0. Introduzione alla tesi
0.1. Obbiettivi e metodo
Il seguente lavoro tenterà di individuare lo sviluppo dell’identità visiva della Fiat 500 di
epoca recente, in particolar modo verranno presi in esame i modelli del 1992 e del luglio
2007 immessi sul mercato con il nome di Nuova Fiat 500. Porremo le due vetture sotto la
lente d’ingrandimento per ciò che concerne il loro aspetto estetico ed andremo ad
analizzare gli spot che le hanno lanciate al pubblico. Nell’osservazione dei dettagli estetici
delle auto, abbiamo preso in considerazione i lineamenti, le forme e le parti principali
dell’esterno delle autovetture e le abbiamo confrontate con quello che, a nostro avviso,
costituiva il loro maggiore competitor. I modelli stranieri presi in analisi sono
cronologicamente antecedenti ai due esemplari di casa Fiat, per questo riteniamo che gli
ideatori dei modelli italiani abbiano esaminato le caratteristiche dei loro concorrenti per
creare la loro automobile.
Per quanto riguarda le ricerche svolte sulle pubblicità, ci immergeremo nelle analisi dei
testi audiovisivi per scoprire i messaggi veicolati dagli autori degli spot cercando di
individuare le loro strategie comunicative.
Tali obbiettivi verranno raggiunti con l’ausilio di alcune tecniche semiotiche da noi
selezionate, le andremo ad illustrare ed a spiegare per mezzo di una breve premessa
teorica.
0.2. Premessa teorica
0.2.1. Il concetto d’identità visiva
Parlare di identità visiva in semiotica signifca fare primariamente riferimento all’opera del
1995 di Jean Marie Floch, Identità visive. Costruire l’identità a partire dai segni.
Egli intende tale concetto come il risultato della proposta che un soggetto enunciatore fa
attraverso l’insieme sincretico degli elementi utilizzati per costruire un determinato
discorso,
“patrimonio segnico la cui coerenza è data intravedere solo ben oltre la superfcie
fgurativa, per corrispondenza semi-simbolica e fgurale. […] È chiaro infatti che
l’identità non concerne affatto in priorità il fgurativo, ma che può essere giocata a
livello narrativo o plastico con altrettanta effcacia”
(Ceriani, introduzione all’edizione italiana, Floch 1995, p. 14-16). In tale visione, dunque, si
tratta di un’identità che rimanda alla presenza di un’istanza di enunciazione e ne
organizza la rappresentazione, con riferimento specifco a “quell’identità che si manifesta
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attraverso un assemblaggio di segni che si riferiscono anzitutto, ma mai esclusivamente,
alla percezione visiva”. Dunque
“identità come progetto, come coerenza nella prassi, come riconoscimento sicuro di
attributi (di forma, di contenuto) caratterizzanti. Identità oltre le differenze riscontrabili
sul piano della manifestazione, oltre la contraddittorietà eventuale delle fgure che la
supportano, come schema di rappresentazione che consenta all’osservatore di
raffgurare in modo coeso le istruzioni cognitive fornite dal testo” (Ceriani,
introduzione all’edizione italiana, Floch 1995, p.p. 15).
Al di là delle differenze riscontrabili sul piano della manifestazione, l’identità visiva si
caratterizza per la compresenza di tratti invarianti e di tratti variabili che nel caso specifco
della marca ne consentono l’adattamento ai diversi prodotti, nella nostra particolare
ricerca il “prodotto” 500. Come ben esemplifcato da Floch attraverso il saggio “Due
gemelli così diversi, così simili. L’identità secondo Waterman” (Floch 1995, p.p. 32-59), in
tale compresenza di tratti invarianti e variabili si rinviene l’infusso di Paul Ricoeur e della
sua opposizione fra l’idem e l’ipse, cioè fra identità come idem opposta alla mutevolezza, e
intesa pertanto come carattere permanente, sedimentazione e perpetuazione; e identità
come ipse svincolata invece da quest’idea di permanenza nel tempo. Dunque un’identità
data dalla medietà specifca tra il polo del carattere e il polo del mantenersi, o anche tra
permanenza e trasformazione, stabilità e dinamismo, movimento incessante tra vecchie
permanenze e nuove occorrenze.
Ogni identità può dunque essere considerata contemporaneamente come una differenza e
una permanenza: rispettivamente la prima intesa come sicurezza del riconoscimento e del
raggiungimento dell’obiettivo dell’impresa attraverso la continua innovazione dei prodotti
e delle forme per comunicarli, mentre la seconda viene concepita come la certezza del
perdurare dei valori industriali, economici e sociali dell’azienda.
L’identità va però tenuta distinta dall’identifcazione: quest’ultima è l’attività parallela del
soggetto ricevente, l’enunciatario, orientata in senso inverso e che, attraverso la sua opera
interpretativa, può accogliere o respingere la proposta persuasiva dell’enunciatore; ma, “al
di là del nucleo centrale identità/identifcazione, appare fondamentale la nozione di
«percorso», di connessione, di concatenazione, infne di dialettica tra permanenza e
innovazione, tra continuità e discontinuità, tra etica ed estetica” (Ceriani, introduzione
all’edizione italiana Floch, 1995, p. 16). Ciò detto, “il contratto” gestito dalla nozione di
identità consisterebbe dunque in un doppio programma di regolazione:
• interna: tra type e token, tratti invarianti e tratti variabili, dinamica che impone di
sorvegliare le soglie della saturazione reciproca;
• esterna: tra enunciato e ricevente, là dove la rappresentazione è anche un fascio di
istruzioni date al fne di permettere un reperimento facile e non contraddittorio di valori,
ad esempio, di marca” (Ceriani, introduzione all’edizione italiana, Floch 1995, p. 15).
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Inoltre,
“un’identità, sia nella produzione che nel riconoscimento, è sempre differenziale […]
per due motivi: da un lato perché non vi è identità che in rapporto a un’alterità, e
dall’altro, perché ogni identità si basa su un’operazione metasemiotica, che richiede
un’analisi delle relazioni tra le unità d’espressione o di contenuto dei segni che
costituiscono il materiale di partenza dell’identità stessa. […] Insisteremo, inoltre, sul
fatto che il nostro approccio all’identità è di tipo generativo: l’identità è defnita dal
suo modo di produzione, cioè dal processo di complessità crescente che ne fa,
precisamente, «un oggetto di senso»” (Floch 1995, p. 54).
E’ appunto in tal senso che l’identità è legata all’idea di processualità e percorso o,
suggerisce Floch rifacendosi a Michel Serres, alle immagini di un ponte o di un pozzo che,
in quanto vettori di connessione dei percorsi, rappresenterebbero la controparte visiva di
tale concetto.
“Il ponte è una via che unisce due sponde, o rende continua una discontinuità, valica
una frattura, o ricuce uno strappo. Lo spazio del percorso è crepato dal fume, che non
è uno spazio di trasporto. Da allora in poi, non c’è più un solo spazio; ce ne sono due
varietà senza limiti comuni […]. La comunicazione era tagliata. Il ponte la ristabilisce
vertiginosamente. Il pozzo è un buco nello spazio, una lacerazione locale in una
varietà. Può de connettere un percorso, che lo attraversa, in questo caso il viaggiatore
cade (uguale la caduta del vettore). Può però connettere delle varietà che si trovino
ammucchiate (foglie, pagine, formazioni geologiche). Il ponte è paradossale: connette
il disconnesso. Il pozzo lo è più ancora: deconnette, ma anche connette, il deconnesso”
(Serres, M., cit. in Floch 1995, p. 55).
Emerge in tal senso come l’identità visiva sia legata, pertanto, al concetto di isotopia: il
termine deriva dal greco iso “stesso-a” e tópos “luogo, dimensione” e altro non indica che
una linea di coerenza semantica, un flo rosso interno al testo che lo percorre tutto in virtù
di elementi ricorsivi disseminati nel testo stesso (potendo considerare testo anche un
corpus di più testi, come l’intera campagna di un brand) e che comportano appunto
ridondanza semantica; una sorta di flo di Arianna da seguire alla ricerca del senso e della
coerenza semantica nell’intricato labirinto di formanti plastici e fgurativi, elementi visivi e
non, cromatismi e linearità che si intersecano e danno vita all’effcacia comunicativa
dell’identità visiva da noi considerata.
Ancor più illuminanti le parole di Floch stesso al proposito:
“un’isotopia è la ricorrenza di una o più unità semantiche, che assicura l’omogeneità
di un discorso; è, in un certo modo, il denominatore comune che a poco a poco
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s’insedia e si ravviva nello svolgersi di un testo, o nel manifestarsi di un’immagine e
che, fnalmente, assicura la coerenza del suo contenuto. Se lo si colloca dal lato della
ricezione, cioè del lettore o dello spettatore, è il livello di percezione o di
interpretazione omogenea che risulta da letture parziali di enunciati e dalla soluzione
delle loro ambiguità. L’isotopia è, quindi, un fenomeno semiotico legato alla
dimensione sintagmatica del discorso: alle combinazioni delle unità, alla loro
copresenza, così come alla loro concatenazione orientata. Uno dei fni della descrizione
di un testo o di un’immagine è il riconoscimento delle isotopie: si tratta, allora, di
evidenziare le reti di relazioni sottese al contenuto del discorso esaminato, lavorando
sui lavori contestuali presi dai diversi elementi del testo o dell’immagine. […]
L’isotopia è, soprattutto, fenomeno trans-frastico: questa ricorrenza omogeneizzante si
instaura, più di frequente, ben oltre la prima frase. In più, essa non si coglie che nel
movimento retrospettivo della lettura: si riconosce a posteriori, un po’ come il flo
conduttore di una vita” (Floch, 1995, p.p. 39-40).
Di conseguenza possiamo considerare l’isotopia nel senso inteso da Umberto Eco (1979) di
coerenza di un percorso di lettura che rende possibile una lettura uniforme di una storia o
di un testo. In Lector in fabula Umberto Eco fa riferimento al concetto di enciclopedia per
intendere un “insieme registrato di tutte le interpretazioni” o anche un “distillato di tutti i
testi” e dunque indicare le competenze pregresse a partire da cui un utente interpreta un
testo e gli attribuisce un certo signifcato. È dunque defnibile come quell’insieme
registrato di tutte le interpretazioni per cui quando interpretiamo qualcosa, sia anche solo
una semplice parola, attiviamo virtualmente tutta una serie di connessioni a ciò che nella
nostra cultura ha una qualche attinenza con quella parola, o frase, o testo di qualsiasi tipo;
è dunque l’insieme di tutte le competenze pregresse a partire dalle quali un utente
interpreta un testo e gli attribuisce un determinato signifcato. Il rimando potenziale e
reciproco di tutte le unità culturali tra loro (secondo rimandi interpretativi variabili nonché
determinati dal contesto di riferimento) costituisce il cosiddetto modello rizomatico, o a
enciclopedia appunto, in cui alla costituzione ad albero, gerarchica e fssa, delle diverse
unità semantiche, si sostituisce una ramifcazione complessa, in cui tutto è potenzialmente
in contatto con tutto, senza gerarchia alcuna e prefssata a priori.
Essa, come già introdotto, è rinvenibile solo a posteriori nel processo di decodifca e lettura
da parte del destinatario del messaggio.
Precedentemente però, nella fase di costruzione/ideazione del testo, essa è la risultante
dell’opera di bricolage messa in atto dall’autore del testo.
Il concetto di bricolage è un altro caposaldo della rifessione fochiana, di cui una delle
peculiarità è la forte sensibilità agli apporti interdisciplinari, e primariamente al
marketing , alla storia dell’arte e all’antropologia.
È proprio da quest’ultima, e in particolare dal Pensiero selvaggio di Lévi-Strauss, che
Floch mutua il concetto di bricolage.
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Secondo l’antropologo francese l’attività umana si distinguerebbe tra un fare specialistico,
che si avvale di strumenti appropriati e costruiti appositamente per la funzione cui devono
adempiere, e un fare bricoleur in cui quest’ultimo dispone appunto di pezzi precostituiti
che di volta in volta e contingentemente vengono adattati alla funzione che sono chiamati
a svolgere:
“l’insieme dei mezzi del bricoleur non è dunque defnibile in base a un progetto; esso
si defnisce solamente in base alla sua strumentalità, cioè, detto in altre parole e
utilizzando il linguaggio del bricoleur, perché gli elementi sono raccolti o conservati in
virtù del principio che possono sempre servire”(Floch, 1995, p.221).
Filtrando tale concetto in ambito semiotico,
“il bricolage è stato avvicinato alla cosiddetta prassi enunciativa intesa come
movimento di convocazione nel discorso delle forme culturali depositate, o blocchi
previncolati, come li defnisce Lévi-Strauss: «la prassi enunciativa è quindi il soggetto
alle prese con la storia: è l’attività del soggetto enunciante che, con rapidità o lentezza,
riprende o genera forme tipo»” (Floch, cit. in Pozzato 2001, p. 257-258).
Si cita in questo caso il concetto di prassi enunciativa per indicare il movimento di
convocazione nel nuovo testo di fgure/forme culturali sedimentate in modo tale da
ricontestualizzarle e dotarle di una nuova identità; se ne sovverte il conformismo, il
bagaglio di signifcati sclerotizzati e identifcabili ormai per inerzia e la stereotipia
d’origine, per reinventare nuove forme culturali, attraverso l’arte combinatoria, l’energia
semantica e l’effcacia narrativa messa a disposizione dai testi.
Per meglio render conto del concetto di bricolage si potrebbe prendere a prestito il
principio di Lavoisier che è tra le leggi fondamentali della fsica e della chimica e per cui
"nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma", a palesare la peculiarità del bricolage
come forma virtuosa di riciclaggio attraverso cui si “fa del nuovo con del vecchio”.
Dunque il bricolage è inteso come “sintesi dell’eterogeneo” (Floch 1995, p. 59), una sorta di
dialettica tra passato e innovazione, contingenza e necessità, e si ottiene bricolando
appunto vecchi frammenti a partire da un deposito di segni pre-esistenti in un vecchio
bagaglio di senso per riordinarli in segni nuovi che si caricano di nuovi e più recenti effetti
di senso, asservendoli così alla missione del nuovo testo/campagna pubblicitaria.
Come mette in luce Pozzato (2001, p. 258),
“nell’ambito della pubblicità e del consumo il concetto di bricolage diventa
particolarmente importante perché, secondo Floch, le «identità» (di prodotto, di marca)
si formerebbero appunto «bricolando» forme preesistenti e facendo scaturire il valore
(semantico, assiologico) dei singoli elementi dal confronto-contrasto con altre identità.
In altri termini, la costruzione di una identità è un’operazione cognitiva e
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metasemiotica. Uno degli esempi più chiari di questo meccanismo è l’analisi dei logo di
IBM e Apple in cui Floch afferma che i due logo non possiedono un senso pieno l’uno
indipendentemente dall’altro, ma che le loro rispettive caratteristiche plastiche
acquisiscono signifcato proprio contrapponendosi tra loro. […] Le identità visive non
si formano dal nulla ma dal confronto e dalla giustapposizione di elementi preesistenti.
Di qui, il fascino delle analisi di Floch che come un detective si mette alla ricerca di
questi tesori etnologici sepolti sotto le più (apparentemente) insignifcanti forme
grafche”.
Attraverso tale descrizione emerge come Floch enfatizzi notevolmente il concetto echiano
di enciclopedia: nulla viene dal nulla e ogni forma attuale altro non è che il risultato di
elementi preesistenti prelevati dall’immenso bacino delle forme culturali.
Tutto ciò può essere utilmente trasposto al campo di ricerca del semiotico il quale si fa esso
stesso bricoleur, andando avanti per tentativi, “attraverso accostamenti tra problematiche
semiotiche, antropologiche e flosofche dell’identità” (Floch 1995, p. 28), cercando
elementi per costruire il suo oggetto di studio in modo esaustivo e coerente, essendo
“capace di non escludere alcuna delle caratteristiche di quella che è un’opzione di sguardo
sul mondo prima che una modalità di processo cognitivo” (Ceriani, introduzione
all’edizione italiana, Floch 1995, p. 13).
Per iniziare il nostro studio dobbiamo tentare lo stesso approccio del bricoleur, partendo
dall’analisi estetica dei modelli di Fiat 500 che hanno succeduto la vettura del ’57 e
proseguendo con l’osservazione delle campagne pubblicitarie le quali hanno
accompagnato il lancio sul mercato delle automobili nel 1992 e nel 2007.
0.2.2. Lo schema narrativo canonico
Tale ricerca usufruirà di strumenti di semiotica generativa che andremo ad illustrare ed a
spiegare per rendere più agevole la comprensione delle analisi che effettueremo. La
costruzione narrativa parte dall’ipotesi secondo la quale esisterebbero delle forme
universali di organizzazione narrativa, in grado di spiegare la struttura del racconto a un
livello più alto rispetto al racconto vero e proprio individuando categorie e relazioni
logiche profonde che poi si attualizzano nel testo. Vedremo come le identità fondamentali
della narrazione entrano in gioco nel processo del racconto (nel suo senso più generico del
termine). Greimas cerca di individuare uno schema narrativo canonico nell’interazione
delle tre prove, qualifcante, decisiva e glorifcante. La loro successione si articolerebbe in
tre episodi fondamentali che tutti i racconti ripetono: la qualifcazione del soggetto
manifestata da forme come riti di iniziazione e di passaggio; la realizzazione del soggetto
attraverso i propri atti e infne il riconoscimento ovvero lo sguardo altrui che giudica e
ricompensa questi atti. Ad un livello gerarchicamente superiore le tre prove sono
inquadrate ad una struttura contrattuale, tra il soggetto e il destinante che articola la
competenza modale del primo e sanziona il suo operato. Lo schema canonico poi consente
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così di individuare quattro segmenti costituiti dal percorso del Soggetto in quanto
competente e performante e del Destinante in quanto manipolatore e giudice. Lo schema
canonico narrativo è così una confgurazione a quattro tappe: Manipolazione,
Competenza, Performanza e Sanzione. Queste fasi rappresentano delle modalità narrative
ovvero enunciati che trasformano, modifcano, rendono necessari, eventuali altri enunciati.
Questi ultimi possono essere di due tipi, gli enunciati di stato che esprimono un “essere” e
gli enunciati del fare che esprimono un “ fare “, ai principali se ne aggiungono altri quattro
che sono i valori modali del volere, dovere, potere e sapere. Le relazioni che si svolgono tra
questi enunciati sono le modalità che ritroviamo nelle quattro tappe che caratterizzano lo
schema narrativo canonico:
a) Il “fare” che modalizza l’ “essere”: “far essere”. E’ l’atto della performanaza.
b) L’ “essere” che modalizza il “fare”: “ciò che fa essere”. E’ la competenza.
c) L’ “essere” che modalizza l’ ”essere”. E’ la sanzione.
d) Il “fare” che modalizza il “fare”. Sono le modalità fattive della manipolazione.
In questa rete il percorso narrativo del soggetto è composto prima di tutto come un atto
performante ovvero un “far essere” che rappresenta anche un poter e saper fare, in quanto
realizza le intenzioni all’interno del racconto del soggetto che prima però ha “dovuto” e
“voluto” acquisire la competenza. L’atto del Soggetto non è altro che la combinatoria della
competenza e della performanza, che producono globalmente un atto pragmatico, quindi
un fatto. Il ruolo del destinante che come vedremo nello schema si trova all’inizio e alla
fne dello svolgimento, è dotato di un fare invece cognitivo, in quanto nella manipolazione
cerca di provocare il fare del soggetto mentre nella sanzione esercita una operazione
cognitiva che si applica come un sapere sugli oggetti e sui fare realizzati. Il rapporto del
destinante con il soggetto è contraddistinto, quindi, da una performanza cognitiva nella
manipolazione (un “far essere”) e da una competenza cognitiva nella sanzione
deliberando sulla performanza pragmatica del soggetto. Le quattro strutture modali
assumono così la seguente rappresentazione:
MANIPOLAZIONE SANZIONE COMPETENZA PERFORMANZA
“far fare” “far essere”
“essere del essere” “essere del fare”
L’atto è così inquadrato da una struttura contrattuale, lo svolgimento del racconto è la
storia del successo o del fallimento del contratto tra il destinante e il soggetto ed il primo
sarà il depositario di quei valori che il secondo tenterà di iscrivere nel programma di
azione. Il percorso narrativo non deve essere considerato come dominato da una verità
stabilita dalla fgura del destinante, si costruirà attraverso una serie di mosse e
contromosse da parte dei soggetti di cui uno esercita un fare persuasivo e l’altro un fare
interpretativo, il destinante diventa così un soggetto dotato di competenza variabile.
Importante come sottolineava anche Greimas che la comunicazione in questa prospettiva
non è una semplice trasmissione di informazioni tra due soggetti ma è un vero e proprio
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