conditio sine qua non per l’attuazione della partecipazione e del pluralismo, e
che dall’altro costituisce uno degli ambiti più colpiti nella violazione dei
diritti umani da parte dei regimi autoritari mediorientali: il diritto alla libera
manifestazione del pensiero.
Nel corso dell’analisi la libertà d’espressione viene approfondita secondo
diverse angolazioni. Nella prima parte viene privilegiato l’aspetto storico-
politico e si cerca di dare conto dei diritti di libertà accordati all’individuo alla
luce delle forme storicamente assunte dall’autorità statale nel mondo
musulmano. La seconda sezione predilige un approccio giuridico e prende le
mosse dall’analisi degli strumenti normativi internazionali e regionali dedicati
alla tutela della libertà in esame. Secondo una logica comparativa, la lente di
ingrandimento si sofferma poi su una selezione di casi nazionali per mettere
in luce le linee di tendenza comuni e i tratti distintivi rispetto ai meccanismi di
controllo dei contenuti e dei mezzi informativi. Infine, nella terza e ultima
parte l’attenzione viene focalizzata sull’aspetto tecnologico, per indagare le
implicazioni socio-politiche legate all’uso politico dei mezzi di informazione
e il ruolo di agenti di cambiamento svolto dalle nuove tecnologie
dell’informazione nel processo di transizione democratica in atto in alcune
realtà della scacchiera mediorientale.
Il filo conduttore che percorre l’intera analisi riguarda il pendolo tra libertà
e controllo nel segno della tensione unitaria e comunitarista che caratterizza la
tradizione musulmana, che si riverbera sia sul rapporto individuo-comunità
che sugli stessi rapporti tra Stati. Accanto a questo, lo studio mette in luce
come le forme autoritarie assunte dai regimi al potere abbiano eletto la
segretezza dei controlli, una pratica amministrativa non trasparente e la
strumentalizzazione della legislazione di emergenza come i principali metodi
deputati alla compressione dei diritti civili e politici e al mantenimento dello
status quo “dentro” i confini dell’arena pubblica, costringendo di conseguenza
le libertà “fuori” dai circuiti statali.
Il primo capitolo è imperniato attorno al binomio politica-religione.
Vengono affrontati la concezione arabo-islamica del potere e i meccanismi di
legittimazione dell’autorità, nonché i fattori storici e i condizionamenti
culturali e religiosi che da un lato hanno determinato una struttura socio-
politica degli Stati arabi improntata all’autoritarismo, e che dall’altro hanno
5
definito un’attitudine censoria nei confronti della politica culturale deputata a
preservare la stabilità del sistema. Vengono approfonditi la tradizionale figura
del leader, la relazione tra i “palazzi” e le “piazze”, il patto sociale dell’Islām
nella sua degenerazione dispotica nel ruling bargain (quietismo politico). In
seguito ad alcuni cenni sulle “scomode” eredità lasciate dall’esperienza
coloniale, si passano in rassegna i caratteri ricorrenti delle formazioni statali
arabe dalla nascita degli Stati nazionali ad oggi, per poi isolarne i due assi
portanti: il neo-patriarcato e la mentalità rentier.
Il secondo capitolo prosegue il discorso precedentemente intrapreso sul
lungo processo di acculturazione giuridica che ha interessato il mondo arabo
in seguito all’innesto di diritto pubblico e costituzionale di matrice
occidentale avviato dalle potenze coloniali. Vengono quindi presi in
considerazione la progressiva subordinazione della normativa religioso-
dottrinale alla produzione legislativa statuale e lo speculare conflitto tra
norme sciaraitiche e norme costituzionali. A questo punto l’analisi si sofferma
sulla peculiare concezione islamica delle libertà fondamentali,
l’interpretazione funzionalistica dei diritti e il ruolo svolto dal principio di
eguaglianza nell’ordine musulmano, per poi concludere con la
positivizzazione dei diritti fondamentali nei testi costituzionali e l’adesione
formale alle Dichiarazioni internazionali sui diritti dell’uomo.
Il terzo capitolo è interamente dedicato all’approfondimento della tutela
della libera manifestazione del pensiero così come delineata nelle
Dichiarazioni e nelle Convenzioni internazionali; vengono presi in
considerazione diversi strumenti, tra cui la Dichiarazione Universale dei
Diritti dell’Uomo (DUDU) e il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici
(ICCPR), nonché alcuni documenti contenenti i parametri stabiliti in sede
internazionale sulla legittima restrizione della libertà di espressione.
Procedendo dal “macro” al “micro”, si analizza poi lo statuto accordato al
diritto in esame dalle varie Convenzioni regionali siglate dai Paesi membri
della Lega degli Stati Arabi, per porre in luce la formulazione arabo-islamica
degli istituti di garanzia volti alla tutela dei diritti individuali, in quanto esito
del dibattito circa la dialettica tra universalità dei diritti e immutabilità delle
prescrizioni divine contenute nel dettato sciaraitico. Sempre seguendo una
prospettiva comparativa, vengono quindi messe a confronto le formulazioni
6
contenute nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo nell’Islām
(DUDUI,1981), nella Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo nell’Islām
(DDUI,1990) e infine nella Carta Araba dei Diritti dell’Uomo (CADU, 1994),
procedendo in quest’ultimo caso all’analisi comparata tra la versione araba
originale e quella in traduzione.
Il quarto capitolo inaugura l’analisi dei singoli casi nazionali e si concentra
sui meccanismi di controllo dell’informazione e sulla struttura dei limiti posti
alla libera manifestazione del pensiero. Il metodo d’analisi è articolato su tre
livelli distinti (Costituzioni, legge ordinaria e codici etici). Dal momento che
il controllo dell’informazione passa inevitabilmente attraverso la regolazione
restrittiva della stampa e degli altri organismi dell’informazione, perché
l’analisi dei limiti impliciti ed espliciti applicati ai contenuti risulti
significativa, non si può fare esclusivo riferimento alle provvisioni
costituzionali. Per questo, nel delineare il quadro legislativo di ciascun Paese,
ci si è rivolti alla disciplina sulla libertà di espressione e di stampa contenuta
nelle varie leggi sulla stampa e sulle pubblicazioni, nelle leggi sull’audio-
visivo (laddove il settore radio-televisivo è regolamentato per legge), nei
codici penali, nella decretazione di emergenza, e infine nei codici etici sulla
professione giornalistica.
Si tratta di un’analisi a più livelli, il cui obiettivo è quello di evidenziare
come le garanzie disposte nei testi costituzionali a tutela della libertà di
espressione e di stampa vengano progressivamente “svuotate” dalla
legislazione ordinaria e in particolar modo dalla continua proroga delle leggi
d’emergenza e delle misure anti-terrorismo che giustificano la compressione
dei diritti civili e politici in nome della sicurezza nazionale.
I casi nazionali selezionati vengono a loro volta suddivisi in tre categorie,
a seconda del tipo di sistema informativo sviluppato: Egitto e Giordania per
quanto riguarda la stampa di tipo transitional; Libano, Yemen e Kuwait per la
stampa diverse e infine l’Arabia Saudita, in quanto esempio “patologico”dei
sistemi loyalist. Esaurita l’indagine dei modelli giuridici nazionali, l’analisi
non si pone l’obiettivo di astrarre una sintesi valida a livello regionale, dal
momento che la disomogeneità sostanziale renderebbe tale operazione
concettualmente sbagliata. Diversamente, vengono indagati alcuni aspetti
generali riscontrabili sia nei Paesi del Mashreq che in quelli del Golfo, tra cui
7
la matrice culturale e religiosa delle censure nazionali, i meccanismi di
controllo diretti e indiretti, le lacune normative, la concezione funzionale dei
diritti individuali, la mancata tutela del profilo strumentale e la generica
violazione delle Convenzioni siglate in sede internazionale.
Il quinto capitolo è interamente dedicato alla panoramica del settore
televisivo sino alla rottura del monopolio dell’informazione alla vigilia della
Guerra del Golfo. Analizzata l’infanzia televisiva araba e quindi l’uso politico
e mobilitativo della televisioni di Stato, l’interesse si concentrata sui progetti
di cooperazione regionale risalenti agli anni ’80, per poi interrogarsi sulle
cause del fallimento dei progetti regionali sullo scambio di news e la libera
circolazione dei flussi informativi. Infine, prima di affrontare l’avvento del
satellite nel mondo arabo, seguono alcuni cenni sull’orientamento trans-
nazionale del broadcasting arabo, le peculiarità del mercato audio-visivo
regionale e le principali tendenze riscontrabili nei pubblici arabofoni.
L’ultimo capitolo pone invece l’accento sul potenziale emancipatorio delle
nuove tecnologie dell’informazione, in particolare sul ruolo giocato dai nuovi
network satellitari nella formazione di un’opinione pubblica pan-araba, una
nuova sfera pubblica esibita sul pulpito satellitare e mediata dai media stessi.
Vengono esaminate le circostanze storiche che hanno catalizzato l’ingresso
della tecnologia satellitare, le ripercussioni dei nuovi format introdotti dal
satellite sulla programmazione delle televisioni terrestri nazionali, il
ripensamento della politica mediale censoria di cui la nuova tecnologia aveva
sancito il senso anacronistico e autoritario e infine la creazione di un nuovo
ordine mediale regionale all’insegna del duopolio egiziano e saudita. In
quanto énfant terrible tra i canali all news arabi, si è scelto di focalizzare lo
sguardo sulla qatarense Al Jazeera, in quanto mediatore culturale privilegiato
del dibattito politico pubblico pan-arabo e apripista nel processo di
cambiamento democratico promosso dalle nuove televisioni arabe.
Se il pensiero arabo-islamico ha tradizionalmente definito l’autoritarismo
come la norma nella prassi politica e la democrazia come l’eccezione, anzi
più spesso come uno strumento per perseguire una causa autoritaria, le nuove
tecnologie sembrano offrire nuove possibilità al processo di liberalizzazione
politica e di apertura democratica del mondo arabo. Imponendo al mondo
8
politico una visibilità impensabile prima dell’avvento delle televisioni trans-
nazionali, i canali satellitari lo hanno reso più vulnerabile e più dipendente dal
dibattito politico che prende forma nell’arena virtuale degli schermi televisivi.
Il maggior grado di partecipazione da parte della società civile promosso dal
satellite costringe il processo decisionale a un maggior grado di trasparenza,
mentre al contempo l’espandersi della sfera pubblica, il suo fuoriuscire dal
segreto dei “palazzi”, permette agli attori non-politici di espandersi tramite
circuiti informali, alle spese dell’autorità politica.
Alla luce del cataclisma socio-politico innescato dalla televisione satellitare
nel mondo arabo, lo studio si conclude con una riflessione sulla necessità di
un’implementazione normativa sui media a livello regionale, al fine di
metterli al riparo dalle influenze dei governi e dalla minaccia della
strumentalizzazione in chiave anti-occidentale da parte della contestazione
islamista.
Ciò che l’analisi suggerisce è che perché i nuovi media costituiscano vettori
di cambiamento in senso democratico, in grado di incanalare le pressioni e le
domande di libertà della società civile e di promuovere la piena attuazione dei
diritti civili, politici, sociali e culturali, occorrono istituzioni legali e strumenti
di garanzia in grado di trasformare il dibattito virtuale del satellite in
partecipazione concreta ai processi decisionali.
Con l’appendice monografica posta al termine dell’analisi si è infine voluto
dedicare uno spazio alla recente crisi politica tra occidente europeo e mondo
arabo-islamico innescata dalla pubblicazione di vignette satiriche sul Profeta
Maometto giudicate espressione di un aperto sentimento anti-islamico e anti-
arabo. “Quando l’attualità supera la teoria”. Questo è il titolo accordato alla
sezione monografica, a indicare come le previsioni e le preoccupazioni
inerenti al futuro della libertà di espressione e a quella dei media espresse nel
cap. 6 abbiano trovato un riscontro concreto, dimostrando ancora una volta
che nel mondo arabo il problema dei diritti e del pluralismo informativo
risiede nella totale assenza di infrastrutture legali in grado di impedire
l’ingerenza e la strumentalizzazione politica da parte dei regimi e dei gruppi
islamismi.
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Capitolo I
Religione e stato: din wa dawla
1.1 L’Islam e la concezione del potere
“Sessanta anni sotto un Imam ingiusto
sono meglio che una notte senza Sultano”
Prima di analizzare i caratteri ricorrenti del modello di Stato arabo, occorre
fornire qualche nozione preliminare riguardo la concezione islamica classica
dei rapporti di potere.
Il primo postulato è che nell’ideologia islamica l’autorità suprema
appartiene soltanto a Dio. Dal momento in cui il potere politico è derivato
dalla sovranità divina, l’autorità investita dagli uomini si manifesta
unicamente nella potestà di interpretare la legge divina del dettato Coranico
(‘ulamā ) e nel dovere di garantirne l’applicazione per i governanti. Per
quanto il Corano non fornisca una definizione univoca di potere legittimo e
non detti regole esplicite per la gestione della “cosa pubblica” (siyāsa
shar’iyya
2
), in due versetti
3
dà indicazione dei fondamenti del buon governo:
la giustizia dei governanti nei confronti del popolo congiunto all’impegno
nell’ «ordinare il bene e proibire il male»(Corano,3,104 e 110), da cui deriva
lo speculare dovere di ubbidienza (ta’a) dei sudditi
4
. Si delinea quindi una
2
Il termine si riferisce al potere amministrativo o «l’arte di governare». Definizione tratta da G.
Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano, Einaudi, 2002, p. 281. Bettini fa riferimento al termine
nell’accezione più specifica di “ attività amministrativa di governo,produttrice di norme giuridiche
sciaraiticamente ispirate”, in R. Bettini, Sociologia del diritto islamico, FrancoAngeli, 2004, p. 16.
3
Si tratta in particolare del celebre versetto dei potenti ( Corano,4,58-59) e di un’altra breve indicazione
(Corano,42- 38).
4
In realtà si fa riferimento anche all’obbligo di consultazione (shura), ma in questo fase introduttiva si
ritiene non sia opportuno approfondire.
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sorta di patto tra chi detiene il potere e chi è governato: giustizia e pace
sociale in cambio di sottomissione e rinuncia ad alcune libertà individuali.
Una prima osservazione è che la dottrina politica classica sembra porre
l’accento sulla legittimità e sulla giustizia del governo piuttosto che sulle
libertà dell’individuo. Il Corano in effetti non indica fino a che punto
l’autorità possa spingersi e dove abbiano inizio le libertà individuali. Inoltre,
dal momento in cui le prescrizioni coraniche si limitano a porre come
condizione essenziale del buon governo la realizzazione della volontà
legislativa divina, dichiarano implicitamente legittimo il potere di fatto, perciò
qualsiasi governo (anche dispotico) che sostenga la sharī’a.
Accanto all’obbligo di attuazione della legge di Dio esiste un’ulteriore
presupposto all’esercizio dell’autorità, che rende il potere intrinsecamente
vulnerabile, sfidabile, in quanto bisognoso di ri-legittimarsi continuamente:
l’accoglienza (bay’a) e il consenso della comunità (ijma’), che si traduce nel
patto di obbedienza (ta’a) nei confronti del leader
5
.
Un’ultima osservazione preliminare, indispensabile per comprendere la
dialettica tra potere sovrano e popolo, riguarda il fatto che nel mondo
musulmano i rapporti di potere vengano sempre concepiti in termini
orizzontali. Nella civiltà islamica potere e status non derivano dalla nascita,
dal rango e dalla nobiltà di sangue
6
come nella dottrina religiosa cristiana,
quanto dalla vicinanza al centro del potere. Il movimento e la stessa rivolta
sociale e politica avvengono sempre tra un “dentro” e un “fuori” e non tramite
una spinta dal basso che si ripercuote sulle sfere alte.
Per questo motivo il concetto di limite, o meglio di frontiera (hudud),
risulta essere alla base della società musulmana: il mantenimento dell’ordine
è possibile soltanto grazie al riconoscimento di frontiere che separino dal
5
Le parole imam e califfo significano entrambe «leader della comunità musulmana», ma mentre la
prima si basa su una concezione spaziale ( imam è la persona che ”sta davanti” occupando il posto di
guida della preghiera), la seconda chiama in causa un concetto di natura temporale. Il Khalifa è infatti
il governatore dei credenti che succede al Profeta. La debolezza della figura dell’ imam deriva dal
fatto che l’ imam risulti giusto (‘adil), quindi meriti l’obbedienza dei fedeli, soltanto se vulnerabile e
sfidabile; nel corso dell’ analisi vedremo come la dissidenza politica nei secoli si esprima sempre
fondamentalmente nella condanna violenta del leader. Un’altra osservazione riguarda il fatto che nella
religione islamica la presenza di un leader forte è sentita come una necessità; in altre parole,
l’esercizio dell’autorità costituisce un dovere religioso. Ibn Hanbal riporta nel Musnad un passo del
Profeta che dice: “Quando tre uomini si trovano nel deserto, non è permesso loro di essere senza un
capo”.
6
Vedi G. Vercellin, op. cit..
11