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Introduzione
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L’India è un paese vasto e variegato in cui coesistono
idee diverse, costumi molto eterogenei e una pluralità
di opinioni e di interessi. Il tentativo di parlare di un
solo aspetto della cultura indiana comporta per tanto la
consapevolezza della complessità del contesto sociale,
culturale, storico, politico ed economico in cui questo
aspetto si inserisce. Per queste ragioni esiste la
consapevolezza della possibilità di approcci diversi per
riflettere su un dato aspetto, e che quello qui proposto
non è certamente l’unico.
La satī, ossia la pratica per cui una donna rimasta
vedova si immola sulla pira funebre del defunto
consorte, argomento centrale di questo lavoro, era e
resta una realtà indiana. Nel periodo vedico le
testimonianze più dirette della presenza o meno del
rituale della satī sono solo descrizioni simboliche per
cui la vedova si poneva accanto al corpo del marito
morto, e invece di bruciarsi, veniva poi invitata a
rialzarsi e a seguire un altro sposo. Nella letteratura del
dharma le testimonianze dirette sulla satī sono scarse. I
testi più antichi spesso non ne parlarono; al contrario
quelli più recenti, ad esempio i commenti rispetto alle
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opere, ne fecero menzione. Questi testi restavano
comunque in contraddizione tra loro: alcuni
mostravano una particolare inclinazione verso la satī,
altri la proponevano come una delle possibilità che
aveva la vedova, oltre a quella di vita ascetica e di
penitenza, altri ancora la proibivano in modo netto. In
generale la società dovette considerare la satī come un
fatto ingovernabile: la satī non era obbligatoria, non
poteva quindi essere inserita tra i doveri di una vedova,
ma non era neppure proibita, perché in realtà, era vista
con favore dal contesto sociale.
1
Nel periodo classico
la satī risultò essere comunque circoscritta a
determinate occasioni e ambienti, mentre si rivelò
essere un fenomeno al quanto diffuso nell’India
medioevale e moderna. E’ ciò che dimostrarono le
fonti letterarie e, soprattutto, epigrafiche. Queste
ultime, di cui la prima risale al 510 d. C.,
rappresentarono la testimonianza dell’evoluzione e
dello sviluppo nei secoli della satī. Le testimonianze
epigrafiche, ossia le stele funerarie, erano il segno di
un culto che si instaurò attorno a tale costumanza e
1
Tale fu l’affermazione di L. Santangelo Piretti, nell’opera Satī, una
tragedia indiana, cit.
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della sua diffusione raggiunta fino all’editto abolitivo
di Lord Bentinck nel 1829. In generale, la società indù
riteneva questo rito una prova d’amore e una
dimostrazione di coraggio, di fedeltà e castità, per cui
la donna che lo praticava era una “moglie virtuosa”.
Satī è anche la sposa di Śiva, prototipo della “sposa
virtuosa” (questo è il significato del nome), che
s’immolò volontariamente nel fuoco per difendere
l’onore del proprio sposo che non era stato invitato dal
padre di lei Dakṣa a celebrare un grande sacrificio in
onore di Viṣṇu. Il lettore pertanto si trova di fronte ad
una realtà crudele e allo stesso tempo prova di una
fedeltà assoluta della donna sposata, culminante nel
sacrificio volontario. Quest’ultimo è però anche
affermazione di una realtà essenziale, di un essere
autentico, detto in sanscrito sat. La satī, che è anche la
donna che si immola sulla pira del suo sposo defunto,
afferma attraverso il suo sacrificio, nello stesso tempo,
la virtù della verità (satya) e l’assoluto che è in lei
stessa. La donna che fa il voto (detto sampalkya, cioè il
preliminare necessario di tutti gli atti sacrificali
indicato nei Veda) di accompagnare il suo sposo nella
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morte trascende la sua condizione ordinaria,
diventando così una dea. Era ciò che percepivano i
presenti al rito e quanti ne difendevano il principio.
La satī si inscrive nella tematica più ampia del ruolo di
moglie, della condizione della vedova in India e della
questione femminile. Secondo i testi normativi l’unico
status di purità rituale per la donna era quello di
moglie, essa dunque si trovava a dipendere da questo
ruolo. Perdendo questo ruolo e di conseguenza lo status
rituale, la vedova indiana entrava in una condizione di
peccato dal quale doveva uscire al più presto possibile.
Quel matrimonio che le avrebbe dato questa possibilità
e che si prospettava alla vedova nel periodo vedico, a
partire già dai testi principali del dharma del periodo
classico, diventò uno dei tabù più rigidi della morale
indiana. Per questo la satī è importante, al di là della
persistenza o meno nell’India di oggi, per il posto che
questa pratica occupa nella visione indù del mondo e
per come essa riflette la considerazione della donna e
in particolare del ruolo della sposa indù. Di
conseguenza, ciò che è importante sono anche i dati
che emersero dai dibattiti pubblici che hanno seguito le
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satī avvenute nell’India contemporanea. Questi
dibattiti furono rilevatori di una serie di cambiamenti
che inglobavano non solo la donna che compiva tale
gesto, ma tutta la società indù.
In questa sede l’obbiettivo è la comprensione
dell’origine del fenomeno satī, come si è modificato
nel tempo, ciò che lo rende ancora attuale e in base a
quali idee, fino al cambiamento del significato
culturale della satī in seno alla società contemporanea.
Sarà così possibile, da poter illustrare la nascita di quei
dibattiti che discutono pubblicamente, a frequenza
quasi regolare, l’argomento della satī. Diversi sono gli
studi esistenti sull’argomento. Si citano in particolare
lo studio condotto da A. Sharma, Sati: Historical and
Phenomenological Essays (1998), che è stato molto
utile per la definizione del fenomeno e delle sue
origini, nonché della sua evoluzione fino all’editto di
Lord Bentinck. Utile a questo lavoro è stata anche
l’opera di Lata Mani, Contentious Traditions: the
Debate on Satī in Colonial India (1998), per ciò che
l’autrice stessa chiama la “storia legislativa” della satī.
Si vuole ricordare, inoltre, il saggio di Lourens P. van
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den Bosch, Satī and Satī Temple as Focus of Political
Interest (1990), per l’attenzione da lui dedicata al
dibattito che ha seguito la satī di Roop Kanwar e agli
intrecci politici che potrebbero essere connessi
all’amministrazione dei templi dedicati alle satī. A
queste citazioni si vuole aggiungere l’opera di Laura
Piretti Santangelo, Satī, una tragedia indiana (1991),
importante per lo spazio dedicato alla condizione della
vedova e della donna indiana in generale, in cui
l’autrice inscriveva la questione della satī. Infine si
citano l’opera di Catherine Weinberger-Thomas,
Cendres d’Immortalité. La Crémation des Veuves en
Inde (1998), per l’importanza del suo lavoro e di
un’indagine sul campo svolta per circa quindici anni
sul fenomeno satī; e il saggio di Anand A. Yang,
Whose Sati? Widow Burning in Early-Nineteenth-
Century India per l’importanza dei dati che
evidenziano l’incidenza della pratica, l’età delle
vedove che si immolavano e le aree in cui veniva
maggiormente praticata durante i primi decenni
dell’Ottocento, che questo saggio fornisce.
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Questo elaborato, frutto di una comparazione e di
un’attenta analisi delle opere sopra ricordate e di altre
ancora, si suddivide in quattro capitoli. Il primo
conduce al passato, analizzando le possibili tracce
dell’esistenza del rito nell’ “antica India”, vista
l’importanza che essa riveste nella comprensione della
realtà odierna. Pertanto il fenomeno, quale esso si
presenta, viene prima descritto nel suo ambito storico e
nelle fonti indiane, per poi gettare uno sguardo alle
testimonianze lasciateci dagli antichi greci e latini su
casi di satī. Il secondo capitolo è dedicato al modo in
cui questo rito fu visto e vissuto dagli osservatori
occidentali: viaggiatori, missionari, mercanti e studiosi
che nel corso dei secoli XIV fino al XVIII circa fecero
dell’India una delle loro mete. Tenuto conto dei canali
e strumenti di comunicazione di cui si serviva,
l’informazione straniera sulla satī, l’analisi vuole
cogliere quali aspetti di questa costumanza siano stati
colti e approfonditi dall’Occidente.
Venendo al periodo coloniale, le iniziative dei
governatori, l’ampia letteratura storica e giuridica che
accompagnò l’editto di Lord William Bentinck, sia da
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parte inglese che indiana, tra cui l’importante ruolo
riformatore di Rammohan Roy (o Ram Mohan Roy),
sarà oggetto, seppure in modo marginale, rispetto al
nucleo centrale della nostra indagine, del terzo
capitolo.
Infine, le analisi precedenti vengono messe a confronto
con la realtà più recente nel quarto capitolo, in cui, nel
quadro degli intricati cambiamenti sociali in seno alla
società indù, si dà spazio alle riflessioni sulle
dinamiche che rendono la satī un rito ancora attuale. Il
contesto contemporaneo è lo sfondo storico sul quale
mettere in evidenza le caratteristiche che questo rito
assume in relazione a quei movimenti moderni per cui
la satī è un crimine, e a quei soggetti e istituzioni che
continuano ad associarla a vari valori positivi.
Si vuole ora brevemente illustrare come questo lavoro
è stato organizzato. Una prima fase di ricerca nei
cataloghi nazionali e internazionali collettivi (opac,
sudoc, bulac, ecc.) è stata seguita da una seconda fase
di lettura e studio delle fonti e di stesura in varie
biblioteche d’Italia, tra cui quella della facoltà di Studi
Orientali, presso l’Università degli studi di Roma La
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Sapienza e quella delle facoltà di Lettere e Filosofia
presso le Università degli studi di Bologna e di
Firenze. La ricerca è stata poi portata avanti nella città
di Parigi, in particolare nelle biblioteche dell’Institute
de Langues et Civlisations Orientales, dell’École en
Hautes Études en Sciences Sociales, nella biblioteca
“Sainte Genevieve”, e infine nella biblioteca del Centre
d’études de l’Inde et de l’Asie du Sud presso la Maison
de l’Asie.
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1
Dentro la satī: origini e identità
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Derivato dalla radice sanscrita as “essere”, il cui
significato “è colei che è”, traslato in fedele, buona,
virtuosa, il termine satī indica sia l’atto di immolazione
di una moglie sulla pira funebre del proprio marito sia
la vittima stessa. Questo è detto anche sahamaraṇa (il
morire insieme) o sahagamana (l’andare insieme) o
anvārohaṇa (il salire dopo sulla pira), così come
l’anumaraṇa o anugamana (il morire, l’andar dopo).
Gli attributi per cui si vuole la donna fedele, buona e
virtuosa, riflettono dunque il dovere insito nell’azione
a cui la donna, salendo coraggiosamente sulla pira
funebre del marito, adempie. Le ragioni che hanno
portato all’istituzione della satī vanno ricercate
all’interno di quella stessa società indiana, che ha dato
origine all’idea comune di subalternità sociale e
religiosa della donna, che sono alla base della satī nella
sua forma più matura.
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1.1. La satī, e altre forme di “suicidio rituale”.
Prima di analizzare il centro di interesse di questo
lavoro, ossia l’immolazione della vedova, si vuole
ricordare che la satī
2
non fu l’unico “suicidio rituale”
indiano. L. Piretti Santangelo, autrice di Satī, una
tragedia indiana, definì il “suicidio rituale” come:
l’autoestinzione compiuta non sulla base di una scomposta
motivazione personale, ma minuziosamente preparata, spesso
pubblica, eseguita per motivi di ordine religioso, comunque
trascendente l’individuo.
3
Le forme di isteria collettiva, dovute alla
manifestazione di devozione religiosa che si verificano
di solito durante la processione di Puri nell’Orissa, era
un esempio. In queste occasioni, Kṛṣṇa Jagannātha
(Signore del mondo), viene trasportato su di un carro
fra le cui ruote si gettano alcuni dei devoti presi da
quest’isteria.
4
La breve esposizione di quest’altra
2
Questo termine fu applicato al rito dai primi missionari cristiani, fu
poi anglizzato in “suttee”; cfr. M. Stutley e J. Stutley, A dictionary of
Hinduism : its Mythology, Folklore and Development 1500 B.C.-A.D.,
London, Henley, 1977 (trad. italiana di G. Milanetti, Dizionario
dell'Induismo, Roma, Ubaldini, 1980, coll. “Civiltà dell’Oriente”, sub
voce.
3
L. PIRETTI SANTANGELO, Satī, una tragedia indiana, Bologna,
Clueb, 1991, p.103.
4
Cfr. G. C. MUNDY, “Pen and Pencil Sketches”, in A tour in India,
London, John Murray, 1858, p. 246-9, citato in H. KAUL,
Travellers’India An Antology, London, Oxford University Press, p.
39; cfr. inoltre, A. ESCHMANN e E. KULKE, G. C. TRIPHATHI,
17
forma di suicidio rituale
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è utile a meglio delineare il
carattere della satī e del jauhar (vedi par. 1.2.). Essi
infatti hanno elementi comuni che li distinguono dalle
immolazioni collettive di cui si è parlato. La
caratterizzazione sessuale è uno di questi elementi: essi
sono entrambi immolazioni femminili (con le eccezioni
che si sono viste, per il jauhar)
6
. In secondo luogo,
sono entrambi immolazioni decisi in seguito ad un
accidente esteriore (la morte del coniuge nel caso della
satī, la perdita di un principe in battaglia nel caso del
jauhar). Pertanto dipendono da questo elemento
esterno imprevedibile, che rientra nella sfera privata
degli affetti. I “suicidi rituali” in genere non sono
quindi gesti disperati e imprevedibili come nel caso
dell’isteria collettiva dovuta alla devozione per Kṛṣṇa
Jagannātha. Infine nel caso della satī come nel caso
del jauhar la singola persona che lo compie è
sovrastata dal rito, nel senso che pur evolvendosi in un
lutto personale, fanno riscontro però implicazioni
The Cult Of Jagannāth and Regional Tradition of Orissa, New Delhi,
Manohar, 1978.
5
Per approfondimenti si veda U. THAKUR, The History of Suicide in
India, Delhi, Munshiram Manoharlal, 1963.
6
Cfr. L. PIRETTI SANTANGELO, Satī,una tragedia indiana, cit.,
p.103.
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familiari, castali, e soprattutto religiose. Occorre
chiarire che, in questo caso, non è possibile fare
appello alla coscienza individuale, per cui il primato
del dovere di casta sulle problematiche di tipo
individuale o personale è assoluto. Nella cultura
tradizionale indù la persona umana non ha un valore in
se stessa, ma solo in rapporto alla funzione che svolge
nella società. Secondo i testi normativi della tradizione
religiosa indù (smṛti) lo sva-dharma o viśeṣa-dharma
comprende le regole specialmente dettate per ciascuna
casta o jāti. In particolare, i doveri religiosi e rituali
variano appunto a seconda della categoria sociale, della
casta, o dello stadio di vita al quale ciascuno
appartiene. L’adempimento del dovere religioso
(dharma) andava di riflesso a beneficio della
collettività. Le implicazioni castali e familiari nel rito
della satī si inscrivono in questa concezione del dovere
rituale, per cui chi compiva il rito era venerata da tutti.