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INTRODUZIONE
Negli anni Novanta fu combattuta nella ex-Jugoslavia una guerra considerata dagli
storici come “fratricida”, perché gli scontri avvennero tra civili in un territorio dove le
persone avevano vissuto, fino ad allora, in pacifica convivenza nonostante le differenze
etniche e religiose. Una guerra considerata alle “porte di casa”, ma nonostante questo
“scomparsa”.
Il ruolo dei media, come in ogni evento bellico, fu fondamentale per contribuire alla
trasmissione delle informazioni e alla formazione dell’opinione pubblica nei diversi
Paesi, ma questo ruolo ha evidenziato un atteggiamento ingannevole nei confronti della
realtà della guerra, che ha influito inevitabilmente sulla relativa memoria. Per tale
ragione, questo elaborato si propone di analizzare gli eventi di questo conflitto
ponendoli in relazione con la narrazione mediatica rilevata nelle diverse fasi della guerra.
Nello specifico, si tratterà del tema della memoria della guerra nella ex-Jugoslavia con
particolare riferimento al caso del genocidio di Srebrenica: un massacro contrassegnato
da un difficile percorso per il suo riconoscimento, a causa del supporto mediatico alle
correnti negazioniste.
Nel Primo Capitolo è sviluppata la contestualizzazione storica della guerra in Bosnia,
analizzando la situazione nei Balcani dall’ascesa di Slobodan Milošević nel 1989 agli
accordi di Dayton nel 1995. Il nazionalismo è l’elemento chiave degli sviluppi di questa
guerra e, per tale ragione, vi è dedicato un breve approfondimento. In seguito, sono
proposte alcune teorie riguardanti il ruolo dei media in situazioni di guerra.
Nel Secondo Capitolo sono approfondite le teorie riguardanti la propaganda: la
strategia comunicativa che rivestì un ruolo chiave nella strutturazione dei messaggi
politici e mediatici. Per aggiungere concretezza al ruolo che hanno avuto queste teorie,
sono presentati alcuni esempi legati alle informazioni diffuse dai media durante la
guerra nei Balcani, analizzando l’approccio dei giornalisti e degli editori alla guerra, sia a
4
livello locale che estero.
Nel Terzo Capitolo è spiegato il caso del genocidio di Srebrenica, perché fu un
massacro che non solo modificò gli sviluppi della guerra, facendo scendere in campo le
forze NATO per porre una tregua alle violenze che si stavano compiendo su tutto il
territorio, ma esso permise anche l’evoluzione del termine “genocidio” e la
considerazione dello stupro come crimine di guerra e contro l’umanità. In questo
capitolo è presentata una contestualizzazione storica legata ai fatti del genocidio, con
un particolare approfondimento sulla pulizia etnica, perché considerata arma di guerra
per la conquista serba, e sullo “stupro etnico”, in quanto arma di pulizia etnica per la
conquista serba attraverso la trasmissione del gene serbo alle donne di differente etnia.
Al fine di definire ulteriormente il quadro teorico, vengono di seguito presentate le
principali teorizzazioni sulla memoria, con particolare riferimento ai luoghi di memoria,
alla mediatizzazione della memoria e al valore della testimonianza, essendo tre teorie
direttamente applicabili agli eventi di Srebrenica e che verranno poi ripresi a livello
pratico nel capitolo dedicato all’influenza della memoria del riconoscimento dei fatti.
Anche in questo genocidio, infatti, il negazionismo e la mancanza di una volontà di
conoscenza dei fatti hanno influito sul rallentamento del processo per il riconoscimento
giuridico del massacro e, successivamente, come genocidio a causa delle peculiarità e
caratteristiche dell’evento. Per queste ragioni, nel Capitolo Quarto sono brevemente
analizzate sia le ideologie negazioniste prevalenti e supportate anche a livello mediatico,
che le testimonianze dei sopravvissuti e dei carnefici, che hanno permesso al Tribunale
Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia, appositamente istituito per giudicare i
criminali di questa guerra, di giungere alle sentenze emanate. Viene approfondito il
ruolo che ha avuto il video degli Skorpion, un’Unità paramilitare serba, nel definire una
prima riduzione dell’intensità delle correnti negazioniste e la testimonianza di Dražen
Erdemović, un ragazzo serbo-croato parte di uno dei battaglioni serbo-bosniaci che
fucilarono migliaia di civili bosniaco musulmani a Srebrenica, la cui testimonianza ha
avuto un ruolo fondamentale nel riconoscimento dei fatti e nella relativa creazione della
memoria di questo genocidio.
La memoria è il filo conduttore di questo elaborato e, per questa ragione, è stato
5
somministrato un questionario atto ad analizzare quale sia la memoria legata a questi
eventi e come essa sia stata trasmessa. Nell’ultimo capitolo, infatti, sono riportati i
relativi risultati e un’analisi di quanto emerso. A seguito di una prima esposizione sui
dati socio-demografici del campione, i dati sono riportati suddividendo l’analisi nelle tre
categorie di ricerca: il livello di conoscenza dei fatti storici della guerra e del massacro,
la percezione della copertura mediatica sul tema sia durante il conflitto che al giorno
d’oggi e, infine, l’importanza associata dagli intervistati al perdurare della memoria
collettiva di fatti traumatici.
Il tema scelto è nato dalla volontà di chi scrive di approfondire quanto trattato nel
Progetto Welcome to Bosna: ponti e muri nell’Europa di ieri e di oggi, ideato da alcuni
Docenti dell’Istituto Tecnico Commerciale “Antonio Zanon” di Udine. Nell’anno
scolastico 2016/2017, questo progetto ha permesso alle classi quarte e quinte
dell’Istituto di venire a conoscenza di un periodo storico spesso trattato
superficialmente o assolutamente non approfondito. Nell’arco di circa sei mesi sono
stati organizzati incontri con diversi esperti per cogliere le sfumature di questo conflitto
da diversi punti di vista.
È stato così possibile partecipare ad una lectio magistralis sui Balcani tenuta dal
professor Jože Pirjevec, esperto del tema, e ad alcune successive lezioni di
approfondimento organizzate dai docenti di storia dell’Istituto. Un incontro con il
fotografo Alessandro Coccolo e la giornalista Simonetta Di Zanutto, autori della mostra
fotografica dal titolo Around Srebrenica. Viaggio attraverso i Balcani, 20 anni dopo
1
, che
hanno presentato immagini di Srebrenica e della Bosnia dei nostri giorni, hanno fornito
un primo sguardo sulle conseguenze di una guerra così poco conosciuta. La
partecipazione allo spettacolo La scelta di Marco Cortesi e Mara Moschini, un’opera
definita dai suoi stessi autori come “documentario in formato teatrale”
2
, ha permesso
agli studenti di ascoltare la narrazione di alcune testimonianze relative a diversi
avvenimenti accaduti durante la guerra presentati dal punto di vista delle diverse parti
1
Ulteriori informazioni sono reperibili sul sito https://ritaglidiviaggio.it/2016/11/24/around-
srebrenica-la-mostra-sbarca-nelle-scuole/ (ottobre 2020).
2
Citazione tratta dal video di presentazione dello spettacolo La scelta al minuto 00:23 sul sito
https://marco-cortesi.com/la-scelta-spettacolo/ (ottobre 2020).
6
coinvolte. Infine, un ex-alunno serbo e un’ex-alunna bosniaca sono stati invitati a scuola
per essere intervistati da alcuni compagni di classe e testimoniare cos’ha significato per
loro scappare dalla guerra e vivere in Friuli Venezia Giulia
3
.
Ogni testimonianza è importante e di forte valore nella costruzione e mantenimento
della memoria, sia individuale che collettiva, perché permette di comprendere, almeno
in parte, la sofferenza perpetrata. Nell’arco di questo progetto sono state ascoltate
diverse testimonianze, sia dirette che raccontate in modo indiretto, ma, almeno a parere
chi scrive, la testimonianza che ha permesso di comprendere ancor di più l’importanza
della memoria dei fatti accaduti: è stata quella di Fuad, la guida turistica incontrata a
Sarajevo.
A conclusione del progetto, infatti, è stato organizzato un viaggio di una settimana
per ripercorrere gli eventi della guerra facendo tappa a Spalato, Mostar, Sarajevo,
Srebrenica, Belgrado e Zagabria. Durante la permanenza a Sarajevo, la guida assegnata
al gruppo è stata Fuad. Non è stato un incontro organizzato, ma ha permesso di far
incontrare dopo vent’anni lui e una delle docenti accompagnatrici, che era stata sua
insegnante durante la permanenza di Fuad in un campo profughi in Friuli. Questo
incontro è stato ampiamente discusso con gli altri compagni e la conclusione unanime
che si è tratta è stata relativa al valore che ha aggiunto Fuad alla visita della città.
Ascoltare le sue parole, sentire nella sua voce il dolore provato nel dover lasciare la sua
amatissima terra e l’ingiusta ostilità trovata in Italia, il tutto essendo circondati da edifici
provati ancora dalla guerra con i fori di proiettile nei muri, ha reso la sua testimonianza
ancora più d’impatto permettendo di capire quanto di questa guerra non si parli come
si dovrebbe e quanti stereotipi sono nati a causa di questo conflitto.
In tutta la giornata di visita, Fuad non ha nascosto di essere rimasto sorpreso dalla
volontà degli studenti di voler conoscere, ma soprattutto di voler capire, cos’era
successo nel suo Paese e in particolare come lui per primo avesse vissuto il conflitto,
tanto che ha affermato
3
Ulteriori informazioni sono reperibili sul sito https://old.itzanon.it/i-nostri-ragazzi-raccontano-
la-bosnia/ (ottobre 2020).
7
Vivere in Italia non è stato facile. Non mi sentivo accolto e vedevo che a pochi
importava cosa stava succedendo oltre il confine. Oggi, vedere voi ragazzi così
attenti e commossi per quello che è successo a casa mia: commuove anche me.
Ecco perché voi siete dei “piccoli Ambasciatori multiculturali”
4
.
Queste parole, non dimenticate, hanno determinato la scelta di voler analizzare a
livello sociologico l’impatto mediatico di una guerra così importante, ma spesso ignorata
ed ancora non compiutamente interiorizzata nella memoria collettiva europea.
4
Progetto “Welcome to Bosna”: citazione tratta da una registrazione effettuata durante le
spiegazioni di Fuad e poi utilizzata per scopi didattici dalla docente di storia della classe.
9
CAPITOLO PRIMO
LA GUERRA DEI BALCANI
I primi insediamenti nell’area Balcanica avvennero intorno al VI sec. D.C. ed in
seguito, attraverso i contatti che le popolazioni quivi stanziate ebbero con quelle dei
territori limitrofi, le strutture organizzative e gli stili di vita si diversificarono sempre di
più. I serbi si allinearono al mondo ortodosso orientale, mentre i croati e gli sloveni alla
civiltà cattolica occidentale. L’unico aspetto in comune che rimase fu quello della lingua
e fu proprio questo elemento a far nascere nell’Ottocento l’idea di unione, di
valorizzazione degli aspetti comuni piuttosto che delle differenze: l’idea di Jugoslavia,
letteralmente “i popoli slavi del Sud”. Tale idea iniziò a concretizzarsi solo dopo il crollo
dell’Impero Asburgico nel 1918 (De Luca 2006, 10).
Questa ideologia si scontrò con gli interessi specifici dei vari popoli desiderosi di
ottenere una propria egemonia interna: il popolo serbo mirava ad una propria nazione
con più forza rispetto alle altre, mentre croati, bosniaci e popolazioni minori ad un Paese
unito che non pregiudicasse le particolarità culturali e regionali. In aggiunta ai primi
scontri ideologici, è importante citare anche gli interessi geopolitici che le grandi
potenze europee iniziarono ad avere nei confronti dell’area Balcanica, importante in
quanto fungeva da calmiere nelle divergenze tra il mondo Orientale e quello
Occidentale.
Il 29 novembre 1945, sotto il controllo del Maresciallo Tito, nacque la Repubblica
Federale di Jugoslavia totalmente di stampo comunista, che portò alla creazione di
numerose Regioni Autonome facendo svanire l’auspicato potere egemonico della
popolazione serba e croata. Il regime socialista di Tito permise la convivenza di gruppi e
nazionalità diverse nonostante le ostilità reciproche, attraverso un’attività di
mediazione supportata dal motto Bratstvo i jedinstvo, “fratellanza e unità”, ma non
garantì la libertà di opinione ed espressione fomentando silenziosamente ostilità e
nazionalismi, soprattutto serbi (De Luca 2006, 29).
10
Il modello federale definito da Tito servì anche per tentare di mantenere una
rappresentanza paritetica delle etnie negli organismi statali. La creazione di uno Stato
unitario basato su criteri di giustizia ed uguaglianza tra etnie, vide comunque supporto
nella popolazione delle aree urbane. Fu il popolo rurale serbo a sentire un primo bisogno
di rivendicazione sia per la forte mentalità tradizionalista che lo contraddistingueva, che
per la sua facilità ad essere oggetto di manipolazione (Diddi e Piattelli 1995. 32-33).
La popolazione bosniaca, essendo da sempre composta da un insieme eterogeneo di
popoli e religioni, non sentiva la necessità di una rivendicazione perché vedeva
riconosciuta la propria identità dal Regime.
Mediante il federalismo, Tito puntò ad un ridimensionamento di Croazia e Serbia, le
due popolazioni con maggiore potere, per potenziare nazionalità fino a quel momento
escluse, aumentandone i diritti e l’estensione dei territori. Per la prima volta, i bosniaci
musulmani divennero una nazionalità definita in termini religiosi e le minoranze
ottennero il diritto a sviluppare le proprie culture e le proprie lingue.
La Jugoslavia ebbe un ruolo strategico anche nello scacchiere internazionale, in
quanto considerato uno “stato cuscinetto” tra l’URSS e gli Alleati Occidentali (De Luca
2006, 20). Nel corso degli anni, però, i rapporti tra Stalin e Tito si inasprirono, il sostegno
economico dell’URSS si ridusse fino a cessare del tutto e il 28 giugno 1948 la Jugoslavia
fu espulsa dal Cominform, famiglia dei partiti comunisti europei, rendendo la sua
ricostruzione post-bellica più complessa. Nonostante gli aiuti economici e sociali dei
paesi occidentali e un maggiore decentramento del potere, favorito con la nuova
Costituzione del 1974, la crisi economica continuò ad inasprirsi.
Durante la Seconda guerra mondiale furono numerosi i massacri compiuti, in
particolare in Bosnia e nella Krajina croata, come reazione al predominio serbo del
periodo precedente. Le contrapposizioni furono apparentemente congelate con Tito,
ma divisioni e nazionalismi si affievolirono senza dissolversi. La morte del Maresciallo
Tito, nel 1980, e l’inizio dei plebisciti per l’indipendenza nel 1990, decretarono iI
naufragio del “sogno jugoslavo”. Non crollò solo la struttura statale, ma anche l’idea di
convivenza a prescindere dalle differenze, che fomentò quegli antagonismi profondi che
si protraevano da tempo. Il nazionalismo farà propri slogan come “fratellanza ed unità”
11
per privarli del loro significato originario e servirsene a fini agitatori (Diddi e Piattelli
1995, 32, 34).
1. La balcanizzazione
Nelle riflessioni che seguono sono illustrate le cause e gli eventi principali verificatisi
durante il conflitto nella ex-Jugoslavia, al fine di contestualizzare coerentemente la
situazione storica a supporto delle considerazioni sociologiche dei capitoli successivi. Per
una maggiore chiarezza espositiva di un evento bellico così complesso, il capitolo è stato
suddiviso in due parti. Nella prima parte viene analizzato il concetto di “nazionalismo”,
anche in relazione con quello di “etnia”, considerato dagli storici la base delle politiche
e delle violenze che si sono susseguite durante il conflitto. Nella seconda parte, invece,
sono descritti gli eventi principali avvenuti durante la guerra per poter meglio
comprendere i riferimenti alle teorie dei media che saranno successivamente esposte.
1.1 Il nazionalismo
Gli storici considerano l’ideologia nazionalista l’elemento alla base della guerra della
secessione jugoslava. A seguito della morte del Maresciallo Tito, infatti, questa ideologia
tornò a diffondersi tra la popolazione alimentata anche dalla mancanza delle repressioni
delle libertà di espressione attuate durante il regime socialista.
Secondo il Vocabolario Treccani, il concetto di “nazionalismo” indica:
[…] l’esaltazione dell’idea di nazione e di tutto quanto è espressione di essa nella
vita civile e politica
5
.
Inoltre, questa ideologia può essere esacerbata diventando
5
Alla voce “nazionalismo”, Vocabolario online Treccani: http://treccani.it/vocabolario/na-
zionalismo (agosto 2020).
12
[...] un patriottismo aggressivo e una visione politica conservatrice e autoritaria [...]
[caratterizzato da] l’esaltazione e la difesa della nazione, la tutela della sua unità
etnica (di qui poi la denigrazione e la persecuzione), e soprattutto l’incremento
della sua potenza, tramite l’espansione territoriale, l’imperialismo coloniale e
l’egemonia culturale
6
.
Alla base di questa ideologia vi è una consapevolezza sull’esistenza della nazione,
definita come “coscienza nazionale”, da cui derivano atteggiamenti ed azioni in ambito
culturale, economico e politico. Ne consegue che il presupposto sia la presenza dell’idea
di nazione, ovvero quando un gruppo di individui si sente parte di una comunità unita
da legami storici, culturali e di discendenza. Il senso di appartenenza ad una comunità
può, però, innescare un comportamento nazionalistico che esalta in modo estremo la
propria nazione e il relativo prestigio e che si nutre di ogni successo, che viene celebrato
come motivo di orgoglio e, nei casi più estremi, come conferma della propria superiorità.
In diversi contesti il nazionalismo è stato usato dai Governi per distrarre dai reali
problemi nazionali, orientando anche idee e convinzioni rischiose sul lungo periodo,
come nel caso della Germania di Hitler o di quello balcanico (Kellas in De Luca 2006, 23).
Un altro concetto legato al nazionalismo e quello di “etnia” o “gruppo etnico”, di cui
il caso Balcanico ne rappresenta un ulteriore esempio. Il termine “etnia” deriva dal greco
ἔθνος (“razza”, “popolo”) ovvero “un raggruppamento umano distinto da altri sulla base
di criteri razziali, linguistici e culturali”
7
.
Esistono delle differenze tra “gruppo etnico” e “nazione”. Nel primo caso, il gruppo
di riferimento riserva una presenza antica nella storia dell’uomo e può essere definito
“esclusivo”, in quanto solo chi possiede quelle determinate caratteristiche può farne
parte. Nel secondo caso, invece, il concetto è più “inclusivo” dato che, per farne parte,
il gruppo deve condividere aspetti di tipo culturale e politico. In tempi moderni, la
differenza tra questi due concetti si è assottigliata, tanto che è venuto ad aggiungersi
anche il concetto di “nazionalismo etnico”: tipologia fortemente “esclusiva” in quanto
non si può essere parte di una nazione se non si appartiene ad una determinata etnia. È
quest’ultima ideologia che permette di spiegare le cause che hanno comportato la fine
6
Idem.
7
Alla voce “etnia”, Enciclopedia online Treccani: http://treccani.it/enciclopedia/etnia/ (agosto
2020).
13
della Jugoslavia e della relativa ideologia di base legata all’unione tra popoli con
caratteristiche differenti (Kellas in De Luca 2006, 24-25).
Nell’utilizzo della terminologia, relativa ai concetti sopra citati, utilizzata dai gruppi di
potere nazionalisti è stata rilevata, a posteriori, un’incongruenza semantica. Il
Presidente serbo Slobodan Milošević definì i gruppi etnici presenti sul territorio in base
a settori di popolazione distinguibili attraverso elementi religiosi, come i bosniaci-
musulmani, ma anche tramite qualificazioni regionali, come i serbi o i croati. Il disegno
egemonico voluto dalla Serbia è scarsamente collegabile ad una identità etnica:
l’appartenenza religiosa non è un elemento tale da definire anche un’appartenenza
etnica, mentre l’identità serba è un’ideologia risalente ai primi nazionalismi europei
affermatisi ad inizio Ottocento (Rivera in De Luca 2006, 25).
Il risveglio e il relativo rafforzamento dell’ideologia nazionalista è dovuto sia al
rafforzamento delle Repubbliche interne, grazie alla nuova Costituzione del 1974, che
alla morte del Maresciallo Tito con il conseguente indebolimento del patriottismo
jugoslavo e del potere centrale. Le ideologie rivali presenti in quest’area erano
caratterizzate da una forte chiusura ed intolleranza, soprattutto da parte del popolo
serbo.
Il nazionalismo serbo, in particolare, si basava anche su una rivisitazione del passato
e un’idealizzazione della storia nazionale con il preciso scopo di mobilitare le masse. Si
parla di “mito-politica” in quanto nello scenario storico vi erano riferimenti non solo ai
militari serbi più illustri, ma anche ai leggendari paladini dei canti popolari, alimentando
il culto della guerra (Diddi e Piattelli 1995, 20).
Le differenze economiche presenti tra i paesi, combinate alle diversità culturali
sempre più marcate, coadiuvarono questa spinta nazionalistica nella peggiore delle sue
sfumature.
Un ulteriore aggravamento della situazione si ebbe con la dissoluzione dell’Unione
sovietica nel 1989, che comportò l’annullamento del Patto di Varsavia, stipulato il 14
maggio 1955 e ufficialmente sciolto il primo luglio del 1991, con cui era stata prevista
un’alleanza militare tra i paesi del Blocco sovietico nei confronti dell’Alleanza Atlantica
NATO. Si pose così fine all’ultimo principio di unione di tipo socialista che ancora
14
sopravviveva in Jugoslavia. Con la definitiva scomparsa dell’ideologia che aveva
soppresso per lungo tempo i nazionalismi presenti iniziò il processo di balcanizzazione,
vale a dire “[...] un processo di disgregazione e smembramento di una struttura politica
unitaria, nella maggior parte dei casi di carattere statale” (Abram 2013).
Sebbene il termine sia fortemente associato a questa guerra, le sue origini sono più
antiche. Questa definizione nacque infatti tra il XIX e il XX secolo, durante la Questione
Orientale, periodo in cui l’area balcanica era assoggettata all’Impero ottomano e
divenne territorio di numerosi moti insurrezionali in cui la popolazione richiedeva il
riconoscimento politico e l’indipendenza. Anche in questo caso, oltre alle pressioni
interne, vi erano le pressioni esterne dell’Impero asburgico, di quello Russo e delle
grandi potenze europee. Con le Guerre balcaniche del 1912 e 1913, l’instabilità e la
frammentarietà di queste zone divenne concreta. Negli anni successivi la
balcanizzazione sarà utilizzata per identificare anche situazioni geopolitiche in cui vi è
eterogeneità culturale ed instabilità. Con il passare del tempo le sfumature semantiche
sono aumentate, rendendolo un termine con una concezione potenzialmente negativa,
dato che questo processo porta ad una regressione tribale (Todorova in Abram 2013):
Si consolidava quindi il riferimento ad una situazione caotica, instabile,
assoggettata all’irrazionalità e, in molti casi, alla violenza, ovvero a quelle brutalità
“balcaniche” considerate totalmente estranee all’Europa della Belle Époque
precedente al 1914 (Abram 2013).
Fu solo durante gli anni Novanta, che il concetto di balcanizzazione riacquisì il suo
significato originario, che venne poi applicato anche ad altri contesti, come quello
economico. La balcanizzazione non portò solo alla disgregazione totale della Jugoslavia,
ma anche all’attuazione di alcuni dei più gravi crimini contro l’umanità.
1.2 La guerra nei Balcani
La gravità della crisi balcanica e della guerra che ne scaturì non furono comprese
immediatamente né dagli attori interni, né da quelli esterni al contesto di riferimento.
La volontà di una Serbia potente ed egemone, combinata alle altrettanto pressanti
15
richieste di indipendenza delle Repubbliche jugoslave, furono le due cause principali di
un conflitto fratricida. Queste richieste contrastanti ebbero effetti sulla riorganizzazione
della società che sarebbe dovuta diventare aperta e decentrata per i paesi desiderosi di
autonomia, chiusa ed autarchica per i serbi (De Luca 2006, 30).
La Slovenia, alla ricerca di un punto d’incontro con l’Europa, fu il primo Paese in cui i
serbi agirono attraverso un’occupazione militare puntando al rovesciamento del
Governo. Nonostante questo intervento, l’indipendenza slovena venne proclamata il 25
giugno 1991, ma fu considerata illegittima da Belgrado che aveva la consapevolezza di
come tale decisione potesse fungere da apripista anche per altre Repubbliche. Il
vantaggio sloveno fu che Belgrado, a seguito delle pressanti mire indipendentiste degli
altri paesi, rivolse la sua attenzione a questi ultimi includendo la Slovenia solo
parzialmente nel progetto nazionalista serbo (De Luca 2006, 32-33).
Diverso fu per i moti indipendentisti della Croazia, la cui popolazione si sentiva
sempre più vicina all’area europea. I croati iniziavano a percepirsi come una popolazione
più edotta rispetto ai pensieri tradizionalisti balcanici, di qui la necessità di dimostrare
la propria estraneità da quel contesto e valorizzare la propria cultura in modo ufficiale
(Diddi e Piattelli 1995, 44-45).
Il Governo di Belgrado non era disposto ad accettare l’indipendenza croata, essendo
una Repubblica composta per l’11,6% da serbi, che sarebbero diventati, quindi, un
gruppo rappresentativo di una minoranza locale, aspetto che minava ulteriormente il
potere rivendicato dai serbi (Ventura in De Luca 2006, 33-34). Questa futura minoranza
viveva principalmente nella zona della Krajina e fu proprio in questa zona che avvennero
le prime mobilitazioni contro l’indipendenza. Il rischio della costituzione dello Stato
croato venne sfruttato strategicamente dal Presidente Milošević, che sottolineò come i
serbi della Krajina, per definizione desiderosi di far parte della Grande Serbia, avrebbero
vissuto in un altro territorio con un’etnia diversa e ostile e per questo fece intervenire
l’esercito serbo “a supporto” di queste mobilitazioni (De Luca 2006, 34).
La Serbia non avrebbe mai potuto accettare le proposte di maggiore autonomia e
confederazione provenienti da Slovenia e Croazia, poiché non avrebbe risolto il
problema dei serbi residenti fuori dalla Serbia, per i quali era invece contemplata
una politica di omogeneizzazione nazionale e di riunione in un solo stato (Tomac in