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Introduzione
Il 28 ottobre 1922 circa cinquantamila camicie nere entrarono
prepotentemente nella capitale per forzare il sovrano ad affidare il nuovo
governo a Mussolini. La Marcia su Roma proseguì senza incontrare resistenza
da parte delle forze dell’ordine o dell’esercito, per volere del re Vittorio
Emanuele III, il quale rifiutò di firmare il decreto di stato d’assedio per
difendere la città, spianando quindi la strada all’avvento del fascismo.
L’intervento dell’esercito e di pochi carabinieri sarebbe stato sufficiente a
fare sì che l’irruzione delle squadre fasciste potesse essere facilmente
stroncata. Ciò che mancava quindi non erano i mezzi, ma la volontà.
L’atteggiamento del sovrano, che non ordinò di intervenire, mirò ad impedire
un ulteriore bagno di sangue che avrebbe indotto il paese ad un’altra guerra
civile. Il sovrano si piegò così, di fronte alla minaccia dei fascisti, e Mussolini
venne nominato presidente del consiglio, prendendo legalmente un potere che
avrebbe mantenuto dispoticamente fino al 1943
1
.
Ma in che modo Mussolini è riuscito a garantirsi per vent’anni un vasto
consenso popolare? Può una sanguinosa dittatura mostrarsi come un
complesso Stato corporativo, nel quale il governo è paternamente vicino alla
popolazione, o come una nuova religione laica che riempie d’orgoglio
nazionalista e unitario un intero paese? Quanto e come hanno inciso i mezzi di
comunicazione di massa nella percezione che il popolo ha avuto del proprio
sistema politico? Molti sono stati gli interrogativi che mi hanno entusiasmato
nell’intraprendere questa tesi sul consenso e sulla rappresentazione del regime
fascista in Italia.
Appena giunto al potere, conscio d’averlo conquistato grazie ad una mossa
1 Sulla storia del fascismo, cfr. S. Lupo, Il fascismo: la poltica in un regime totalitario,
Roma, 2000; O. Malagodi, F. Cammarano (a cura di), Il regime liberale e l’avvento del
fascismo, Catanzaro, 2005; M. Palla, Mussolini e il fascismo, Firenze, 1993; e A. Petacco,
Storia del fascismo, Roma, 1981.
2
azzardata, Mussolini si preoccupò innanzitutto di consolidare la sua posizione:
tranquillizzò chi vedeva in lui un avventuriero, dando di sé un immagine
moderata e ragionevole, rassicurando soprattutto la borghesia. Presentò poi il
fascismo come un regime di tipo conservatore, in grado di risanare il paese
dalla piaga del trasformismo e di metterlo al riparo da sconvolgimenti
rivoluzionari. Il suo primo governo fu quindi un governo di coalizione, ma
continuò ad oscillare abilmente tra legalità ed illegalità, utilizzando
ripetutamente la violenza squadrista come arma di pressione politica.
Lo squadrismo, in realtà, fu l’essenza stessa del fascismo, e la violenza
restò sempre un elemento fondamentale della propaganda attuata da
Mussolini, nonché un ingrediente indispensabile alla conquista e al
consolidamento del suo potere. Egli creò in seguito il Gran Consiglio del
Fascismo, che avrebbe progressivamente esautorato il parlamento, e legalizzò
le squadre d’azione trasformandole in milizia personale. Per garantirsi
l’appoggio delle forze conservatrici del paese decise l’ingresso dei nazionalisti
nel partito fascista. Riformando poi la legge elettorale con la «legge Acerbo»,
assegnò i due terzi dei seggi al partito di maggioranza relativa, blindando
ulteriormente il suo potere.
Molte furono le accuse e le proteste che Mussolini dovette subire nell’aver
intrapreso tali misure, e fu proprio nei giorni immediatamente successivi
all’assassinio di Giacomo Matteotti che il fascismo vide vacillare fortemente il
consenso ottenuto affrontando una grave crisi. Nel giugno del 1924 il deputato
socialista osò infatti denunciare apertamente il clima di intimidazioni e brogli
in cui si era svolta la consultazione elettorale dell’aprile precedente.
Finalmente i partiti di opposizione reagirono in modo deciso e per protesta
lasciarono il parlamento. Per frenare il moto di rivolta contro il fascismo
Mussolini ricorse ad un ulteriore atto di forza: nel famoso discorso alla
Camera del 3 gennaio 1925, egli ammise pubblicamente la piena e totale
responsabilità politica e morale del delitto, e annunciò l’avvio della dittatura
fascista, con la creazione delle cosiddette «leggi fascistissime».
3
Questa prima fase della politica mussoliniana quindi, fu principalmente
caratterizzata da una mise en scène della violenza, atta a reprimere qualsiasi
indizio di ribellione. Fu questa campagna a costituire la prima forma di
propaganda messa in atto dal regime per assicurarsi il consenso delle masse.
Ad esse ricorse anche in altre due fasi durante il ventennio: in quella che va
dalla preparazione dell’intervento militare in Africa orientale allo scoppio
della Seconda Guerra Mondiale, e in quella della guerra stessa. Il tema della
violenza fu quindi, costantemente presente nella propaganda fascista. Un ruolo
fondamentale fu dapprima riservato al «culto dei caduti», con la
monumentalità e la sacralizzazione dei luoghi della guerra. Ma fu con
l’organizzazione della memoria dello squadrismo e della Marcia su Roma che
l’esaltazione della violenza e la sua narrazione divennero una pratica
permanente, specie nel momento in cui il sistema propagandistico fascista
risultò essere in forte crescita
2
.
Una volta consolidato il proprio potere, obiettivo di Mussolini fu quello di
far «durare» il più a lungo possibile il regime fascista e naturalmente la sua
leadership al suo interno. Per riuscire nell’intento egli capì che non poteva
certo continuare a servirsi soltanto della forza e delle minacce, perché non
sarebbe stato accettato da milioni di persone, e il consenso di un’ampia parte
della popolazione era ritenuto necessario.
Così decise di affidarsi ad un tipo di propaganda moderna, molto più
sofisticata ed imponente, in cui si potenziano i meccanismi della persuasione
per ottenere il consenso funzionale al dominio totalitario sulle masse. In che
modo? Promettendo, in situazioni storiche ed economiche estremamente
critiche, il miracolo della soluzione rapida di ogni problema, soffocando ogni
libera forma di cultura, e monopolizzando i mass media per addormentare la
coscienza critica dei cittadini.
2 Sul tema della violenza all’interno dell’ideologia fascista, cfr. E. Gentile, Il culto del
littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Roma-Bari, 2005; e P.G.
Zunino, L’ideologia del fascismo. Miti, credenze e valori nella stabilizzazione del regime,
Bologna, 1985.
4
Nella mia tesi mi sono soffermata proprio su questa seconda forma di
propaganda, definita di «integrazione» dal sociologo francese Jacques Ellul. In
particolar modo ho tentato di illustrare il procedimento attraverso cui il regime
fascista cercò di modificare un popolo nel suo insieme, di ottenere dei
comportamenti di massa e non più di raggiungere solo alcuni individui
particolarmente influenti. Mussolini era infatti perfettamente consapevole di
dipendere dall’opinione pubblica e conosceva meglio di chiunque altro come
ottenere i risultati che desiderava.
Il percorso tracciato dal mio lavoro parte quindi dalla definizione del
concetto di propaganda, inserito nel quadro storico di riferimento, e in
rapporto all’uso che il regime ne fece nel mondo della cultura e
dell’istruzione. In seguito ho tentato di analizzare come, accanto all’apparato
repressivo tipico dei regimi dittatoriali, per tutto il ventennio si vennero
sviluppando e perfezionando tecniche moderne di organizzazione,
comunicazione e informazione che assicurarono al fascismo una presa sempre
più forte sulla società fino a racchiuderla entro un sistema monolitico,
pressoché impermeabile alle influenze esterne.
Queste nuove tecniche furono particolarmente evidenti nei mezzi di
comunicazione di massa, che durante la dittatura fascista vennero potenziati e
modernizzati al massimo, in modo da garantire un vasto consenso popolare,
intorno soprattutto alla figura carismatica del duce Mussolini che ricoprì
costantemente un ruolo di primo piano, sia come artefice, sia come immagine
stessa di propaganda. La sua abilità fu quella di scoprire prima di altri il forte
potere persuasivo che i mezzi di comunicazione di massa come la radio, il
cinema e i giornali, potevano avere sulle persone. Al contempo cercò di
utilizzare la comunicazione di massa per creare una serie di manifestazioni
collettive, cosicché il popolo potesse partecipare attivamente, e possibilmente
con entusiasmo, condividendo la diffusione di quei miti, riti e simboli che
caratterizzavano l’ideologia fascista.
In questa visione della politica di massa il «mito» aveva infatti un ruolo di
5
primaria importanza, costituendo l’idea cardine della cultura fascista,
immagine e simbolo capace di suscitare nelle masse emozioni, entusiasmo,
volontà di agire e perché no, una fede collettiva
3
.
Nella mia tesi ho tentato di illustrare in particolar modo l’assidua presenza
del mito dell’«uomo nuovo», della «nuova Italia» e soprattutto del mito
venutosi a creare intorno alla personalità di Mussolini.
Attraverso l’analisi di diverse fonti ho tentato quindi di proporre un’ampia
panoramica sulle caratteristiche tecniche ed ideologiche dell’ambiziosa e
multiforme macchina propagandistica del fascismo, il cui compito era sì
quello di «fabbricare il consenso», ma anche quello di creare l’illusione che
essa ci fosse, quando ciò non era possibile. Tale panoramica ha lo scopo di far
comprendere come tutte le scelte politiche e le azioni del regime avessero una
qualche valenza retorica, usando temi e miti di sicuro effetto, nel creare un
clima generale in cui il maggior numero possibile di italiani potesse
agevolmente identificarsi e integrarsi con il fascismo. E ciò sollecitando la
fierezza per la grandezza e la gloria della propria patria e il rinnovamento di
una forte identità nazionale, avvalendosi non solo dei mass media, ma anche
dell’istruzione scolastica, delle manifestazioni di massa, della graduale
«fascistizzazione» della vita pubblica, dell’attività sportiva, della realizzazione
di monumenti e persino della fondazione di nuove città. E proprio questi sono
gli argomenti che ho preso in esame nel mio lavoro.
3 Sulla questione del simbolismo politico, cfr. D.I. Kertzer, Riti e simboli del potere, Roma-
Bari, 1989.
1
CAPITOLO 1.
Propaganda, istruzione e cultura: i primi passi nella
“fabbrica del consenso”
1
.
1.1 Il concetto di propaganda e la sua accezione nella
politica fascista.
Esistono numerose definizioni di propaganda date da studiosi di diversa
formazione ideologica e culturale, e risalenti per lo più al XX secolo, periodo
in cui questa attività ebbe un enorme sviluppo grazie all’insorgere di
determinati fattori politici e sociali, quali per esempio il forte aumento della
concentrazione della popolazione nelle città e la comparsa di efficaci mezzi di
comunicazione.
Ma che cos’è la propaganda? Il sociologo francese Jacques Ellul nel
tentativo di darne una giusta definizione ha affermato:
La prima difficoltà che si incontra quando si parla di propaganda è il
doverne dare una definizione. Questa difficoltà diventa ancora più grande
quando si tenta di tracciarne la storia, in quanto non è neppure possibile
servirsi a tal fine della definizione ottenuta attraverso l’osservazione della
propaganda quale oggi si presenta. La propaganda attuale, infatti, ha
caratteristiche che non trovano riscontro nel passato: o si è quindi
obbligati a scegliere una definizione molto vaga, che non corrisponde
appieno alla realtà contemporanea, oppure, se si parte da questa, si è
costretti a concludere che, a rigore, non c’è mai stata propaganda nel
passato
2
.
La propaganda può essere definita una forma di comunicazione volta ad
influenzare l’opinione pubblica e ad “imprimere negli individui valori,
credenze e codici di comportamento atti a integrarli nelle strutture istituzionali
della società di cui fanno parte”
3
.
1 Termine coniato dallo psicologo Edward Bernays, nipote di Sigmund Freud, che agli inizi
del XX secolo, insieme al giornalista Walter Lippman, fu il primo a codificare ed
applicare in maniera scientifica le tecniche della propaganda; cit., www.wikipedia.it.
2 J. Ellul, Storia della propaganda, Napoli, 1983, p. 7.
3 P. Castagnetti, Il presente come storia, Milano, 1998, p. 32.
2
Nonostante l’attività propagandistica originariamente non avesse alcuno
scopo mistificatorio, ad essa in seguito venne associato sempre più il concetto
di persuasione e di manipolazione, nel ricercare il consenso degli incerti o dei
contrari e nel confermare l’adesione di quelli già convinti. In tal modo,
sostiene Ellul, essa mira a far partecipare attivamente o passivamente alla sua
azione una massa di individui psicologicamente unificati attraverso
manipolazioni psicologiche, ed inquadrati in un’organizzazione
4
.
Essa rappresentò anche, e rappresenta tuttora, uno degli strumenti più
efficaci di lotta e di affermazione politica, quale divenne in modo permanente,
a partire dalla Rivoluzione d’ottobre
5
, e i regimi totalitari vi fecero ampio
ricorso: il nazismo in Germania e il fascismo in Italia istituirono appositi
apparati, e persino veri e propri ministeri atti a svolgere questa funzione.
Il fascismo fu forse il primo ad utilizzare la moderna «arma» della
propaganda. Mass media, manifesti, cinematografia: tutto rivolto a
magnificare l’operato del regime e la figura del duce.
Mussolini mise in atto un’intensa e straordinaria opera d’organizzazione del
consenso, tentando di orientare e irreggimentare i modi di pensare, la
mentalità, la vita pubblica e le stesse abitudini quotidiane degli italiani.
Fu realizzato in primo luogo un pieno controllo dell’informazione e dei
mezzi di comunicazione di massa. Vietata la stampa antifascista, anche i
grandi quotidiani di informazione, come il «Corriere della Sera» e «La
Stampa», ebbero proprietà e direttori favorevoli al regime, o almeno non ostili
ad esso. Venne fondato un ente radiofonico, l’EIAR, che gestiva e controllava
le trasmissioni di questo nuovo potentissimo mezzo di comunicazione: dal
1933 i discorsi di Mussolini alla radio vennero trasmessi con altoparlanti sulle
piazze; l’Istituto LUCE, alle dirette dipendenze del capo del governo, produsse
i famosi cinegiornali che ogni gestore di sala cinematografica, a partire dal
1926, ebbe l’obbligo di proiettare; attraverso il Ministero della cultura
4 Ellul, Storia della propaganda, cit., pp. 94-95.
5 Ibid., p. 126.
3
popolare infine, si posero sotto controllo tutti gli aspetti della vita culturale che
interessavano grandi masse di persone.
Ellul distinse due diverse forme della propaganda fascista che vennero usate
a seconda degli obbiettivi e delle esigenze imposte dalla politica mussoliniana:
la «propaganda di agitazione» e la «propaganda di integrazione»
6
.
Inizialmente il regime si servì di una propaganda di agitazione che,
attraverso l’uso della violenza e di metodi sovversivi, mirava a raggiungere gli
obiettivi in modo rapido e strategico servendosi di strumenti relativamente
semplici, come manifesti, opuscoli e comizi. Questa prima forma faceva
riferimento al periodo compreso tra il 1919 e il 1922, per la lotta al potere
avviata da Mussolini; a quello cruciale tra il 1924 e il 1926, per affrontare la
crisi dovuta all’assassinio Matteotti; e ripresa infine, nel 1935-36 e durante la
Seconda Guerra Mondiale, per esigenze di politica estera. Nonostante, col
passare degli anni, la propaganda di agitazione potesse contare su di un
apposito organismo, essa non ebbe mai a disposizione un raffinato e moderno
apparato propagandistico, che fece la sua comparsa soltanto dopo il
consolidamento del potere mussoliniano e disposta a partire dal 1926. E fu
proprio a partire da questa data che Ellul fece riferimento alla propaganda di
integrazione, che si evolse lentamente in un periodo relativamente lungo, fino
al 1939. Essa mirava ad ottenere la costante e totale adesione della
maggioranza della popolazione, agendo indirettamente, attraverso il clima e
l’atmosfera dominanti nel paese e la diffusione di particolari verità sociali, che
puntassero ad influenzare abitudini, costumi e modelli di comportamento
7
.
Caratteristica rimarchevole di questa forma di propaganda fu poi la sua
continuità: il regime fascista si rese conto infatti che un’attività
propagandistica poteva ottenere determinati effetti solo se fosse stata di lunga
durata e, per quanto possibile, ininterrotta.
6 J. Ellul, Propaganda: The Formation of Men’s Attitudes, New York, 1973, cit. in P.V.
Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Roma-Bari, 1975, pp. 70-
71.
7 Ibid., pp. 70-72.
4
Data la sua sottigliezza e il fatto che molti degli scopi e dei temi su cui essa
si imperniava corrispondevano in realtà a sentimenti nazionalistici già
largamente diffusi tra gli italiani, fu questa seconda forma di propaganda a
riscontrare maggior successo.
1.2 Le origini della propaganda di integrazione.
Nel 1923 Mussolini emanò un decreto con cui l’Ufficio stampa veniva
posto alle dirette dipendenze del presidente del Consiglio, e sotto la direzione
di Cesare Rossi, fu rapidamente trasformato da semplice agenzia incaricata dei
comunicati ufficiali in importante arma politica contro l’opinione antifascista,
specie durante la crisi Matteotti, con compiti di vaglio della stampa italiana e
straniera, ai fini della politica mussoliniana di «normalizzazione»
8
.
Dopo il 1926 poi, Mussolini procedette rapidamente a riorganizzarne la
struttura e ad ampliare il raggio della sua attività, allo scopo di soddisfare le
nuove esigenze della propaganda di integrazione.
Dopo Rossi, la direzione venne affidata a Giovanni Capasso Torre che ne
elaborò le prime semplici linee organizzative, e che venne chiamato anche a
dirigere, secondo il volere di Mussolini, anche l’Ufficio stampa del Ministero
degli Esteri, cosicché i due organismi un tempo separati, divennero sezioni
specializzate dell’unico Ufficio stampa del Campo del Governo
9
.
Ma di rado le scelte risalivano autonomamente a Capasso Torre; egli infatti
si limitava per lo più a trasmettere ordini ai suoi subordinati e a vigilarne
l’esecuzione, secondo precise direttive imposte da Mussolini. L’occhio vigile
del duce incombeva sempre su ogni cosa.
Alla fine degli anni Venti però, il grosso delle attività svolte dall’Ufficio
riguardavano le tecniche generali utili alla propaganda tramite i giornali, i
8 Ibid., p. 76.
9 Petacco, Storia del fascismo, cit., vol. 4, p. 390.
5
quali venivano sottoposti ad un sistematico lavoro di «revisione», e influenzati
a seguire una linea appropriata attraverso sussidi finanziari. Soltanto all’inizio
degli anni Trenta venne creata una sezione autonoma che si occupava di
attività propriamente propagandistiche
10
.
Nel 1928, con la nomina di Lando Ferretti all’Ufficio stampa, i temi della
propaganda ufficiale furono fatti oggetto di un’elaborazione più complessa, e
nel 1931 egli propose a Mussolini la costituzione di una “Sezione propaganda”
incaricata di raccogliere, elaborare, rivedere e diffondere scritti e
pubblicazioni inerenti «la romanità, l’italianità e il regime». Un’iniziativa che
fu ispirata probabilmente dai preparativi per le celebrazioni del Decennale, ma
che fu adottata in pieno solo alla fine del 1933.
Negli anni Venti l’Ufficio stampa fu comunque “il più importante
strumento singolo per l’elaborazione e la diffusione della propaganda
all’interno del paese”
11
, in cui potevano essere individuati due temi di carattere
generale, di fondamentale importanza nel senso più vasto della propaganda di
integrazione.
Uno era il «mito del duce» che comportava, da un lato, un preciso sforzo
nel conferire alla figura di Mussolini qualità che lo distinguessero dai comuni
mortali, collocandolo al di sopra di essi, cosicché venisse ad assumere
connotati irreali se non sacri; e dall’altro, la costruzione di un’immagine
popolare del duce tra le masse, con la quale operai e contadini potessero
identificarsi, mostrandolo quasi nel ruolo di padre dell’intera nazione. Un altro
mascheramento dell’immagine pubblica di Mussolini era quello del duce come
simbolo di vigore e forza giovanili, di virilità, noncurante del pericolo fisico e
capace di affrontare le prove con risolutezza ed entusiasmo. Mentre da un
punto di vista politico, la posizione di Mussolini al governo doveva essere
assai più che quella di un semplice presidente del Consiglio, e la sua autorità
10 V. De Grazia, Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista, Roma-Bari, 1981, p. 9.
11 Cannistraro, La fabbrica del consenso, cit., p. 79.
6
doveva essere assoluta
12
.
Più vasto e complesso fu l’altro tema cui l’Ufficio stampa dedicò gran parte
della sua attività: l’idea della «nuova Italia». Fu per questa via che Mussolini
tentò di creare l’apparenza di un assetto sociale ideale, in cui gli italiani si
sarebbero progressivamente adattati al fascismo, identificando il regime con la
restaurazione di un’Italia stabile, ben ordinata e vigorosa, avviata verso una
piena ripresa. Solo creando un tale clima il mito del duce poteva trovare una
base solida, e così come nel caso della figura di Mussolini, era qui
nuovamente necessario per il regime presentare al contempo due immagini
differenti ma connesse, riconciliando la nuova e modera Italia dell’«era
fascista» con valori di tipo più tradizionale e consueto.
Con il pieno utilizzo dei mezzi di comunicazione di massa, e la conclusiva
trasformazione dell’Ufficio stampa nel Ministero della Cultura popolare, un
numero sempre maggiore di italiani poteva essere raggiunto dall’illustrazione
dei temi e degli atteggiamenti ufficiali, e la politica fascista di integrazione
cominciò ad inserirsi più a fondo, e in modo più sottile, nella vita del paese
13
.
1.3 La «rivoluzione culturale» imposta da Mussolini.
Alla data del 1922 il governo nazionale non disponeva ancora di alcuna
istituzione culturale propria, ad eccezione ovviamente delle scuole e delle
università, e non esisteva neppure una politica culturale fascista delineata da
Mussolini, che aveva come principale obiettivo quello di ricercare le occasioni
favorevoli per consolidare il suo controllo, garantendo così la propria
sopravvivenza politica.
La decisione di intervenire in modo concreto sui problemi sollevati dai
diversi movimenti culturali che animavano il paese, venne presa soltanto in
12 Zunino, L’ideologia del fascismo, cit., pp. 203-204.
13 De Grazia, Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista, cit., p. 15.
7
seguito alla profonda crisi politica che scosse l’Italia dopo l’assassinio
Matteotti nel giugno 1924 e dopo l’annuncio della dittatura.
Al seguito della vicenda l’opposizione antifascista si fece più rumorosa e
vide schierata la maggioranza dell’intelligentia italiana, guidati da uomini
come Benedetto Croce e Gaetano Salvemini. Una prima misura efficace per
controllare ed eliminare questo dissenso nel mondo della cultura avvenne in
occasione del Congresso degli intellettuali fascisti, tenutosi a Bologna tra il 29
e il 31 marzo 1925, durante il quale il presidente Giovanni Gentile proclamò
l’alleanza tra cultura e fascismo, e poco dopo venne pubblicato il cosiddetto
Manifesto degli intellettuali fascisti, come prova concreta che la rivoluzione
fascista mirava all’integrazione di cultura e politica
14
.
Gli intellettuali antifascisti reagirono duramente e nell’aprile dello stesso
anno Croce pubblicò un contromanifesto
15
in cui difese vivacemente i principi
del liberalismo e la sua convinzione filosofica della purezza dell’arte e
dell’autonomia della cultura, assolutamente incompatibili con il fascismo e
con l’intenzione di Mussolini di sottoporre la cultura ad un saldo controllo.
Come risposta diretta alla sfida dell’opposizione, nel giugno del 1925 venne
creato l’Istituto nazionale fascista di cultura che, presieduto da Gentile, mirava
alla formazione di una coscienza politica nazionale, alla creazione
dell’«italiano nuovo» e all’integrazione di tutti i gruppi sociali. Inoltre nel
1926 Mussolini, copiando l’iniziativa di Napoleone, decise di dar vita ad
un’Accademia d’Italia che avesse il compito di coordinare e dirigere la cultura
italiana, identificandola al tempo stesso con il regime, ed estenderne
l’influenza anche al di fuori dei confini del paese
16
. Diversamente da quelle
già esistenti, oltre alle due categorie delle scienze fisiche e morali, la nuova
Accademia includeva le lettere e le arti, e in occasione dell’inaugurazione
avvenuta nel 1929, venne sistematicamente presentata dalla propaganda
14 Petacco, Storia del fascismo, cit., vol. 4, p. 394.
15 Dal titolo Una risposta di scrittori, professori e pubblicisti italiani al manifesto degli
intellettuali fascisti, Ibid., cit., vol. 4, p. 395.
16 D. Mack Smith, Mussolini, Milano, 1981, pp. 54-55.