale Ebraica il
cui scopo era quello di migliorare le condizioni di vita degli ebrei nell’Europa Orientale. Negli
anni successivi si interessò a ristabilire una convivenza pacifica tra ebrei e arabi in Palestina,
1
Milan G, Educare all’incontro. La pedagogica di Martin Buber, Città Nuova Editrice, Roma 2000, p. 8
2
Il sionismo è un movimento nato alla fine del XIX secolo all’interno del panorama, più ampio, del nazionalismo
moderno. Nello specifico si tratta di un movimento politico sviluppatosi tra gli ebrei residenti in Europa il cui
intento era quello di far valere il loro diritto all’autodeterminazione. Alla fine della Shoah e dopo la creazione dello
Stato di Israele (1948) il sionismo si è trasformato in un movimento di sostegno all’immigrazione nello stato
israeliano. Il termine sionista, inoltre, è attualmente usato per identificare alcune fazioni politiche israeliane che
vedono lo Stato di Israele come simbolo dell’identità ebraica.
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fondando nel 1921 la «Jüdische Gesellschaft für Internationale Verständigung». Il 1923 fu un
anno importante per Buber: pubblica Ich und Du (Io e Tu), libro che segna il periodo della
maturità del suo pensiero e un importante contributo nell’ambito della filosofia dialogica.
Diventa successivamente professore di Scienza della religione ed etica ebraica all’Università
di Francoforte. È in questo ambiente che incontrerà Franz Rosenzweing con il quale inizierà
una nuova traduzione in tedesco della Bibbia ebraica. Questo progettò fu però ultimato solo da
Buber nel 1961 per via della precoce morte del collega. Nel 1933, per via del Nazismo, fu
costretto a lasciare la sua cattedra e la città: si trasferì, compiendo la alijja, cioè la salita, a
Gerusalemme. Qui ottenne una cattedra di Filosofia sociale. In questi anni inoltre si rese
partecipe al dibattito riguardante il ritorno degli ebrei in Israele, facendosi sostenitore di uno
Stato democratico bi-nazionale. Muore nel 1965 all’età di ottantasette anni con la presenza
sempre costante della moglie, la scrittrice Paula Winkler.
1.1 L’ebraismo e il chassidismo
Fin dall’infanzia, il rapporto tra Buber e l’ambiente culturale ebraico fu significativo,
soprattutto durante l’adolescenza in cui trascorse molto tempo con i nonni, ebrei assimilati.
Tuttavia, l’interesse che sviluppò verso l’ebraismo non fu dovuto esclusivamente ad una scelta
dettata dalla tradizione familiare: l’adesione, in età adulta, al movimento sionista non fu infatti
priva di interrogativi e dubbi. Contestò fin da subito le idee politiche della maggioranza del
movimento, in particolare quella del nazionalismo: per Buber non si trattava di rivendicare
soltanto un’identità ebraica, ma partire da essa per aprirsi ad un confronto con altre culture. In
particolare auspicava di risanare il difficile dialogo tra arabi ed ebrei. A questo proposito si
rivolse anche al Mahatma Gandhi: nel 1939 scrive una lettera in cui sottolinea in modo
lungimirante il suo punto di vista:
con vera pace abbiamo inteso e intendiamo il fatto che entrambi i popoli debbono amministrare il
paese senza che l'uno possa imporre all'altro il proprio volere. Questo ci sembra, in considerazione
delle abitudini internazionali della nostra epoca, molto difficile ma non impossibile. Eravamo e
siamo ancora consapevoli del fatto che proprio in questo caso senza precedenti si debbano cercare
nuove strade di comprensione e accordo tra i popoli
3
.
In concreto Buber si dimostra attento alle questioni politiche del tempo, sostenendo, sempre
nella stessa lettera che «la vera decisione in questa materia può avvenire solo dall’interno e non
dall’esterno»
4
.
Buber è convinto che l’ebraismo abbia un ruolo specifico: più di altre culture orientali, infatti,
questa cultura costituisce un vero e proprio ponte tra Oriente e Occidente, poiché è in grado di
cogliere un bisogno intimo dell’uomo, cioè la tensione verso l’unità. L’ebraismo avrebbe questa
significatività, perché, nell’interpretazione di Buber, costituirebbe l’espressione più matura di
una cultura capace di porre al centro la questione umana, o meglio, il “problema dell’uomo”,
come scriverà egli stesso. Una delle caratteristiche che coglie meglio questa specificità
3
“Gandhi, gli ebrei e il sionismo: la lettera aperta di Martin Buber a Gandhi sulla Palestina”, (1939), in Jewish
Virtual Library, https://www.jewishvirtuallibrary.org/letter-from-martin-buber-to-gandhi, (consultato il
24/11/2020)
4
Ibidem.
5
dell’ebraismo è rappresentata dal ruolo giocato nella cultura ebraica dall’antitesi separazione-
incontro. Proprio per questo, secondo Buber l’Occidente avrebbe bisogno del messaggio della
cultura Orientale, in particolare di quella ebraica: possibilità di superamento del dualismo
Occidentale e, sul piano politico, di una successiva unificazione del mondo, partendo da un
processo di conversione e dall’azione dell’uomo stesso:
In ogni evento, all’uomo ebreo si manifesta quella suprema verità della vita dell’Oriente: che il
destino intero del mondo dipende, in una misura che nessuno è capace di valutare, dall’azione di
colui che opera. La concezione fondamentale dell’ebraismo è la concezione del valore assoluto
dell’azione come d’una decisione […]. Fra tutte le formazioni spirituali dell’umanità, l’ebraismo è
l’unica in cui la decisione dell’uomo diventa in tal maniera centro e senso di ogni evento […]. Per
l’ardore del suo interno impulso di conversione, e per il fervore della sua fede nella potenza e nella
maestà della conversione, per la sua nuova magia, la magia della decisione, l’ebraismo ha
conquistato l’Occidente alla dottrina dell’Oriente. Grazie ad essa egli è diventato virtualmente
l’Oriente operante.
5
Come è stato sottolineato, Buber «ha mostrato al mondo occidentale che l’ebraismo esiste come
vita e pensiero attuali, ed è sempre lui ad aver insegnato a questo stesso ebraismo che si stava
rivelando nuovamente all’esterno»
6
. In particolare, Buber si propone di riabilitare un ebraismo
post-cristiano in quando in esso sarebbe possibile rintracciare delle tematiche universali.
Le caratteristiche della separazione-unione e dell’azione come decisione responsabilizzante
verranno poi incontrate da Buber nel chassidismo. Il chassidismo
7
o hassidismo è un
movimento ebraico che si sviluppa nell’Europa centro-orientale introno al XVIII secolo. Ha
come scopo quello di dare un nuovo impulso alla tradizione ebraica: rifiuta infatti il rabbinismo
perché elitario e tradizionalista. I maggiori esponenti del chassidismo infatti accusarono i
Rabbini di seguire in modo troppo meccanico gli insegnamenti della Torah e di negare alla
gente comune l’accesso ai messaggi del Libro sacro. Nel 1903-1904 Buber incontra il
chassidismo grazie alla lettura del testamento del Rabbi Israel Baal Shem. Sosterrà in seguito
di aver scoperto in quel momento la vera natura dell’ebraismo e di aver compreso meglio la sua
religiosità nonché la sua rappresentazione della realtà. Decise dunque di dedicarsi per cinque
anni allo studio dei testi chassidici, traducendoli allo scopo di valorizzare l’esperienza salvifica
ed educativa del movimento: per Buber il chassidismo era infatti molto attuale rispetto ai
problemi esistenziali dell’uomo del XX secolo.
Il filosofo e teologo ebreo divenne ben presto noto per aver diffuso in Occidente la tradizione
chassidica, portando in vita una sapienza religiosa che derivava da quella dell’ebraismo,
distrutto dal nazismo. L’impegno di Buber per il chassidismo si dimostra un tentativo di trovare
delle risposte ai problemi dell’uomo occidentale, incapace di costruirsi un’immagine stabile del
mondo. Se l’uomo occidentale vive in una costante lacerazione tra pensiero e vita, tra sacro e
profano, il messaggio chassidico può essere un antidoto per superare questa separazione. La
vocazione dell’uomo giusto deve infatti essere quella di ricercare nella pratica quotidiana il
sacro. Attraverso le sue azioni intenzionali, l’uomo ha la responsabilità di poter santificare ogni
5
M. Buber, Sette discorsi sull’ebraismo, tr. It. di D. Lattes – M. Beilinson, Israel Società tipografico editoriale,
Firenze, Israel 1923, p. 74.
6
Riva F. (a cura di), Martin Buber, Emmanuel Lévinas, Gabriel Marcel. Il mito della relazione, Castelvecchi,
Roma 2016, p. 51
7
La parola deriva dall’ebraico ‘’chassidism’’ e si traduce con ‘’pio’’.
6
evento e ogni gesto profano: in questo caso il profano non deve essere visto come qualcosa da
eliminare, ma come uno stadio preparatorio di ciò che aspetta di essere santificato. Si tratta,
quindi, di una concezione immanentistica dove Dio è ricercato non solo nei momenti di culto,
ma in ogni momento del reale:
Secondo questa concezione del chassidismo, nella presenza concreta al mondo bisogna cogliere una elevazione
del mondo, far sgorgare le scintille di lassù che quaggiù sono affievolite, raccoglierle e ricondurle all’Ardore
originario da cui sono discese. Nella prospettiva di Buber, attraverso l’umano avviene l’esaltazione degli istanti
del tempo banale, e come in molte concezioni moderne l’uomo, o l’Io, sarebbe essenzialmente ciò che è risvegliato
dal dramma dell’essere allo scopo di riunire, recuperare, ricondurre verso lassù ciò che è decaduto.
8
Per Buber superare il dualismo sacro-profano vuol dire trovare l’antidoto alla secolarizzazione
dell’uomo occidentale: hic et nunc, l’uomo ha la possibilità di cogliere in ogni cosa la scintilla
divina, che passa però attraverso il dialogo con l’altro. A questo proposito il comando biblico
secondo cui gli uomini «devono essere santi per Dio» è stato reinterpretato dal chassidismo
con: «Voi dovete essere santi in modo umano». Santificare il presente non vuol quindi dire
cadere in un’esaltazione mistica: «negli istanti esaltanti, il contatto con il divino, è, per Buber,
incontro, dialogo, apertura agli altri, ma nello stesso tempo presenza a sé. L’istante va oltre se
stesso non nell’impersonale ma nell’interpersonale»
9
.
Nella sua interpretazione pedagogica del pensiero di Martin Buber, Giuseppe Milan prende in
considerazione tre aspetti importanti del chassidismo che hanno influenzato il pensiero
educativo di Buber
10
. In primis, la narrazione: i messaggi del chassidismo sono presentanti
mediante degli aneddoti, racconti di vita quotidiana, soprattutto quella degli zaddiquim, cioè le
guide della comunità chassidica. Oltre ad avere un valore educativo, dal momento che
tramutano in leggende e aneddoti questioni profonde, come il senso dell’esistere, sono capaci
di rendere salvifico l’uso della parola. Lo stesso Buber si impegnerà a rivisitare e a scrivere dei
testi chassidici. Ne è un esempio il I racconti dei chassidim: in questo caso l’autore raccoglie i
principali racconti dei capi spirituali della comunità chassidica, gli «zaddikim». L’intento è
quello di continuare a tramandare le storie scritte e parlate del chassidismo mediante il semplice
ed efficace espediente dell’aneddoto leggendario. La raccolta risulta divisa in capitoli relativi
ad un diverso zaddiq e ai suoi rispettivi racconti. Per farne qualche esempio:
Le mele
Una povera venditrice di mele, che aveva il suo banco vicino alla casa di Rabbi Chajim, andò
un giorno a lamentarsi con lui. «Rabbi nostro, non ho ancora il denaro per fare le compere del
sabato.» «E il tuo banco di mele?» chiese lo zaddik. «La gente dice che le mie mele sono cattive
e non le vuole comprare». Subito Rabbi Chajim corse sulla strada e gridò: «Chi vuol comprare
buone mele?». In un attimo una folla si radunò intorno a lui, le monete piovvero senza neppur
essere guardate e contate, e in breve tempo tutta la verdura fu venduta al doppio e al triplo del
8
Riva F. ( a cura di), Martin Buber…, cit. p. 53
9
Ivi, p. 56
10
Milan G., Educare all’incontro. La pedagogia di Martin Buber, Città Nuova, Roma 2002.