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Introduzione
Il presente lavoro di tesi ha come oggetto di studio la recente disciplina di riordino della
dirigenza pubblica attuata per il tramite del decreto n. 328 del 2016. Il decreto si inserisce nel
processo di riforma della Pubblica Amministrazione avviato dal Governo Renzi nel 2014 e
conclusosi il 7 Agosto del 2015 con l’approvazione della Legge n. 124/2015 recante “deleghe
al governo in materia di riordino delle amministrazioni pubbliche” che prende il nome del
ministro per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione, Maria Anna Madia.
La legge n. 124 del 2015 - composta da ben 23 articoli - predispone una riforma complessiva
dell’amministrazione pubblica che muove verso tre principali direttrici: semplificazione di
prassi e procedure, trasparenza di accesso e partecipazione e soprattutto, riordino inteso quale
razionalizzazione delle istituzioni e della disciplina che regola il personale pubblico.
L’articolo 11 della legge predispone, in particolare, i criteri e i principi direttivi per dare
attuazione alla nuova disciplina della dirigenza confluita nel decreto attuativo n. 328/2016
tramite cui il legislatore promuove un nuovo modello di dirigenza volto a delineare un sistema
finalmente capace di apportare un miglioramento qualitativo e quantitativo al nostro public
administration system.
Quello della dirigenza è, peraltro, uno tra i temi più discussi a partire dalle riforme degli anni
‘90 con cui si tentò di superare le storture prodotte dal sistema a partire dal 1972, anno in cui
la dirigenza fu istituita, scorporandola dal restante personale direttivo. Il modello di
amministrazione delineato da Cavour nel 1853; gerarchico e accentrato, concentra tutto il
potere in capo all’organo di vertice politico in ottemperanza all’articolo 95 della Costituzione
che prescrive la piena responsabilità dei Ministri per gli atti compiuti di fronte al Parlamento.
In un sistema così configurato, si venne a creare quello che Sabino Cassese definisce un
“equilibrio di scambio” tra politica e amministrazione; per cui la dirigenza rinuncia al proprio
potere in favore dell’organo di governo, ottenendo in cambio maggiore stabilità lavorativa.
Il sistema così prefigurato, sia per l’eccessiva stabilità dei dirigenti, sia per un meccanismo di
progressione di carriera sostanzialmente legato agli scatti automatici di anzianità; non ha
portato a risultati soddisfacenti. Quel mondo che Cassese definisce “cristallizzato” andava
cambiato, anche perché la grave crisi economica del Paese e la maggiore complessità sociale
richiedevano una dirigenza meglio preparata e capace. Negli anni ‘90 comincia così, il
processo di “privatizzazione” del pubblico impiego che comporta un progressivo
avvicinamento del sistema pubblico a meccanismi di funzionamento propri delle modello
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aziendalistico- privato. Il legislatore italiano, spinto dalle riforme di Paesi quali Gran
Bretagna e Stati Uniti che guardavano al paradigma del New Public Management, decise così,
di apportare alcuni importanti cambiamenti nell’amministrazione dirigente.
Il modello si snoda lungo due principali direttive: la managerialità, che implica una
distinzione funzionale tra politica e amministrazione per cui al dirigente spettano tutte le
prerogative gestionali mentre all’organo politico rimane l’attività di programmazione e
indirizzo; e la contrattualizzazione, che accompagna il regime di conferimento degli incarichi
a termine cui si aggiunge un nuovo sistema di valutazione e una parte di retribuzione
accessoria legata al risultato. È così che si comincia a impostare il passaggio da una cultura
amministrativa burocratica, improntata al rispetto formale della norma, a una cultura
telocratica, da telos che significa fine, per cui, pur nel rispetto della legalità dell’azione
amministrativa, si comincia a tenere di conto degli obiettivi raggiunti. Purtroppo, come
vedremo nel primo capitolo, il modello privatistico non ha propriamente sanato le inefficienza
del sistema e questo per una pluralità di ragioni, tra cui la mancata implementazione delle
norme, l’assenza di meccanismi atti a compensare la natura sui generis del manager pubblico;
misure eccessivamente stringenti o, viceversa, troppo blande, e ancora, un modello pubblico
eccessivamente decentrato e, non ultimo, la mancanza di risorse economiche e il blocco della
contrattazione collettiva.
Dopo aver analizzato il contesto generale dell’amministrazione pubblica e ripercorso le
principali tappe evolutive della dirigenza, nel primo capitolo si entra nel vivo della riforma
Madia e dell’articolo 11. La scelta compiuta dal legislatore è chiara; occorre creare un nuovo
modello “ibrido” di dirigenza che contemperi da un lato l’efficienza del libero mercato, onde
riprodurre un meccanismo di incontro tra domanda e offerta simile a quello del mercato
privato, e dall’altro è necessario introdurre adeguati correttivi a garanzia di un sistema, quale
quello pubblico, che per sua natura, non può e non deve essere privato di tutele a garanzia dei
lavoratori pubblici.
Una volta chiarite le intenzioni del legislatore, il presente lavoro di tesi cerca di capire se il
decreto, così come configurato, per il tramite degli strumenti e dei correttivi predisposti, è
capace di realizzare il modello “ibrido” di dirigenza promosso dal governo. Inoltre, una volta
appurata “la bontà” del decreto, per così dire “su carta”, resta da capire quanto questo, una
volta calato nella realtà, abbia modo di funzionare effettivamente.
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Per rispondere alla prima domanda, il secondo capitolo entra nel vivo del decreto e propone
un’analisi approfondita della ratio che sottende gli strumenti promossi dal legislatore e i
correttivi a garanzia del bilanciamento del sistema. Per fare questo, oltre allo studio dei
singoli articoli mi sono avvalsa dei documenti (dossier e note di lettura) che corredano il
decreto, oltreché delle argomentazioni sostenute da esperti e cultori della materia.
Dall’analisi emerge una duplice dimensione concettuale; l’unitarietà, onde superare una
visione tipicamente aziendalistica, e dunque decentrata, del settore pubblico propria del NPM;
e la mobilità volta a favorire un sistema flessibile di rotazione degli incarichi tale da
consentire “al dirigente giusto, di trovarsi nel posto giusto al momento giusto”. Per
sistematicità di trattazione, il capitolo 2 affronta in paragrafi separati gli aspetti centrali del
decreto: il ruolo unico, la formazione e l’accesso, la disciplina del conferimento degli
incarichi, il sistema di valutazione e ancora; la fattispecie che regola il conferimento di
incarichi agli esterni, i dirigenti rimasti privi di incarico e infine, la disciplina sui dirigenti
apicali negli Enti locali e la sorte in capo ai Segretari comunali e provinciali.
Nonostante la trattazione sia separata per paragrafi; l’intento del legislatore è organico in
quanto gli strumenti predisposti sono necessari, ma da soli insufficienti a realizzare i
presupposti del governo. Il ruolo unico è forse una tra le novità più importanti adottate dal
legislatore; lo strumento, già introdotto nel ’98 ma mai di fatto attuato, creerà un meccanismo
di mobilità orizzontale indispensabile in un’amministrazione, quale la nostra, caratterizzata da
eccessiva stabilità e per essa tendenzialmente autoreferenziale. La rottura degli “steccati” che
separano i dirigenti in base alle amministrazioni di appartenenza pone in essere un
meccanismo di incontro domanda/offerta simile a quello che si verifica nel libero mercato.
L’efficienza del sistema si accompagna, tuttavia, ad alcuni correttivi importanti a tutela delle
prerogative di neutralità e di buon andamento delle amministrazione pubbliche. Per fare ciò il
legislatore introduce tre misure principali: la concorsualizzazione delle procedure di
interpello, realizzata per il tramite della creazione di una banca dati delle competenze; il
regime di durata a termine degli incarichi fissato per tutti i dirigenti a quattro anni, con la sola
possibilità di proroga per due anni e in caso di valutazione positiva, così da obbligare il
dirigente a doversi riaffacciare sul mercato del lavoro a intervalli regolari; e infine, il sistema
della Commissioni della dirigenza in funzione di filtro a garanzia della correttezza delle scelte
compiute dall’amministrazione e dall’organo politico.
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Se fino ad ora il legislatore ha optato per una discrezionalità tout court dell’organo nominante,
con possibile precarizzazione della dirigenza, o al contrario è stato troppo premuroso nel
limitarne la scelta; il sistema così configurato, anche per il tramite della soppressione delle
fasce, mantiene ampia discrezionalità di scelta in capo all’organo politico o amministrativo di
vertice ma all’interno di un sistema meritocratico corredato da adeguati strumenti a garanzia
della correttezza delle scelte compiute. Il mercato, inoltre, si prefigura essenzialmente come
un internal labour market dati i limiti percentuali e gli specifici requisiti richiesti ai soggetti
esterni alle pubbliche amministrazioni.
Inoltre, poiché non avrebbe senso predisporre un sistema così dinamico e flessibile senza
pensare a un più adeguato modello culturale; il legislatore compie un decisivo passo in avanti
in favore del corso-concorso bandito dalla Sna (Scuola Nazionale dell’Amministrazione) che
sinora ha funzionato in maniera subalterna rispetto al concorso pubblico. L’obiettivo è quello
di predisporre il corso-concorso quale prioritario canale di accesso alla dirigenza.
Ringiovanimento, managerialità e meritocrazia sono le parole che accompagnano il corso-
concorso così da superare la figura del “burocrate costante”, oggi prevalente, in favore del
c.d. “high flyer” ovvero, del giovane brillante, neolaureato che tramite il corso-concorso avrà
la possibilità di giungere celermente in posizione di vertice, non prima, però, di un adeguato
periodo di formazione on job. Il sistema permette così, di adeguare la progressione di carriera,
tipicamente ancorata agli anni di anzianità, ad un avanzamento di merito più simile a quello
che nella letteratura in materia si definisce un modello “posional based”.
Anche in questo caso il legislatore sceglie la strada della transizione e delle misure correttive;
in particolare, oltre alla procedura di fast track, che comporta un periodo di praticantato del
vincitore di corso concorso prima di poter essere iscritto in ruolo; si prevede una iniziale
riserva di posti, pari al 25% degli appartenenti alle p.a. per accedere al corso-concorso. In
ordine ai dirigenti di seconda fascia, inoltre, è prevista una percentuale pari al 30%, degli
incarichi dirigenziali generali a questi riservati. L’ultima parte, infine, dedicata alla
formazione, propone un interessante confronto tra la Sna che verrà trasformata in agenzia, e i
modelli di reclutamento dei dirigenti in Francia e Inghilterra. A questo proposito, se la Scuola
italiana può essere paragonata alla Ecole National d’Administration francese in quanto unico
(o comunque prioritario) canale di reclutamento, la formazione post universitaria prevista per
l’accesso al corso-concorso, la preparazione finanziariamente a carico dello studente e, non
ultimo, la procedura di stage prima del reclutamento prefigurano una certa somiglianza del
nostro sistema più al modello inglese che non a quello francese.
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Continuando l’analisi del decreto, il legislatore regola con grande attenzione la disciplina di
coloro rimasti privi d’incarico. Il legislatore sceglie una strada decisa; togliere il diritto
all’incarico. Allo scadere dei quattro anni (sei, in caso di proroga) il dirigente, anche se
giudicato positivamente, potrebbe non vedersi riconfermato l’incarico, senza che per questo
l’amministrazione debba provvederne al ricollocamento. La scelta, più vicina al modello che
regola il funzionamento del mercato privato, è contemperata da alcune misure incentivanti per
stimolare il lavoratore a cercare un nuovo incarico. Intanto lo si obbliga a partecipare ad
almeno cinque procedure di interpello l’anno, e non ultimo, il dirigente, privato della parte
accessoria della retribuzione, sarà incentivato da sé ad un celere ricollocamento. Decorso un
anno senza incarico spetterà poi all’amministrazione provvedere al conferimento di un nuovo
incarico a tutela del lavoratore pubblico e solo in caso di rifiuto del dirigente si aprirà l’ipotesi
di licenziamento.
L’ultima fattispecie, infine, regola la disciplina dei Segretari comunali e provinciali. Lungi dal
voler “stroncare” una categoria, il legislatore sceglie di “traghettare” i Segretari entro il ruolo
della dirigenza degli Enti locali; una scelta coerente rispetto al ruolo unico che mal si
concilierebbe con il mantenimento di una fattispecie interna, quale quella dei Segretari,
regolati da uno specifico albo in capo al Ministero dell’Interno. Il legislatore, inoltre, come
avremo modo di vedere, sceglie una normativa transitoria così da permettere ai Segretari un
canale di accesso preferenziale in qualità di dirigenti apicali presso gli Enti locali. Questi
ultimi, peraltro, dovranno essere nominati obbligatoriamente (e svolgeranno funzioni simili a
quelle attualmente in capo ai Segretari) eccetto nel caso in cui, i grandi Comuni o le Città
metropolitane scelgano di nominare, in alternativa, un direttore generale.
Chiarito l’impianto complessivo del decreto, il terzo capitolo si occupa di affrontare le
osservazioni e le criticità riscontrate. Nel primo paragrafo si fa riferimento alle associazioni di
categoria, nel secondo al parere del Consiglio di Stato e della Conferenza Unificata, infine,
alla sintesi promossa dalle Commissioni parlamentari. Il peso dei pareri è avvalorato
dall’attuale stato di cose per cui il decreto, ritirato a seguito della bocciatura da parte della
sentenza della Corte Costituzionale (Capitolo 5), ha aperto la strada all’ipotesi di un decreto-
bis che dunque potrà permettere la ricerca di un miglior accordo tra parti. Inoltre, alcune
considerazioni, soprattutto quelle avanzate dal Consiglio di Stato, pongono in luce importanti
riflessioni in merito alla effettiva riuscita del provvedimento. Come anticipato, infatti, non è
detto che un decreto “buono su carta” e mosso dai migliori presupposti normativi sia poi
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capace di funzionare una volta calato nella realtà; e questo per un duplice ordine di
considerazioni.
In primis, l’atteggiamento ostativo dei diretti interessati, per cui da una parte è persino
auspicabile un nuovo momento di incontro e dialogo quale quello promosso dal ritiro del
decreto a seguito della sentenza costituzionale n. 251/2016. Il secondo punto, invece, attiene
alle mancanze “fattive” dello strumento predisposto. In particolare si evidenziano due carenze
principali che dovranno, e potranno, essere sanate. La prima, avanzata dal Consiglio di Stato
invita il governo a predisporre un adeguato piano di investimento finanziario, indispensabile
per attuare un progetto di così vasta portata. La seconda, evidenziata dal Consiglio, ma non
solo, invita il governo a rivedere il funzionamento delle Commissioni, in particolare si
suggerisce la possibilità di affiancare alle Commissioni, delle Sotto-Commissioni, le quali
dovranno essere composte da personale stipendiato e operante a tempo pieno in quanto è
impensabile che un così gran numero di funzioni, quali quelle affidate alle Commissioni,
possano essere svolte a titolo gratuito e tantomeno nei ritagli di tempo.
Il penultimo capitolo, infine, si occupa di chiarire il rapporto tra dirigenti e mass media. I
media sono centrali nella formazione dell’opinione pubblica e, dunque, è importante capire
come questi abbiano affrontato la vicenda sui dirigenti. Prima di entrare nel vivo del decreto
ho svolto una riflessione sulle modalità con cui i media parlano, in generale, dei dirigenti;
l’atteggiamento prevalente è quello tipico del giornalismo “watchdog”, cioè del giornalismo
che fa da cane da guarda del sistema politico denunciando abusi, scandali e malaffari del
potere. Per quanto questo tipo di giornalismo aiuti il cittadino a conoscere ciò che non va nel
sistema, sarebbe auspicabile accompagnare alla narrazione scadente, anche una lettura più
positiva della categoria. Questo, ad esempio, come suggerito da Cassese, potrebbe realizzarsi
per il tramite del ripristino di atti e riti formali, ripresi e poi trasmessi dalla televisione così da
unire la visibilità ad una maggiore etica di responsabilità.
L’ultima parte del capitolo si concentra, infine, sulla riforma. Dalla trattazione mediatica della
vicenda emerge una posizione tripolare: da una parte i detrattori che, soprattutto tramite
Internet, interpretano il decreto come il tentativo del governo di politicizzare, e dunque
precarizzare la dirigenza. Dall’altra, invece, i più entusiasti sostenitori, su tutti, si vedano gli
articoli di Sergio Rizzo e Angelo Panebianco pubblicati dal Corriere della Sera che
considerano l’intervento del governo necessario per limitare il potere di una dirigenza forte,
“vero sovrano” che si arricchisce all’ombra della politica su cui ricadono le colpe della mala
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gestio amministrativa. Nel mezzo, invece, la posizione più neutrale di chi, in aderenza
all’impostazione di tesi, sostiene da una parte la correttezza di alcuni strumenti normativi
previsti ma dall’altra auspica il ripensamento di alcuni elementi di implementazione atti ad
evitare quello che Sismondi definisce “il miraggio del legislatore italiano” che pensa per il
solo tramite della norma, di poter apportare un cambiamento effettivo nel sistema.
Capitolo 1: La pubblica amministrazione e dirigenti pubblici
1.1 Il sistema pubblico e la “questione amministrativa”
“L’efficacia dei sistemi politici dipende in misura considerevole dall’efficacia delle istituzioni
amministrative”,
1
con questa definizione March e Olsen introducono l’argomento oggetto di
studio riferendosi ai numerosi tentativi di revisione complessiva delle strutture e delle pratiche
amministrative messi in atto da governi di ogni colore politico, in una vasta gamma di
circostanze.
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Nello scenario odierno, caratterizzato da un processo di profonda trasformazione
dei sistemi economici e sociali e dalla crescita pervasiva delle ICT,
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ad essere messa alla
prova è la capacità del sistema politico-amministrativo di saper mostrare una nuova identità
professionale adeguata alle rinnovate esigenze organizzative e ambientali.
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L’organizzazione
pubblica italiana, nonostante le riforme degli anni ‘90, è attraversata da crescenti tensioni. Da
più parti; cittadini, famiglie e imprese rivendicano una maggiore attenzione alla qualità dei
servizi e alle rinnovate esigenze della collettività”.
5
La pubblica amministrazione richiede urgenti e radicali interventi di riforma, si dice,
dovrebbe costare meno e offrire servizi migliori e più rapidi. “Il tema è in realtà antico quanto
l’Italia unita: A pochi anni dall’unificazione, già vigorosa era la «polemica antiburocratica» e
diffusa ovunque era l’ostilità contro le strutture amministrative del nuovo Stato unitario. Un
1
Cfr. J.C. March, J.P. Olsen, Riscoprire le istituzioni. Le basi organizzative della politica, il Mulino,
Bologna, 2000, pp. 111.
2
Cocozza A., 2014, “La riforma delle pubbliche amministrazioni: quale ruolo per la dirigenza?”,
amministrazione in cammino, 9 Maggio,
http://www.amministrazioneincammino.luiss.it/2014/05/09/la-riforma-delle-pubbliche-
amministrazioni-quale-ruolo-per-la-dirigenza/, visitato in data 8 Aprile 2017.
3
ICT (Information and Communication Technologies) Tecnologie riguardanti i sistemi integrati di
telecomunicazione (linee di comunicazione cablate e senza fili), i computer, le tecnologie audio-video
e relativi software, che permettono agli utenti di creare, immagazzinare e scambiare informazioni. In
“Enciclopedia Treccani”, Dizionario di Economia e Finanza. 2012. Visitato in data 8 Aprile 2017.
4
N. Carboni, “Politiche e sistemi di sviluppo della dirigenza pubblica nelle democrazie occidentali”,
Amministrare, n. 3, 2010. pag. 464.
5
A. Cocozza. Ivi.