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CAPITOLO 1
I sistemi elettorali italiani
L’esigenza di dotarsi di un sistema elettorale sostanzialmente proporzionale si
manifestò all’indomani del secondo conflitto mondiale, anche per l’elezione della stessa
assemblea costituente. Tale decisione ovviamente era frutto del particolare momento
storico e delle caratteristiche del sistema partitico italiano, e rifletteva l’esigenza di
garantire un ruolo certo a tutti gli attori politici, sia nella fase costituente sia nella fase
dell’attuazione concreta dei principi costituzionali.
Già con il quarto governo De Gasperi, però, si chiuse l’unità resistenziale e sul
finire del 1947 iniziò la rigida contrapposizione tra Pci e Dc, tra comunismo e
anticomunismo, mentre sullo sfondo prendeva forma la guerra fredda. La situazione
politica era fortemente polarizzata attorno ai due grandi partiti di massa: il Partito
comunista (il più grande Partito comunista del mondo occidentale), per molti versi
legato all’URSS, e la Democrazia cristiana, un grande partito di stampo confessionale
legato per tanti aspetti alle gerarchie della Chiesa; il tutto in un quadro politico
frammentato, con un elevato numero di partiti.
In una situazione di così forti tensioni politiche v’era il problema di assicurare la
coesistenza pacifica delle varie forze. Anche per questi motivi si adottò una legge
elettorale proporzionale che funzionò come un sedativo della lotta politica,
riconoscendo a tutte le forze in campo una rappresentanza parlamentare, evitando le
drammatiche spaccature d’uno scontro frontale che sarebbero potute derivare
dall’introduzione di un sistema maggioritario.
L’elettore aveva la possibilità di votare per un partito e di esprimere la
preferenza per un numero variabile di candidati (secondo l’estensione della
circoscrizione) facenti parte della lista prescelta. Le circoscrizioni erano abbastanza
grandi: infatti, se i 32 collegi plurinominali mediamente eleggevano circa una ventina di
deputati, vi erano poi le circoscrizioni delle grandi città, come Roma e Milano, che
arrivavano ad eleggere circa cinquanta deputati. Nell'ambito di ciascun collegio i seggi
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erano attribuiti mediante la determinazione di un quoziente elettorale, calcolato
dividendo la somma dei voti validi espressi per il numero dei seggi assegnati al collegio,
corretto con "più uno" o con "più due", a seconda che i seggi superassero o no il numero
di 20. La legge prevedeva anche delle soglie di sbarramento; infatti, in ciascuna
circoscrizione i seggi erano assegnati a quei partiti che avessero ottenuto un quoziente
pieno in almeno una circoscrizione e raccolto su scala nazionale almeno 300.000 voti.
Questa doppia soglia non era di certo molto elevata e tuttavia nel tempo riuscì a tener
fuori dal Parlamento vari soggetti: nel 1972 il Partito socialista di unità proletaria
(Psiup) ottenne 648 mila voti, ma non riuscì ad eleggere direttamente nessun deputato e
così fu escluso dalle camere; sempre nel 1972 non raggiunsero la soglia dei 300.000
voti il Manifesto e il Movimento Politico dei Lavoratori.
Inoltre, circa un decimo dei seggi venivano attribuiti con il cosiddetto recupero
dei resti nel Collegio Unico Nazionale, dove i seggi non attribuiti nei vari collegi erano
assegnati sulla base dei voti residui non utilizzati per l’elezione dei deputati di ciascuna
lista, mediante il quoziente naturale ottenuto dividendo il numero dei voti residui di
tutte le liste per il numero dei seggi ancora da attribuire. Quanto alle preferenze espresse
dagli elettori, esse servivano a stabilire l’ordine d’elezione dei candidati di ciascuna lista
di partito.
La scena politica configurata con tale sistema elettorale vedeva la DC svolgere il
ruolo di dominus della politica nazionale, in una democrazia bloccata, vale a dire una
democrazia senza alternanza al potere: il Pci e il Msi erano esclusi a priori dalla
possibilità di entrare nel governo. Contro di loro per diversi motivi vigeva la cosiddetta
“conventio ad escludendum”. I primi governi vennero sostenuti da una maggioranza
quadripartitica composta da DC, PLI, PRI e PSDI. L’esperienza del quadripartito
centrista guidato da De Gasperi soffrì il mutamento degli assetti internazionali, e agli
inizi degli anni cinquanta la Democrazia Cristiana cominciò a perdere voti. Per cercare
di stabilizzare la coalizione di governo, prima delle elezioni del 1953 la maggioranza
centrista cercò una soluzione nella riforma elettorale. Si introdusse così un sistema che
attribuiva il 65% dei seggi (un premio di maggioranza pari a circa 2/3 dei seggi) al
partito o alla coalizione di liste (che avessero dichiarato preventivamente il loro
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apparentamento) che avesse ottenuto la maggioranza assoluta dei voti. In tale maniera,
qualora la coalizione di centro avesse ottenuto il premio di maggioranza, la DC si
sarebbe assicurata la maggioranza assoluta. La riforma causò forti contestazioni da più
parti, ed in primo luogo ovviamente dalle sinistre, le quali, memori della legge Acerbo
del periodo fascista, non tardarono a bollare la nuova legge elettorale come “Legge
Truffa”. Importanti personalità politiche si schierarono contro la legge elettorale; fra
queste Gaetano Salvemini, il quale commentò la riforma di De Gasperi dicendo: “un
partito che è al governo non può, alla vigilia di ogni elezione […] proporre una nuova
legge elettorale che gli assicuri una maggioranza di mandati che altrimenti gli
scapperebbero dalle mani. Se così facesse, non offrirebbe una nuova regola al gioco, ma
vorrebbe barare al gioco”.
Alle elezioni del 1953, però, l’operazione fallì. L’alleanza guidata da De
Gasperi, aspramente accusata dagli avversari di voler conservare il potere in modo
antidemocratico, non raggiunse la maggioranza assoluta per soli 57 mila voti, sufficienti
a non far scattare il premio. La “Legge Truffa” fu in seguito abrogata. Dopo di allora fu
difficile proporre riforme della legge elettorale.
Il sistema elettorale era, ad ogni modo, lontano dalla perfezione; infatti, il ruolo
dell’elettore si limitava alla definizione del peso elettorale dei vari partiti in lizza e non
influiva affatto sulla scelta né dei governi né del presidente del consiglio. La vita
politica subiva quindi lo strapotere delle segreterie dei partiti. Neppure il voto di
preferenza, che avrebbe dovuto essere uno strumento per consentire agli elettori di
scegliere liberamente il candidato preferito all’interno di ciascuna lista, riuscì a
riequilibrare la situazione, fu anzi foriero di più gravi problemi. Primo fra tutti il voto di
scambio. L’elettore dava la sua preferenza al candidato non per scelta politica ma in
cambio di qualcosa: una promessa di lavoro, di una pensione, di qualche concessione o
di privilegi vari. Inoltre, se è vero che il voto di preferenza tende a stimolare la
competizione fra i candidati anche di una stessa lista, il problema che si verificò in Italia
fu l’opposto: l’intesa fra candidato e candidato con il sistema che venne definito
“cordata”. Con tale metodo i candidati che disponevano di voti di preferenza
controllabili e manovrabili si mettevano d’accordo fra loro per far convergere
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vicendevolmente tali voti. I due fenomeni si alimentavano a vicenda ed insieme
provvidero a corrompere il sistema. Ben presto, quindi, il voto di preferenza multiplo fu
posto sotto il bersaglio delle critiche, ma passò molto tempo prima che si riuscisse a
modificarlo. Infatti, se da un lato le preferenze finivano per rappresentare un vulnus nel
sistema, dall’altro le liste bloccate causavano altrettanti timori per l’assolutizzarsi dei
poteri decisionali degli apparati di partito. Un cambiamento arrivò solo nel 1991, con un
referendum abrogativo. Il 9 giugno 1991 gli italiani furono chiamati a decidere se
ridurre o no il sistema delle preferenze nelle liste portandole da tre ad una sola:
andarono a votare circa 29 milioni di persone, pari al 62,5% degli aventi diritto, e di
questi si espresse per la riduzione più del 95%.
Il proporzionalismo di quella che venne successivamente chiamata “Prima
Repubblica” non produsse mai alternanza di governo, ma la colpa non fu del sistema
elettorale, o quantomeno non solo, poiché un ruolo decisivo fu svolto anche dalla
connotazione del PCI come partito antisistema, che quindi non partecipava al possibile
ricambio delle coalizioni. Quanto alla governabilità, si deve rilevare come i piccoli
partiti non creassero tanto instabilità elettorale, quanto instabilità di rimpasto.
L’instabilità democristiana era, infatti, più apparente che sostanziale: un governo veniva
rifatto senza liberali o senza repubblicani, o invece con loro, ma era una semplice
rotazione interna. Resta comunque il fatto che dalla prima fino all’undicesima
legislatura i governi della repubblica italiana mediamente ebbero una durata che di poco
sopravanzava i trecento giorni, con record di governi che non raggiunsero i dieci giorni.
Ma i primi anni novanta furono investiti dallo scandalo di quella che si definì
“Tangentopoli”, un’alluvione che distrusse una classe politica e destrutturò il sistema
dei partiti, lasciando fra i cittadini un forte sentimento di astio nei confronti oltre che dei
colpevoli anche di quegli istituti ritenuti possibili responsabili della deriva del sistema.
Fra questi ovviamente rientrò anche il sistema elettorale proporzionale, che aveva dato
varie volte adito a tali critiche.
La svolta definitiva ci fu con la consultazione referendaria del 18 aprile 1993,
nella quale gli elettori manifestarono apertamente la loro preferenza per un sistema
elettorale di stampo maggioritario; si recarono alle urne quasi 37 milioni di italiani