5
Introduzione
Questo studio vuole offrire una visione storiografica di sessant’anni
d’intervento europeo per lo sviluppo, ricostruendo le origini e individuando le
direttrici principali della politica di cooperazione comunitaria negli Stati
dell’Africa, Caraibi e del Pacifico, che ancora oggi regola i rapporti tra l’Unione
europea e settantacinque paesi in via di sviluppo. L’analisi di questo tema,
spesso poco curato dalla manualistica, richiede uno sforzo di elasticità mentale
assai stimolante, poiché presuppone il costante confronto tra tre piani di
discussione -intergovernativo, paritetico e multilaterale- che sebbene diversi tra
loro, alla luce di questo argomento si intersecano l’uno con l’altro, fornendo un
quadro storico in costante movimento. Questa chiave di lettura fornisce una
linea guida sull’impianto schematico assunto da questo studio.
Innanzitutto, pur essendo un tema che oggi assume una dimensione
globale nel più ampio panorama delle relazioni tra il Nord e il Sud del mondo, la
politica di assistenza della CEE nacque come risposta alle sollecitazioni
provenienti da taluni Stati sovrani, che chiedevano in contropartita ai costi e gli
oneri dettati dal processo d’integrazione europeo, una soluzione che permettesse
loro di proteggere gli interessi coloniali. Ecco, che l’analisi della politica di
assistenza, più che di altre tematiche che riguardano il percorso storico del
modello regionale europeo, illumina quelle difficoltà e quei limiti che
contraddistinguono il cammino comunitario. Di fatti, secondo la corrente
funzionalista che sta alla base del progetto europeo, un piano d’integrazione
regionale che possa definirsi tale presuppone, innanzitutto, la graduale cessione
di parte della sovranità nazionale a istituzioni sovranazionali indipendenti, che
hanno il compito di tracciare un percorso d’integrazione settoriale, accessibile e
disinteressato. È noto, tuttavia, come nei primi anni di attività, il processo
d’integrazione europeo abbia faticato a mettersi in moto, a causa
dell’intraprendenza di alcuni Stati nazionali che cercavano di alterare i rapporti
di forza che si erano affermati al termine della Seconda Guerra Mondiale,
mentre altri, spingevano verso il consolidamento dell’assetto geopolitico
esistente per affermare il loro prestigio internazionale e per far fronte al nuovo
scacchiere bipolare.
A tal proposito, la politica di cooperazione fornisce un interessante
soggetto d’analisi, poiché in un quadro d’integrazione economica, che
presuppone una decentralizzazione del potere dallo Stato sovrano alle istituzioni
indipendenti, è nell’orientamento delle relazioni esterne della Comunità che gli
Stati europei poterono trovare uno spazio di manovra più ampio per affermare il
loro prestigio.
6
Forse è per questa ragione che la decisione di associare al processo
d’integrazione europeo i territori coloniali appartenenti alle potenze del vecchio
continente, sembrò fin da subito una scelta riconducibile a consolidare talune
dinamiche imperiali, piuttosto che un ammirevole tentativo per l’Europa, di farsi
promotore del processo di decolonizzazione del Sud del mondo, mediante la
concessione di un regime commerciale preferenziale, che avrebbe incoraggiato
l’accesso delle esportazioni dei paesi associati sul mercato comunitario, e
l’istituzione di un Fondo europeo per lo sviluppo, che sarebbe servito a
finanziare gli investimenti economici e sociali.
Nella prima parte di questo studio si cercherà proprio di verificare fino a
che punto l’Associazione tra CEE e PTOM
1
, istituita nel 1957 secondo le
disposizioni della Parte IV del Trattato di Roma, possa considerarsi una
trasposizione e un riassetto a livello comunitario delle relazioni di dipendenza
economica e politica tra i territori associati e gli Stati europei, con una
particolare attenzione alla posizione di Parigi. Chiaramente, in questa prima
parte il dibattito si sviluppa su un unico piano di discussione, quello
intergovernativo, che coinvolge esclusivamente gli attori europei. Come
vedremo, l’intraprendenza dei partner comunitari avrà alcune ripercussioni sulla
corretta gestione della politica di cooperazione da parte dell’esecutivo di
Bruxelles, che dovrà raggiungere il suo scopo, cioè quello di promuovere lo
sviluppo degli Stati associati cercando, al contempo, di non intralciare gli
interessi economici e geopolitici degli Stati coloniali.
I presupposti politici, economici e culturali che nel 1957 avevano reso
possibile l’istituzione dell’Associazione, cambiano notevolmente con l’avvento
della decolonizzazione nella prima parte degli anni Sessanta e più tardi con la
“presa di consapevolezza” del Terzo Mondo, che prende avvio con lo «shock
petrolifero» del 1973, culminando nella celebre Dichiarazione, adottata
dall’Assemblea delle Nazioni unite il 1° maggio 1974, per lo stabilimento di un
nuovo ordine economico internazionale «basato su equità, eguaglianza nella
sovranità, interdipendenza, interesse comune e cooperazione tra gli Stati,
indipendentemente dal proprio sistema economico o sociale, che corregga le
ineguaglianze e ponga rimedio alle ingiustizie»
2
. Prima con le due Convenzioni
1
Paesi e territori d’oltremare secondo la definizione data dalla Parte IV del Trattato di Roma,
che per l’appunto associa i territori coloniali europei, per lo più situati in Africa sub-sahariana, al
Mercato Comune Europeo.
2
Yearbook of the United Nations 1964, Declaration of the establishment of a new international
economic order, Programme of action on the establishment of a new international economic
order New York, Office of public information United Nations, 1977, pp. 324, in
http://www.unmultimedia.org/searchers/yearbook/page.jsp?bookpage=324&volume=1974. La
traduzione è mia.
7
di Yaoundé (1963, 1969) e poi con quella di Lomé (1975), l’Europa cerca di
spostare il dialogo tra partner comunitari a un livello superiore che da un lato,
sia capace di riformare le vecchie relazioni coloniali adattandole a un sistema
d’assistenza coerente con le prospettive di sviluppo dei paesi beneficiari, e
dall’altro, sia in grado di creare i presupposti per un vivace dialogo tra
rappresentanti del Nord e del Sud del mondo. Pertanto, l’Associazione tra la CEE
e gli Stati ACP (denominati Stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico, dopo
l’ingresso degli Stati del Commonwealth nel 1973) mette a disposizione un
interessante spunto di analisi, utile per comprendere in che modo e in che misura
la Comunità sia riuscita ad accogliere le richieste del Terzo Mondo. Rispondere
a questa domanda diventa un imperativo teorico a seguito dell’affermazione del
modello di Lomé che, a detta di molti, ha rappresentato uno dei tentativi più
rivoluzionari per tentare di ridurre il divario economico e politico tra il Nord e il
Sud del mondo. Infatti, la Convenzione di Lomé affermava la cooperazione tra
Stati sovrani su un piano di completa uguaglianza, attraverso il consolidamento
di un impianto istituzionale paritetico, che assicurava la partecipazione di ben
quarantasei PVS alla gestione dei fondi erogati dalla Comunità e, più in generale,
alla programmazione del proprio percorso di sviluppo. Le risorse necessarie per
dare avvio a un percorso di crescita sul lungo periodo, sarebbero state assicurate
da un regime degli scambi innovativo. Di fatti, per dare impulso alla costruzione
di mercato internazionale più accessibile e solidale, che fosse in grado di
riequilibrare il divario economico tra donatori e beneficiari, la Comunità
avrebbe continuato a importare in franchigia i prodotti dei paesi ACP, senza che
questi fossero tenuti ad accettare l’onore corrispondente. L’accesso
preferenziale e non reciproco per le esportazioni del Sud del mondo nel mercato
comunitario, sarebbe stato completato dalla realizzazione di un ampio
programma di trasferimento di tecnologie, da misure e strumenti per osteggiare
la fluttuazione dei prezzi e da altre disposizioni, che assicuravano all’Europa il
primato tra gli Stati industrializzati per l’assistenza al Terzo Mondo.
Per chi cerca di analizzare oggettivamente il corso storico del modello
associativo di Lomé, l’ostacolo principale sta nel mantenere separati i due piani
di discussione, quello intergovernativo e quello paritetico, poiché spesso e
volentieri le risoluzioni del primo influenzano il secondo e ne determinano il suo
corso. D’altro canto, analizzando un tema di questa portata, deve essere
enfatizzato fin da subito, che la sfida più difficile che ancora oggi devono
affrontare gli Stati associati è di sottrarsi dalla forte asimmetria contrattuale, che
generalmente contraddistingue i negoziati e il rapporto tra Stati del Sud, deboli e
dipendenti, e quelli del Nord, dotati di enorme potere finanziario, economico,
politico e mediatico.
8
Cercare di misurare il reale margine di decisione e d’iniziativa della parte
beneficiaria dell’assistenza nell’allocazione degli aiuti ricevuti e nella
pianificazione del proprio percorso di crescita, diventa fondamentale dalla fine
degli anni Settanta. Infatti, nonostante la pianificazione di nuove politiche di
assistenza e il graduale approfondimento della collaborazione tra la CEE e le
ONG ampliassero il patrimonio d’iniziative a disposizione degli Stati ACP, il
problema dello sviluppo rimbalzava di decennio in decennio, senza alcuna
risoluzione. Gradualmente, l’ottimismo degli anni Sessanta e dei primi anni
Settanta, che nutriva grandi speranze per l’affermazione di un modello di
sviluppo universale, accessibile e progressivo, lascia il posto a numerosi punti
interrogativi e a critiche sulle reali potenzialità operative dei paesi
industrializzati nel rilanciare il percorso di crescita di un Terzo Mondo, che
appare sempre di più alla mercé dei paesi sviluppati. Questa percezione viene
enfatizzata dalla crisi del debito estero degli Stati sottosviluppati, che può essere
considerato come uno spartiacque storico nella concezione dell’aiuto
all’assistenza. Infatti, è in questo contesto che al principio degli anni Ottanta, il
Fondo Monetario Internazionale e, in special modo, la Banca Mondiale
assunsero un ruolo cruciale, rimettendo radicalmente in discussione le
condizioni in base alle quali i donatori multilaterali, bilaterali e privati sarebbero
stati disposti a concedere di nuovo denaro ai PVS. Tra questi attori finanziari
internazionali si diffuse la convinzione che la risoluzione delle problematiche
provocate dal debito contratto dai PVS, richiedesse una profonda riforma
economica di stampo neoliberista, che avrebbe contribuito ad “aggiustare” le
falle strutturali delle loro architetture economiche. Di conseguenza, BM e FMI
insistettero affinché i paesi debitori si impegnassero ad attuare un pacchetto di
riforme economiche, meglio noto come Programma di aggiustamento
strutturale (PAS), come vincolo per l’accesso a nuove concessione di aiuti o
prestiti. Nella seconda parte di questo studio ci soffermeremo a lungo sui
contenuti, obiettivi e risultati raggiunti dalla politica di aggiustamento
strutturale, per adesso ci interessa sottolineare come l’intervento delle istituzioni
di Bretton Woods abbia inaugurato la stagione della “condizionalità dell’aiuto”,
tradendo così le aspettative del Terzo Mondo per una cooperazione tra Stati
sovrani solidale e libera da ogni forma di pressione esterna.
Esaminare attentamente la natura della condizionalità economica imposta
dalle istituzioni finanziarie internazionali diventa, quindi, un passo
indispensabile per qualunque indagine che voglia analizzare l’evoluzione
dell’approccio allo sviluppo del Terzo Mondo, eppure, in questo studio assume
un valore maggiore poiché fornisce un ottimo mezzo di comparazione per
misurare la reale forza rivoluzionaria del “paradigma di Lomé”. L’analisi della
9
reazione dell’Associazione UE-ACP alla politica di aggiustamento strutturale
implementata dalle istituzioni di Bretton Woods, permetterà di valutare la reale
solidità di taluni valori che stanno alla base del modello cooperativo di Lomé,
come l’autonomia dei governi del Terzo Mondo nella programmazione del
proprio percorso di sviluppo e l’estensione dell’assistenza monetaria libera da
ogni forma di condizionalità. In aggiunta a ciò, sarà interessante capire se a
condurre il dialogo con degli interlocutori esterni d’importanza globale, saranno
esclusivamente gli Stati europei e le istituzioni comunitarie, in un piano di
discussione che potremmo circoscrivere a una dimensione Nord-Nord, oppure se
al contrario, l’Associazione UE-ACP farà valere la sua dimensione paritetica,
dando voce al Sud del mondo. Ciò non esime, tuttavia, a considerare altre
possibili ragioni che hanno contribuito a rafforzare la cultura della
“condizionalità dell’aiuto”, sia economica, che politica. Diverse cause,
dall’entrata in vigore della Carta Africana dei diritti dell’uomo (1986)
all’adozione della condizionalità politica da parte delle istituzioni di Bretton
Woods, hanno favorito l’inserzione di più espliciti e rilevanti riferimenti al
rispetto dei diritti dell’uomo negli accordi di Convenzione firmati negli anni
Novanta. Tuttavia, esiste un preciso evento storico che ha avuto un’importanza
maggiore, se non decisiva, nel riformulare le condizioni e i termini politici nei
quali la Comunità sarebbe stata disposta a concedere nuovamente gli aiuti
cooperativi. Infatti, agli albori degli anni Novanta, l’Unione europea assume un
ruolo centrale nel processo di democratizzazione globale innescato dalla
conclusione della Guerra Fredda, offrendo un crescente sostegno economico agli
Stati dell’Europa Centrale e Orientale di recente indipendenza, che non sarebbe
servito soltanto a favorire la crescita infrastrutturale ma avrebbe incoraggiato la
transizione democratica e liberale delle retrograde strutture socialiste per
agevolarne l’integrazione comunitaria. Non è un caso, quindi, che l’UE abbia
trasformato le negoziazioni per la firma degli accordi di cooperazione tra la
Comunità e gli Stati dell’Europa Centrale e Orientale, in un “laboratorio di
sperimentazione” per costruire un sistema di condizionalità democratica
edificato sul rispetto dei diritti dell’uomo, dei valori democratici, dello Stato di
diritto e del buon governo; reso operativo da precise misure sanzionatore da
applicare in caso di violazione dei suddetti principi essenziali. Come vedremo, il
rispetto e il rafforzamento di questi quattro pilastri della società occidentale,
troverà un ottimo spazio di espressione nel modello di sviluppo che attualmente
guida l’azione cooperativa dell’Unione europea negli Stati associati e, più in
generale, quella degli Stati occidentali nel Terzo Mondo. Infatti, l’affermazione
di un universo di valori democratici diventa decisivo per tutelare la centralità
dell’individuo, che in una dimensione di cooperazione allo sviluppo sempre più
10
decentrata, diventa il presupposto cardine per ogni percorso di crescita di
successo. Chiaramente, la politicizzazione dell’aiuto richiede una profonda
riflessione sulle implicazioni che essa ha provocato sulla natura di una relazione,
quello tra Unione europea e Stati ACP, che si proponeva di realizzare un nuovo
corso dei rapporti tra il Nord e il Sud del mondo, fondato sull’equità e il rispetto
della sovranità.
Ecco, che una lunga analisi sulla condizionalità dell’aiuto è fondamentale
per giudicare il grado di maturità raggiunto dall’Associazione di Lomé, all’alba
del ventunesimo secolo. Quel che deve essere chiarito fin da subito è che la
maturità di un soggetto si percepisce dalla sua capacità di adattarsi, e non di
isolarsi, dalle dinamiche che lo circondano, senza che ciò, tuttavia, ne snaturi
l’unicità e la peculiarità. Si tratta di un punto centrale che deve essere tenuto
costantemente in considerazione, per comprendere se il percorso storico del
modello di cooperativo di Lomé avrebbe potuto raggiungere risultati migliori,
prima di essere inglobato definitivamente dalle dinamiche dettate dalla
liberalizzazione mondiale del commercio.
Da metà degli anni Novanta, infatti, l’Associazione UE-ACP deve fare i
conti con un più esteso piano di discussione multilaterale, che coinvolge gli Stati
membri dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. D’altro canto, la
costituzione di un’organizzazione permanente come l’OMC, dotata di un chiaro
sistema sanzionatorio per sorvegliare l’osservanza di un più ampio sistema di
accordi rispetto al General Agreement on Trade and Tariffs o Gatt, oggi è un
vincolo imprescindibile per le scelte di politica commerciale di qualsiasi paese.
Anche l’Associazione UE-ACP non passerà inosservata dall’occhio vigile
dell’OMC, che a seguito della denuncia di alcuni PVS nei confronti del regime
commerciale preferenziale concesso agli Stati associati, in quella che è passata
alla storia come il “Banana dispute”, ne denuncerà la natura giuridica
discriminatoria nei confronti dei paesi terzi, dando così una spinta decisiva al
post-Lomé. Approfondiremo i passaggi storici, tecnici e giuridici del “Banana
dispute” e la reazione della Commissione esposta nel “Libro Verde” del 1996
nell’ultima parte di questo studio, quello che ci preme sottolineare in questo
spazio ridotto, è che la costituzione dell’OMC ha richiesto all’Unione europea un
ripensamento della sua politica di cooperazione in funzione della graduale
liberalizzazione del commercio mondiale. L’Europa ha accettato la sfida: nel
2000 con la firma a Cotonou dell’Accordo di partenariato -termine più
appropriato per una cooperazione che usciva dalla logica «donatore ricevente»
3
3
Commissione delle Comunità europee, Comunicazione (97) 537 def., Orientamenti per il
negoziato di nuovi accordi di cooperazione con i paesi dell’Africa, Caraibi e Pacifico (ACP),
Ufficio delle pubblicazioni ufficiali della Comunità europee, Lussemburgo, 29.10.1997. p. 9.
11
e che si pretende rinnovata e paritaria- l’Unione europea ha dato avvio a un
nuovo capitolo della sua politica di cooperazione, consacrando il regionalismo
come un percorso coordinato e strutturato che gli Stati associati possono
sfruttare, per imbrigliare gli effetti negativi della globalizzazione e per innescare
quel “circolo virtuoso” tra commercio e sviluppo, di cui l’OMC si fa portavoce.
L’Accordo di partenariato deve essere considerato la prima tappa di un
cammino cooperativo assai ambizioso, che sarebbe terminato con la definizione
di Accordi di Partenariato Economico (APE) per la costruzione di zone di libero
scambio (ai sensi dell’art. XXIV del Gatt) tra l’Unione europea e diversi gruppi
regionali e sub-regionali degli Stati ACP. A quasi quindici anni dall’inizio dei
negoziati, oggi gli Accordi di Partenariato Economico siglati hanno perso molta
della loro credibilità, passando da strumenti che avrebbero agevolato
l’integrazione regionale degli ACP in vista del loro futuro adattamento al circuito
del commercio mondiale, a quella che Dot Keet, allacciandosi alla forti proteste
mosse delle organizzazioni non governative, definisce a chiare lettere «L’ultima
offensiva dell’Unione Europea contro l’Africa»
4
. D’altro canto, la strategia
condotta dall’Unione europea verte sulla realizzazione di accordi di libero
scambio ampi e totali -full EPA (Economic Partnership Agreements) - che non
si limitano all’adattamento in chiave contemporanea del tradizionale schema di
scambio commerciale materie prime-prodotti lavorati. In altre parole, se per gli
Stati ACP sarebbe sufficiente firmare un accordo “tradizionale” di libero
scambio, che sia legittimato in sede multilaterale, per l’Europa gli APE devono
incidere in modo più energico sullo sviluppo dei PVS. Ciò sembra essere
possibile soltanto con la firma di un accordo ampio, che si estenda anche alla
liberalizzazione dei servizi (anche quelli fondamentali come acqua, luce e gas)
all’armonizzazione degli standard tecnici e sanitari, alla disciplina degli
investimenti, a politiche comuni a protezione dei consumatori, e altre regole
concernenti il commercio, che presumibilmente svolgano un ruolo positivo per
lo sviluppo. L’analisi degli Accordi di Partenariato Economico siglati tra il 2007
e il 2014 tra l'UE e diversi gruppi regionali ACP ci aiuterà a comprendere come il
regionalismo, uno strumento che può essere veramente d’aiuto agli Stati
sottosviluppati nell’epoca del commercio globale, in realtà sia posto in forte
discussione dall’atteggiamento pretenzioso della Comunità. Infine, si cercherà di
mettere in luce talune direttrici, che l’Europa e gli Stati associati dovrebbero
seguire per dare nuovo vigore a un partenariato, che oggi sembra severamente
messo in discussione dall’inconciliabilità tra le due parti contraenti e
4
Keet Dot, Gli Accordi di Partenariato Economico. L’ultima offensiva dell’Unione Europea
contro l’Africa, in Pallotti Arrigo, Calò Nica Claudia (a cura di), Unione Europea e Africa,
collana di «Afriche e Orienti», anno XIII, numero 1-2/2001, AIEP Editore, Serravalle, 2011.
12
dall’espansione commerciale della Cina nell’Africa sub-sahariana.
5
Quest’ultima analisi offre un interessante spunto di riflessione per rispondere
alla domanda centrale di questo elaborato: nel contesto della liberalizzazione
globale delle economie, avviata da un’organizzazione permanente e a carattere
effettivamente universale
6
come l’OMC, il dialogo paritetico tra Unione europea
e Stati ACP può fornire ancora un modello per la crescita del Terzo Mondo?
Per concludere, è opportuno fare un breve accenno ai criteri utilizzati per
valutare l’impatto della politica di cooperazione comunitaria sullo sviluppo
degli Stati associati. L’analisi dei risultati raggiunti dagli obiettivi enunciati
nelle numerose Convenzioni richiede un approccio oggettivo, che non è
semplice da mantenere nei confronti di un tema come la cooperazione allo
sviluppo, dove spesso la linea che divide la solidarietà dagli interessi è
veramente sottile, se non addirittura invisibile. Certo, una ricca bibliografia, che
raccolga differenti modalità di approccio al problema e una metodologia
d’indagine di natura diversa, può dare un contributo importante per una
valutazione complessiva e imparziale della politica di cooperazione comunitaria,
ma non decisivo. Infatti, la ricerca dell’oggettività in un tema come lo sviluppo
del Terzo Mondo sembra piuttosto complicata, poiché resta difficile per
chiunque pretenda di analizzarne i contenuti e i risultati, sottrarsi completamente
dal contesto storico che lo circonda. In altre parole, il rischio è che il diffuso
ottimismo con cui studiosi, economisti e uomini di governo trattavano il tema
dello sviluppo negli anni Settanta, possa enfatizzare il successo di una politica di
assistenza, che oggi potrebbe sembrare fallimentare visto l’attuale quadro
socio-economico del Terzo Mondo. All’opposto, lo scetticismo che oggi
pervade le prospettive di crescita dei paesi poveri, potrebbe minimizzare alcuni
interessanti spunti emersi nelle recenti negoziazioni o nelle Convenzioni, che
potrebbero fornire nuovi interessanti presupposti su cui orientare le future
politiche di sviluppo. Di conseguenza, si consiglia vivamente di fare attenzione
ai dati e alle tendenze che si riferiscono all’attività del Fondo europeo di
sviluppo, lo strumento utilizzato dall’Unione europea per l’erogazione del
denaro ai paesi assistiti, poiché esse possono rivelarsi cruciali per misurare
oggettivamente la reale forza d’impatto della politica di assistenza comunitaria
negli Stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico.
5
Nel 2018 partiranno i negoziati per la firma di un nuovo accordo, che nel 2020 sostituirà
l’attuale Accordo di Partenariato.
6
Oggi sono gli Stati che fanno parte dell’OMC sono 161, cui se ne aggiungono 25 con ruolo di
osservatori.
13
I. Dai Trattati di Roma alla Convenzione di Yaoundé
(1957-1969)
1.1. Il piano di Strasburgo
Quando, in seguito della Seconda Guerra Mondiale, prendevano avvio i
primi tentativi per giungere all’Europa unificata, il problema dei territori asiatici
ed africani, oltre che americani, aventi legami particolari con gli Stati europei
non sfuggì a coloro che per questa integrazione lavoravano. Emergeva sin da
subito un forte parallelismo tra gli sforzi per unificare il continente europeo e
quelli per evitare che quest’unione significasse una separazione con gli altri
continenti, in particolar modo con quelli in cui alcuni Stati europei avevano
delle responsabilità giuridiche. Tale politica era dettata dalla necessità di far
fronte alle conseguenze economiche e politiche provocate dalla rapida
dissoluzione dei vecchi imperi coloniali con l’obiettivo di rafforzare i legami
con i territori ancora dipendenti e, allo stesso tempo, attrarre le nazioni di
recente sovranità sotto l’influenza occidentale. A inizio anni Cinquanta, infatti,
«lo squilibrio della bilancia commerciale europea nei confronti degli Stati Uniti
si traduce nella persistenza di un deficit dai due ai tre miliardi di dollari
all’anno»
7
. Sia per far fronte alla bilancia dei pagamenti sia per accelerare la
ripresa economica di un continente stremato dal secondo conflitto mondiale, le
nazioni europee erano necessariamente indotte a ricercare un mezzo per
assicurarsi le grandi risorse di cui disponevano i territori e paesi d’oltremare, per
lo più in Africa.
Inserire i possedimenti e le ex colonie nel processo d’integrazione del
continente europeo richiedeva una soluzione che da un lato, superasse i vecchi
legami di stampo coloniale regolati per lo più dalle inflessibili leggi del patto
coloniale, e dall’altro, rispondesse alle nuove sfide dettate dall’economia
mondiale, in particolar modo i problemi legati allo sviluppo delle aree
economicamente arretrate. In poche parole il ritardo del continente africano, e il
suo sviluppo, sarebbe diventato un nodo fondamentale nel processo di
costruzione europeo per diverse ragioni giuridiche, politiche e ovviamente
economiche. Si pensi alle parole espresse da Robert Schuman nella sua celebre
dichiarazione del 9 maggio 1950 a proposito della produzione franco-tedesca del
carbone e dell’acciaio: «Questa produzione sarà offerta a tutto il mondo senza
distinzioni né esclusioni per contribuire al miglioramento del tenore di vita e al
7
Andreis Mario, L’Africa e la Comunità Economica Europea, Torino, Giulio Einaudi Editore,
1967, p. 10.
14
progresso delle opere di pace. L’Europa potrà, con mezzi accresciuti, perseguire
l’attuazione di uno dei compiti fondamentali: lo sviluppo del continente
africano»
8
. Nonostante i buoni intenti di Schuman, la Comunità europea del
carbone e dell’acciaio non farà molto per lo sviluppo del continente nero, se non
qualche investimento in Gabon e Costa d’Avorio per rendere maggiormente
produttivo il settore estrattivo.
Il primo progetto di una stretta associazione tra le nazioni industrializzate
dell’Europa occidentale e l’insieme dei territori e paesi d’oltremare, a essa legati
da vincoli particolari, è dovuto all’iniziativa dell’Assemblea consultiva del
Consiglio d’Europa, che ne fece oggetto di studio sin dalla sua prima sessione,
nel 1949. Tale disegno trovava espressione nel cosiddetto «Piano di Strasburgo»
elaborato dal Segretario generale del Consiglio d’Europa nel settembre 1952. Si
trattava di un piano molto ambizioso che proprio per la sua natura non avrebbe
mai trovato una realizzazione.
Nei propositi dei sostenitori più entusiasti del progetto, questo piano
avrebbe creato una grande zona economica che univa l’Europa alle sue colonie,
inclusi i paesi del Commonwealth. Quest’area economica, che abbracciava un
volume di scambi pari a due terzi del commercio mondiale, sarebbe stata in
grado di competere e regolare i propri scambi con i due giganti della Guerra
Fredda. Nonostante le raccomandazioni dell’assemblea consultiva, al piano non
sarebbe stato dato alcun seguito, soprattutto dopo il secco rifiuto di Francia e
Inghilterra, le due nazioni principalmente interessate. Il comitato dei ministri del
Consiglio d’Europa abbandonava il piano, dopo averlo sottoposto allo studio
dell’Organizzazione europea di cooperazione economica.
Il rapporto, approvato dal consiglio dell’OECE il 27 aprile 1954, conteneva
severe critiche ad alcuni punti fondamentali del piano, pur approvandone alcuni.
«L’istituzione, di un sistema di tariffe preferenziali, […] a base reciproca tra il
Commonwealth e i territori dipendenti, da una parte, e gli altri paesi della zona
dall’altra e la stipulazione di contratti a lungo termine e di accordi internazionali
per i prodotti di base»
9
, sembravano incompatibili con gli sforzi intrapresi
dall’organizzazione per estendere la liberalizzazione degli scambi, e anziché
8
Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950 in Olivi Bino, Santaniello Roberto, Storia
dell’integrazione europea. Dalla guerra fredda alla Costituzione dell’Unione, Bologna, Il
Mulino, 2005, p. 19.
9
Raccomandazione numero 26 dell’Assemblea consultiva del Consiglio d’Europa in De
Vleesghauwer A., L’ Integration europeenne et les Territoires d’outre-mer. Traités
internationaux depuis 1944-1945, Bruxelles, Institut Royal Colonial Belge, Section des
Sciences morales et politiques , Memoires, Collection in-8, Tome XXXI, fasc. 4, 1953, p. 24. Il
corsivo è mio.