2
solo legati a concetti fantascientifici), strutturali o semantici, sia quelle formate con
elementi di derivazione grecolatina. Molto spazio è stato dedicato ai forestieriesmi
(inglesismi, francesismi, ma anche arabismi), nonché alle espressioni idiomatiche e alle
metafore, alcune delle quali originali, e alle onomatopee, di cui l’autore fa largo uso. Per
la traduzione, come si vedrà leggendo il quinto capitolo, si è ricorsi a numerosi dizionari
e glossari (una sezione è dedicata ai termini scientifici o pseudoscientifici, naturalmente
presenti nella narrativa di Barreiros, che riesce a scrivere sia fantascienza soft,
“umanistica”, sia fantascienza hard, ricca cioé di termini e concetti tecnologici), a testi
di fantascienza e di letteratura mainstream, alla lettura di fumetti e alla visione di
produzioni cinematografiche. Un ruolo importante ha svolto lo stesso autore, che ha
fornito spiegazioni per diversi termini o espressioni altrimenti non facilmente
comprensibili.
I numerosi esempi segnalati nel quinto capitolo non possono non far apprezzare lo
stile di J. Barreiros, la cui fantasia ha messo talvolta a dura prova i tentativi di
traduzione, ma ha anche dato molte soddisfazioni, in particolare quando si trattava di
rendere giochi di parole e allitterazioni; si spera, inoltre, che destino la curiosità per la
lingua di un genere troppo spesso sottovalutato come quello della fantascienza, che può
invece essere una fonte di piacere anche dal punto di linguistico.
Capitolo I: Una storia della letteratura di fantascienza
Premessa
Nel presente capitolo tenterò di delineare una storia della letteratura di fantascienza
che renda l’idea dell’enorme mole di testi e temi prodotti nell’ambito di un genere che
affonda le sue radici in più terreni e che ha sviluppato ramificazioni intricate,
impossibili tuttavia da seguire nel corso della trattazione.
Si cercherà di citare i nomi più importanti e i titoli più significativi, in particolare
quelli che ci sembrano più utili per la comprensione della narrativa di João Barreiros,
senza la pretesa quindi di scrivere una vera “storia della fantascienza”.
Fra i testi consultati, si sono rivelati particolarmente utili: Storia della fantascienza,
di Jacques Sadoul ([1973] 1975); Guida alla fantascienza, di Vittorio Curtoni e
Giuseppe Lippi (1978); Storia del romanzo di fantascienza, di Fabio Giovannini e
Marco Minicangeli (1998); la Scienza della fantascienza, di Renato Giovannoli (1991);
Cosa leggere di fantascienza, di Inisero Cremaschi (1979); L’immaginazione
tecnologica. Teorie della fantascienza, a cura di Adolfo Fattori (1980); i brani
introduttivi di Riccardo Valla all’antologia I figli dello spazio curata da Ben Bova
([1973] 1977); Storia della fantascienza. Le origini (dal 1800 al 1925), curata da Ugo
Malaguti e Luigi Cozzi (1980), in particolare le traduzioni ivi contenute dei saggi
“Science Fiction: From its Beginning to 1870” di Robert Philmus (1976), “The
Emergence of the Scientific Romance, 1870-1926” di Thomas Clareson (1976). La
bibliografia finale riporta tutti i testi consultati.
1. La protofantascienza
Non è semplice stabilire il momento in cui nasce la fantascienza. Le posizioni dei
critici in merito alla data di nascita della fantascienza sono molto varie.
Nella raccolta di saggi L’immaginazione tecnologica (1980: 3), Aldo Fattori scrive
che il punto di riferimento per una “presunta” fantascienza antica è la Storia Vera del
tardo romanziere greco Luciano di Samosata (125-185 d.C.), autore che viene
considerato un degno precursore, ad esempio, anche da Jacques Sadoul nella sua Storia
della fantascienza (1975: 19) e da Kingsley Amis in New Maps of Hell (1960, in
Fattori: 10; 1962: 33-35, versione italiana). Il protagonista del romanzo viene infatti
trasportato da un vortice e dai venti fino alla luna, dove scopre esservi un’Utopia, e
assiste a una battaglia (comica) fra Lunari e Solari. Un’altra opera citata fra le
antesignane della fantascienza è The Man in the Moone or a Discourse of a Voyage
Thither by Domingo Gonsales del vescovo anglicano Francis Godwin (1639). Il saggio
di Robert Philmus “La storia di un’evoluzione” (1976, in Cozzi 1980a: 37-53) elenca
quest’opera fra i testi precedenti alla costituzione della fantascienza che contengono
elementi che rientreranno in essa, come l’estrapolazione di conoscenze scientifiche del
tempo: Philmus lo considera infatti il primo libro che conferisce a un viaggio alla luna
una qualche credibilità scientifica, avvalendosi dei principi di Galileo e di Keplero,
nonostante l’espediente fantastico della macchina volante trainata da oche selvatiche
che trasporta Domingo Gonsales sulla luna.
Sia Sadoul (1975) che Philmus ([1976] 1980) citano anche le Histories comiques des
états et empires de la lune et du soleil di Savinien Cyrano de Bergerac (1651), che
tecnicizzano il mezzo di trasporto per la luna, e i Gulliver’s Travels di Jonathan Swift
(1726 e 1735), in particolare nel terzo libro, quando si tratta delle scoperte degli
astronomi dell’isola volante o galleggiante di Laputa, una sfera che viene spostata sul
4
territorio di Balnibarbi per mezzo di una calamita. Le considerazioni scientifiche si
uniscono qui anche a una vocazione profetica: gli astronomi di Laputa scoprono le due
Lune di Marte (Deimos e Phobos), che nella realtà sono state scoperte 151 anni dopo,
nel 1877, dall’astronomo Asaph Hall.
Philmus ([1976] 1980) rintraccia in numerose opere antiche alcuni dei topoi che si
ritroveranno nella fantascienza, come la descrizione di utopie e anti-utopie, di razze
perdute, le catastrofi, oltre ai viaggi nell’ignoto. Il secondo libro dell’Utopia di
Tommaso Moro (1516) descrive l’isola di Utopia, la cui società è divisa in 54 città stato,
governate da principi di giustizia, razionalità e tolleranza, laddove il primo libro
descrive un’Inghilterra in cui si muore impiccati per furto mentre allo Stato è lecito
appropriarsi della terra, ossia una prima anti-utopia. Il topos dell’utopia ritorna nella
comunità monarchica e patriarcale dell’isola di Bensalem descritta in The New Atlantis
di Francesco Bacone (1627), in cui, fra le altre cose, opera un centro di ricerche
scientifiche, i cui ricercatori, ad esempio, cercano di imitare il volo degli uccelli e di
costruire navi sottomarine. Il dialogo Civitas Solis di Tommaso Campanella (1623)
descrive un’altra comunità utopica, retta dalla Metafisica, aiutata da Potenza, Saggezza
e Amore, in armonia con il cosmo (le mura della città sono sette come i pianeti allora
noti), un ambiente eutenico (ogni muro riassume figurativamente una scienza), in cui gli
abitanti praticano l’eugenetica. Anche la Storia Vera di Luciano e le storie comiche di
Savinien Cyrano de Bergerac rappresentavano delle utopie, ma i toni erano satirici.
Franco Ferrini sostiene invece, ne La musa stupefatta e ne Il ghetto letterario (1974 e
1976, cit. in Fattori 1980: 14-22), che sia un errore considerare come illustri
predecessori della fantascienza opere quali la Storia Vera di Luciano di Samosata e i
viaggi sulla Luna del ‘600, come quello dell’Orlando Furioso, che hanno una matrice
fiabesca, o quello descritto nel Somnium di Keplero (1634), che avviene in sogno, per
mezzo di demoni e non di congegni meccanici.
A queste considerazioni si possono aggiungere quelle di Jean Gattégno, che in 1818
(1977, cit. in Fattori 1980: 5) scrive che Cyrano de Bergerac, pur servendosi delle
scoperte di Galileo e del magnetismo, faceva tuttavia un ricorso occasionale a
spiegazioni scientifiche, apprezzate per il loro valore polemico nei confronti
dell’ideologia dominante, di ispirazione ancora medievale; non apportava alcuna
innovazione rispetto alle utopie di Campanella o di Tommaso Moro, come del resto non
accadde con la satira utopistica dei viaggi di Gulliver.
1.1 L’influenza del gotico
1.1.1 Il Frankenstein di Mary Shelley
Giovannini e Minicangeli (1998) ricordano invece che molti studiosi rintracciano nel
periodo della rivoluzione industriale il momento in cui cominciano a delinearsi con
forza i canoni del genere. Ad esempio, per Franco Ferrini (1970, cit. in Fattori 1980:
119-122) la fantascienza nasce da da una tipizzazione dell'immaginario originale, basata
su una concezione della scienza e della tecnica tipica della nostra epoca, che non si
riscontra nemmeno nella società illuminista del ’700, dominata ancora dalla magia e
dalla stregoneria.
Giovannini e Minicangeli (1998: 11) elencano per sommi capi alcune delle scoperte
e invenzioni scientifiche e tecnologiche che si ebbero a partire dal 1750: il motore a
vapore di James Watt (1765), le prime ascensioni in pallone dei Montgolfier (1783), il
primo bastimento a vapore (1827), le prime ferrovie (1825), il motore elettrico di
Faraday (1822). Citano anche un trattato, Zoonomia, di Erasmus Darwin (1794-1796), il
5
nonno di Charles Darwin, un’opera fondamentale per comprendere la genesi del
romanzo Frankenstein Or The Modern Prometheus di Mary Wollstonecraft Shelley
(1818), considerato da molti il primo romanzo di fantascienza. Per alcuni studiosi,
infatti, come Jean Gattégno (1977), Brian Aldiss (1973), E. S. Rabkin e E. Scholes
(1977), una data fondamentale per la fantascienza è il 1818, in coincidenza della
pubblicazione di questo romanzo. Giovannini e Minicangeli (1998: 12, 41-42) sono
d’accordo: la fantascienza nasce sotto l’influenza della moda gotica. Mary Shelley ha
concepito il suo romanzo fondendo il romanzo gotico e la teoria dell’evoluzione: si è
allontanata dalla scuola orrorifica sostituendo la scienza al sovrannaturale, con
l’intenzione — espressa nella prefazione del romanzo — di presentare la sua storia non
come una storia del sovrannaturale, bensì come una narrazione sul potere della scienza,
sulla possibilità, non esclusa da Darwin e da alcuni fisiologi tedeschi, di creare un essere
e le considerazioni sociali che si potevano fare in merito, rielaborando allo stesso tempo
il mito faustiano in chiave evoluzionistica. Victor Frankenstein, studente di chimica
presso l’università di Ingolstadt, conduce un esperimento che, tramite l’assemblaggio di
pezzi di cadaveri con i ferri chirurgici, gli permette di fabbricare una “creatura”, che
“anima” tramite una scarica elettrica. Victor tuttavia pensa di aver fallito e abbandona
tutto, salvo poi ritrovarsi la creatura nella propria vita: una persona dotata di libero
arbitrio, che ha dovuto vivere diverse esperienze negative a causa del suo aspetto
mostruoso e che ha letto il diario di suo “padre”, sentendosi abbandonato da lui. Le
conseguenze saranno tragiche. L’opera si presenta come un racconto filosofico e
sentimentale; il ricorso alla scienza (riferimento agli esperimenti di Galvani sulle rane)
concerne più le sue conseguenze che la sua reltà concreta (non viene detto nulla sul
procedimento di creazione del mostro).
Il sottotitolo del romanzo permette di notare l’importanza riconosciuta alla allora
nascente scienza moderna (all’università Victor Frankenstein resta affascinato dalla
chimica, dalla fisica e dalla biologia), fondata su una conoscenza accessibile a tutti,
nonché la ripresa del mito prometeico (incarnato da Victor Frankenstein; si noti che il
suo “prodotto”, nel romanzo, non ha un nome, ma viene genericamente chiamato
“creatura”). Gattégno (1977, cit. in Fattori 1980: 3-8) nota come Mary Shelley seppe
innovare le ricette del racconto fantastico, aggiungendovi l’elemento della fede nella
scienza (nonostante la morale dell’opera; è vero che la creatura arreca distruzione, ma
non sarebbe stata “creata” se non vi fosse fiducia nelle possibilità della scienza). Senza
questo elemento nuovo, non sarebbe stata possibile la fortuna delle storie successive di
robot e androidi. Gattégno sostiene che sia proprio con questo romanzo che la figura del
robot entra per la prima volta in un’opera narrativa, la quale si è impressa nella memoria
del pubblico. Per la narrativa si offriva una nuova fonte di soggetti, tratti dai progressi
della conoscenza scientifica e dalle sue applicazioni tecniche. Analogamente a quanto
sostenuto da Giovannini e Minicangeli (1998: 12), Gattégno ricorda l’introduzione
all’opera scritta da Mary Shelley, che dimostra quanto fosse consapevole di non aver
scritto semplicemente un racconto del terrore: aveva scelto l’idea su cui si fondava
l’avvenimento narrato (che secondo Darwin e alcuni fisiologi tedeschi, presentava una
certa plausibilità) per la situazione nuova che permetteva di sviluppare e per la
possibilità che offriva di rappresentare le passioni umane da un punto di vista molto più
vasto di quello di un resoconto di eventi reali. Anche Renato Giovannoli (1991: 7-10)
considera il Frankestein uno dei racconti fondativi del sottogenere fantascientifico
“storie di robot”. Per Robert Philmus ([1976]1980) il Frankenstein di Mary Shelley
indica sì un’affinità tra la fantascienza e il romanzo gotico, ma anche con il romanzo
psicologico, il romanzo richardsoniano e quello hawthorniano.
6
Analogamente, Vittorio Curtoni e Giuseppe Lippi (1978: 19) scrivono che la
mediazione del Frankestein è importante, ma non altrettanto della tradizione americana
di autori quali Nathaniel Hawthorne, Edgar Allan Poe, Ambrose Bierce.
Radici della science fiction sono state trovate nell’opera di Poe, Melville e
Hawthorne anche da Carlo Pagetti, quando si è occupato della fantascienza nella
letteratura americana ne Il senso del futuro (1970).
Anche David Ketterer (1974, in Fattori 1980: 130-134), affermando che alcune delle
caratteristiche della fantascienza sono presenti nella letteratura americana in generale, fa
i nomi di Herman Melville, A. Bierce, Hawthorne, E.A. Poe, Fitz-James O’Brien, E.
Bellamy e Mark Twain.
Thomas Clareson (1976, in Cozzi 1980a: 220-240) riconosce il debito della
fantascienza embrionale nei confronti di opere quali il Frankenstein di Mary Shelley,
aggiungendo tuttavia i nomi di Fitz-James O’Brien, Edgar Allan Poe, Ambrose Bierce,
Rider Haggard, Jules Verne e Herbert George Wells.
Sadoul (1975: 20) ritiene esagerata, invece, l’opinione di considerare il Frankenstein
la prima opera del genere fantascientifico, e sottolinea l’importanza di altri autori, tra i
quali Rider Haggard, Edward Bellamy, E.A. Poe, J. Verne e H. G. Wells. Anche
Giovannini e Minicangeli (1998: 13-15) sottolineano il ruolo di Poe, Verne e Wells.
Sarà opportuno nominare qualche opera di alcuni degli autori citati, soprattutto gli
ultimi tre, considerati “i tre grandi avi della fantascienza” (Sadoul 1975: 22).
1.2 Edgar Allan Poe
Edgar Allan Poe fu uno dei primi a scrivere racconti brevi, la forma preferita dalla
fantascienza delle riviste popolari (pulp magazine), a cui fornì ispirazioni e temi
(Giovannini e Minicangeli 1998: 13).
Si legge in Cozzi (1980a: 58) che la fantascienza americana è iniziata con la novella
“The Unparalleled Adventures of Hans Pfaal” di Edgar Allan Poe (1835),
1
il quale ha,
fra i tanti meriti, quello di aver suggerito la possibilità di scrivere delle narrazioni
plausibili presentando ampliamenti delle scienze solo immaginati. Nella novella, un
fabbricante di mantici olandese, per sfuggire ai creditori, costruisce un aerostato (si noti
che, all’epoca di Poe, non erano stati ancora inventati i palloni aerostatici) e sale fino
alla luna. La novella riporta sensazioni e osservazioni fatte durante il viaggio ed è ricca
di dettagli tecnico-scientifici e pseudoscientifici. Alla fine Pfaal annuncia di aver
soggiornato in una città di minuscoli seleniti e promette un resoconto.
Due mesi dopo la pubblicazione, appaiono alcuni articoli intitolati Discoveries in the
Moon Lately Made at the Cape of Good Hope, spacciati per resoconto giornalistico da
Richard Adams Locke, che poi confessò lo scherzo: in essi, l’astronomo Herschel, che
aveva davvero fatto trasportare un telescopio al Capo di Buona Speranza, scopriva
l’esistenza di una civiltà sulla Luna, con almeno tre specie umanoidi, di cui due alate.
In una lettera di Poe, citata da Cozzi, l’autore americano critica questo falso, che
riteneva ispirato alla sua novella, e anche Man in the Moone di Francis Godwin (1639)
perché la narrativa di questo genere doveva, a parer suo, mantenere un grado di
verosimiglianza scientifica.
Cozzi (1980a: 60) sottolinea l’importanza di quest’idea e ricorda che la traduzione di
Hans Pfall in francese, ad opera di Charles Baudelaire, ha ispirato a Jules Verne De la
Terre à la Lune (1865), in cui gli esploratori vengono lanciati sulla luna con un
gigantesco cannone. Cozzi aggiunge inoltre, riportando anche l’opinione della
traduttrice Roberta Rambelli, che la minuzia dei particolari scientifici di Poe ha ispirato
1
Apparso per la prima volta su The Southern Literary Messenger, Jun. 1835 (fonte: Cozzi 1980a).
7
molti autori di fantascienza e può essere considerata in parte responsabile della nascita
di quella che lo scrittore ed editore Frederik Pohl ha definito gadget fiction ovvero la
narrativa fantascientifica che descrive in maniera assai minuziosa gli apparecchi
tecnologici adoperati dai protagonisti.
2
Oltre a Hans Pfall, si può citare “The Facts in the Case of Mr. Valdemar” (1845),
3
in
cui si ha a che fare col mesmerismo: Valdemar, moribondo, dà il suo assenso ad un
esperimento volto a verificare l’efficacia dell’ipnosi (o sonno mesmerico) nel
contrastare la morte. Viene mesmerizzato, restando in uno stato di animazione sospesa,
in cui può anche rispondere alle domande del dottore: dalla lingua gonfia e nerastra del
cadavere esce infatti la sua voce spaventosa. Ma il corpo, dopo sette mesi, si è
orridamente putrefatto e alla fine Valdemar chiederà di poter morire.
Poe affronta anche il tema del paradosso temporale, sperimentando un confronto a
ritroso fra due epoche in “The Thousand and Second Tale of Sheherazade” (1845),
4
racconto presentato come un’appendice alle Mille e una Notte e che riguarda un viaggio
di Sinbad nel 1850. L’autore mostra la meraviglia di Sinbad di fronte a quelle che per
lui sono stregonerie, ovvero tutte le invenzioni e scoperte dell’epoca, dalle navi a vapore
ai cannoni, dall’elettricità alla fotografia, dal telegrafo alle scoperte astronomiche,
reinterpretate dal punto di vista di Sinbad. Sono inoltre numerosissimi i riferimenti alla
botanica, alla zoologia, alla biologia. In questo modo, Poe fa comprendere il valore
attribuito alla scienza dell’800.
Uno dei primi racconti del futuro, si legge sempre in Cozzi (1980a: 140), è “Mellonta
Tauta” (1849).
5
Una viaggiatrice descrive la vita del ventinovesimo secolo, nell’anno
2848, in cui gli uomini si spostano nei cieli in mongolfiera, solcano i mari in
imbarcazioni ad elica, comunicano per mezzo di un cavo telegrafico transatlantico
galleggiante, l’individuo non conta se non come parte di un aggregato, la democrazia è
disprezzata, la guerra e la pestilenza non sono temute in quanto la morte di una miriade
d’individui è considerata un vantaggio per la massa, la Luna si è scoperta abitata da
alieni, le stelle hanno svelato i loro segreti. Questa cronaca del futuro è ricca di ironia ed
è una satira del presente di Poe: nel futuro, gli uomini fraintendono molte delle
tradizioni passate (contemporanee a Poe). La narratrice, che scrive ad un’amica, dice ad
esempio: “Tempora mutantur... e scusami se cito l’etrusco.” Le storpiature di nomi e i
travisamenti sono deliranti: “sembra che molto, molto tempo fa, nella notte dei tempi, ci
fosse un filosofo turco (o forse indù) chiamato Aries Tottle” è solo uno dei tanti
esempi.
6
2
Si tornerà sulla gadget fiction: v. in particolare sez. 2.1.2 e 7.
3
American Whig Review, Dec. 1845 (fonte: Vegetti et alii).
4
Godey's Lady's Book, Feb. 1845 (fonte: Vegetti et alii).
5
Godey's Lady's Book, Feb. 1849 (fonte: Vegetti et alii).
6
Le due frasi sono tratte da Cozzi 1980a: 141-149, in cui è possibile leggere la traduzione di “Mellonta
tauta”.
8
1.3 Altri precursori o mediatori: N. Hawthorne, F. O’Brien, A. Bierce, E. Bellamy
Un altro scrittore che ha inserito l’innovazione scientifica in alcune sue opere è
Nathaniel Hawthorne, che ben rappresenta l’approccio meno ottimistico.
Il testo di Hawthorne più noto come appartenente alla paleofantascienza è
“Rappaccinni’s Daughter” (1844),
7
in cui uno scienziato sottopone sua figlia ad un
esperimento fin da piccola, nutrendola di piante velenose. Si tratta della prima storia
americana sul tema dei mutanti e delle alterazioni genetiche; può essere considerato
pertanto un archetipo della letteratura di fantascienza, anche per la spiegazione
fantascientifica data alla fine (Cozzi 1980a: 90, 106). Per il resto, si tratta di una storia
che combina elementi della storia d’amore romantica con ingredienti gotici.
Cozzi (1980a: 176) riporta l’opinione di James Gunn in The Road to Science Fiction:
From Gilgamesh to Wells (1977) secondo cui “forse il primo racconto della fantascienza
moderna” è il lavoro più noto dell’irlandese Fitz-James O’Brien, “The Diamond Lens”
(1858)
8
, in cui il ricercatore Linley, seguendo il suggerimento di una medium,
costruisce un supermicroscopio con un grosso diamante, rubato ad un mercante da lui
ucciso a sangue freddo. La potentissima lente gli permette di scoprire in una goccia
d’acqua la bellissima ninfa Animula, di cui s’innamora, al punto da impazzire quando
lei muore all’evaporarsi della goccia. L’idea di una ragazza ultrapiccola e di cui ci si
innamora è stata ripresa varie volte nella fantascienza, per esempio da Ray Cummings
con “The Girl in the Golden Atom” (1919).
9
Il tema principale del racconto “How I
overcame Gravity” (1864)
10
è invece la descrizione minuziosa di un volo suborbitale
tentato da un fisico, che s’ispira ad una macchina giocattolo simile ad un giroscopio.
Thomas Clareson ([1976]1980: 221-222) ha sottolineato come in alcune opere di
Ambrose Bierce la paura venga drammatizzata, ricorrendo ancora alla tradizione gotica,
ma arricchendola di spiegazioni scientifiche, il che rappresenterebbe un primo passo
dalla fantasy alla science fiction. Nel racconto “The Damned Thing” della raccolta Can
Such Things Be? (1893), Bierce sostiene la possibilità dell’esistenza di esseri invisibili
spiegando che, così come esistono suoni non udibili dall’uomo, esistono colori non
visibili, che potrebbero essere rilevati da un chimico. Il romanzo Dr. Heidenhoff’s
Process di Edward Bellamy (1880) è incentrato su una macchina perfezionata da un
medico, per cancellare la memoria del male e purificare il cuore, processo che viene
descritto nei termini delle teorie parapsicologiche e fisiologiche del tempo.
Il racconto “Moxon’s Master” di Bierce (1893)
11
precorre invece le storie robotiche
di Asimov e soffre del complesso di Frankenstein (Cozzi 1980a: 252), ovvero l’automa
che si rivolta contro il suo creatore o comunque che ha un comportamento malvagio,
distruttivo per l’uomo. È il resoconto in prima persona dell’esperienza di un uomo che
ha scoperto il segreto di un suo amico, il Moxon del titolo. Questi, che aveva delle idee
eccentriche sulle piante e sulle macchine (esseri pensanti: la macchina pensa al lavoro
che sta svolgendo, quindi la macchina, quando è in funzione, è viva) gli nasconde di
aver inventato un giocatore meccanico di scacchi (ossia un automa), che il narratore
vede in una notte di pioggia, spiando nell’officina dell’amico, mentre questi gioca una
partita. L’automa, tuttavia, ha un aspetto strano, sembra provare emozioni.
All’improvviso, quando Moxon dichiara scacco matto, l’automa scrolla le spalle e si
agita, dopo di ché mette le mani al collo del suo creatore. Il narratore cerca di aiutare
l’amico, ma si risveglia in ospedale, dove viene a sapere che Moxon è morto in un
incendio.
7
United States Magazine and Democratic Review, Dec. 1844 (fonte: Vegetti et alii)
8
Atlantic Monthly, Jan. 1858 (fonte: Locus).
9
V. sez. 1.6.3. del presente capitolo.
10
Apparso su Harper’s New Monthly Magazine, March 1864 (fonte: Cozzi 1980b).
11
Apparso sempre nella raccolta Can Such Things Be? (fonte: Locus; Cozzi 1980a).
9
Sadoul (1975: 21) ritiene che Edward Bellamy sia il secondo scrittore americano,
dopo E.A. Poe, che si possa validamente considerare tra i precursori della fantascienza.
Nella Storia del romanzo di fantascienza di Fabio Giovannini e Marco Minincangeli
(1998: 65), l’opera Looking Backward 2000-1887 di E. Bellamy (1888) figura per prima
nell’elenco di testi appartenenti al filone dell’utopia e dell’antiutopia nella fantascienza
a sfondo sociale, e viene considerata il progenitore di tante utopie che usano i
meccanismi della fantascienza per mettere in dubbio ideologie e sistemi di valori. Avrà
in H.G. Wells un successore più direttamente legato alla fantascienza, al quale
s’ispireranno le utopie fantascientifiche del ‘900.
Si tratta di un’utopia nel vero senso del termine, razionalista e ottimistica. Un
trentenne di Boston, Julian West, si sveglia nel 2000; dalle sue conversazioni con il
Dottor Leete si scopre il mondo di quest’epoca. Ogni attività dell’uomo è regolata come
se questi fosse una macchina; lo Stato-Nazione dirige la società, basata su
un’organizzazione militare del lavoro, la competizione è assente, l’ordine sociale è
fondato sul buon senso.
L’influenza di Bellamy non è da sottovalutare nemmeno per le future descrizioni del
pianeta più amato dai cultori del genere (Cozzi 1980a: 274). Il racconto che dà il titolo
all’antologia The Blindman’s World and Other Stories (1898) riguarda Marte ed è
intriso di riflessioni astronomiche, combinate con considerazioni filosofiche, ed
imbevuto del cristianesimo dell’autore. Vi si racconta di S. Erastus Larrabee, professore
di astronomia e matematica, appassionato di Marte, e della sua eccezionale esperienza:
una notte, osservando Marte, è svenuto, ma è rimasto sospeso in uno stato di veglia,
durante il quale ha conversato con alcuni marziani. Il dialogo tra il professore e un
marziano è ricco di riflessioni sull’uomo e su Dio. I marziani hanno l’aspetto simile a
quello umano, ma sono molto diversi: sono sereni, sembrano più giovani, hanno il dono
della preveggenza, non soffrono la paura, non si soffermano sul passato, ma solo sul
presente e sul futuro. La scoperta della preveggenza è particolarmente importante, in
quanto il marziano fa notare al professore che tutti gli esseri intelligenti dell’universo
sono stati provvisti di quel dono da Dio, eccetto gli uomini della Terra. Questo fatto
strano è fonte di curiosità per i marziani, che osservano i terrestri. Il marziano spiega a
Larrabee che la preveggenza fa sì che ogni individuo sappia cosa accadrà nella sua vita
e chi incontrerà, ma che questo non rende noiosa la vita, anzi, dà sicurezza, non causa
alcuna paura, rende indifferente la morte. Se gli uomini soffrono, è perché sono troppo
attaccati al passato (anche nella letteratura, fa notare il marziano) e alle esperienze
trascorse con una persona, cosicché al momento di perdere quest’ultima la sofferenza è
forte. Per quanto riguarda l’amore, il marziano spiega che ognuno sogna per qualche
tempo il suo compagno o la sua compagna, sapendo che un giorno la incontrerà.
Quando questo avviene, i due predestinati si riconoscono e si amano per sempre, senza
tradirsi. Ciò contrasta con quanto scritto nelle storie d’amore terrestri. La
predestinazione non viene sentita come un’imposizione. Il marziano asserisce che viene
fatta la volontà di Dio in ogni caso, che sia la vita di un uomo che quella di un marziano
sono prestabilite da Dio; la differenza consiste nel fatto che il marziano conosce la
volontà divina prima degli eventi, mentre l’uomo la apprende dopo.
Il Mondo del Cieco è il telescopio con cui i marziani osservano la Terra. Nel
racconto-dialogo, scritto in una prosa poetica, viene raffigurato il Diverso, secondo la
formula del rovesciamento delle idee e dei modi propriamente umani, ma non viene
negata la possibilità di comunicare, sebbene il marziano dica che raramente si riesce a
comunicare con gli uomini, i quali non hanno sviluppato una forza spirituale tale da
poter viaggiare nei sogni.
10
La descrizione di Marte del racconto è sicuramente entrata nella storia della
fantascienza relativa al pianeta rosso; Bellamy può quindi essere riconosciuto come un
precursore elevato della fantascienza successiva, per esempio dei racconti che
costituiscono le Martian Chronicles di Ray Bradbury (1950).
Si potrebbero citare molti altri autori. Per esempio, nel volume curato da Cozzi
(1980a) vengono riportati numerosi casi di testi paleofantascienfici di autori come Jack
London, Herman Melville, Mark Twain. Tra le numerose opere di paleoefantascienza di
Mark Twain, vogliamo citare il romanzo “Three Thousand Years Among the Microbes”
(1905, ma pubblicato nel 1966),
12
su un uomo ridotto a dimensioni microscopiche che
vive nel corpo di un vagabondo ammalato, la novella “The Comet” (1874),
13
scritta
come un depliant pubblicitario di un’agenzia di viaggio che mette a noleggio una
cometa come charter per un viaggio tra le stelle, il romanzo A Connecticut Yankee in
King Arthur’s Court (1889), che tratta il tema del viaggio nel tempo (un americano si
ritrova tra i cavalieri della Tavola Rotonda) e potrebbe essere considerato il capostipite
dei viaggi temporali allo stesso modo con The Time Machine di Wells (1895). Di
Melville possiamo segnalare il racconto “The Bell-Tower” (1855),
14
ancora gotico, ma
con un automa-campanaro che uccide il suo costruttore, l’architetto del campanile del
titolo, assassino di un operaio, e il racconto “The Tartarus of Maids” (1853-1855),
15
dove compaiono altri automi, che sono giovani donne spersonalizzate, tutte uguali,
dall’aspetto squallido ed emaciato, lavoratrici sfruttate in una cartiera. Anche Jack
London ha scritto vari testi di paleofantascienza, come i romanzi Before Adamo (1906)
e The Star Rover (1915), o la novella “The Unparalleled Invasion” (1914),
16
che
sconcerta per le premonizioni sull’uso di armi batteriologiche nei conflitti su scala
mondiale, utilizzate per mettere in ginocchio la Cina, e che in realtà si collega al tema
del “pericolo giallo” notato, ad esempio, da Thomas Clareson ([1976] 1980: 222-224):
nel primo ventennio del ’900, la tematica più diffusa dei testi protofantascientifici,
secondo Clareson, è legata alla guerra, essendo numerose le speculazioni sulle guerre
future, con due ramificazioni sottotematiche, quali appunto il pericolo “giallo”,
associato ai problemi causati dalle massicce immigrazioni cinesi in America, e un
conflitto con nazioni europee (solitamente contro la Germania o contro la Gran
Bretagna, anche se quest’ultima era normalmente alleata con gli Stati Uniti).
12
In Which Was the Dream?, a cura di J.S. Tucky (fonte: Cozzi 1980a).
13
Fonte: Cozzi 1980a.
14
Putnam's Monthly Magazine, Aug. 1855 (fonte: Vegetti et alii).
15
In The Paradise of Bachelors and the Tartarus of Maids, in Harper's New Monthly Magazine, vol. 10,
April 1855 (fonte: ISFDB; Contento; Locus; http://etext.lib.virginia.edu).
16
McClure's Magazine, Jul. 1910 (fonte: Vegetti et alii).
11
1.4 Jules Verne
Scrivono Giovannini e Minicangeli (1998: 13) che senza dubbio Verne fu uno dei
padri fondatori della fantascienza moderna, perché diede al genere un’identità,
lavorando su un’idea o un’invenzione già esistenti e immergendo la storia in un contesto
avventuroso che doveva però sembrare possibile e facendo del progresso, che celebrava,
un argomento di narrazione.
Le storie d’avventura basate su fatti scientifici hanno il loro progenitore in Jules
Verne, per il carattere “profetico” delle sue opere e l’estrapolazione dei risultati
tecnologici del futuro. Quello di Jules Verne è stato un esempio di narrativa fantastica a
base scientifica, da lui definita “Roman de La Science”. L’origine della frase “romanzo
scientifico” non è nota, ma si applicava già molto prima delle storie di Edgar Burroughs
e di George England chiamate oggi “romanzi scientifici” (Cozzi 1980c: 362); in realtà,
il termine “scientific romance” sarebbe stato coniato nel 1886 per definire un “romanzo
che assorbe in sé elementi significativi della letteratura precedente (il racconto di viaggi
straordinario, il trattato utopico)” utilizzandoli per “esplorare i confini che
dividono/collegano l’ordine supremo delle leggi scientifiche e la follia delle ipotesi e
della loro applicazione alla realtà quotidiana, la rigorosa speculazione e le confuse
aspettative e paure dell’uomo comune”, una finzione assoluta scritta con un linguaggio
narrativo estremamente veridico (Giovannini e Minicangeli 1998: 12-13, citando C.
Pagetti).
Verne fu il primo scrittore a presentare la “narrativa scientifica” come un genere,
distinto sia dalla fantasy sia dalla storia gotica dell’orrore, sia dalle utopie politiche.
Verne era affascinato dalla tecnologia e dal progresso scientifico ed i suoi romanzi,
presentando i risultati delle scoperte del tempo in una cornice avventurosa, ebbero un
successo strepitoso. La sua fantasia gli permise di inventare intrecci avventurosi e
situazioni ricche di colpi di scena, ma presentava le sue storie come possibili e fu, in
effetti, un vero divulgatore, al punto da anticipare molte invenzioni tecnologiche.
L'ottimismo, la fiducia nelle scienze, l’entusiasmo per le scoperte, l’amore per
l’esplorazione e per le sfide, la visione della natura destinata a sottomettersi alla volontà
dell’Uomo sono ingredienti che torneranno nella produzione fantascientifica dei primi
decenni del’900.
Thomas Clareson ([1976] 1980: 226-230) ha passato in rassegna una parte della
sterminata produzione verniana, che rappresenta una novità rispetto alla produzione
dell’epoca poiché la presentazione di dati, scoperte, risultati scientifici, ipotesi, è sempre
in primo piano, legata indissolubilmente a un viaggio avventuroso che consente di
acquisire conoscenze di varia natura, compiuto spesso da uno scienziato
inventore/esploratore, fonte di numerose informazioni.
Ispirandosi al racconto “The Balloon Hoax” (1844)
17
di Poe (di cui si riteneva un
discepolo), Verne scrisse nel 1863 Cinq semaines en ballon, con il quale inizia la lunga
serie dei suoi Viaggi Straordinari: descrive il volo di esplorazione in pallone da
Zanzibar fino all’interno dell’Africa, guidato dal dottore inglese Samuel Ferguson, il
quale ha inventato una speciale fornace per controllare la temperatura dell’idrogeno.
Del 1864 è il celeberrimo Voyage au centre de la terre, romanzo ricchissimo di
particolari e di suspense. Gli esploratori, guidati dal professore tedesco Lidenbrock,
giungeranno al mare nascosto al centro della Terra, dove incontreranno mostri,
dinosauri e uomini giganteschi.
Vi sono molte ragioni che rendono interessante Voyage au centre de la terre: T.
Clareson ne sottolinea la base teorico-scientifica, l’interesse per la geologia e per la
teoria evolutiva tipico dell’800, la fascinazione per il passato preistorico. Verne si
17
Apparso su The Sun Newspaper, 13 Apr. 1844 (fonte: Vegetti et alii).
12
avvale di una teoria “scientifica” contemporanea, che ipotizzava all’interno della Terra
l’esistenza di una fonte di alimentazione dei vulcani, collegati da passaggi segreti.
L’idea della Terra cava era stata avanzata dall’americano John Cleves Symmes nel ’700
(Giovannini e Minicangeli 1998: 42).
T. Clareson sottolinea, inoltre, l’entusiasmo di Verne per l’elettricità, che figura
spesso nei “romanzi scientifici” e il carattere enciclopedico dei suoi romanzi, secondo
l’esempio di “Mellonta tauta” di Poe (1849). Il “gadget” di Voyage au centre de la
terre, ad esempio, è la bobina Ruhmkorff, dal nome del fisico tedesco che quell’anno
ricevette un premio per la sua invenzione, una torcia elettrica. L’elettricità è la forza
motrice del Nautilus di Vingt milles lieues sous les mers (1870), una specie di
enciclopedia di oceanografia, in cui si mescolano gli elementi più disparati, come il
mito di Atlantide, e in cui il sottomarino Nautilus viene attirato in un Maelstrom che
ricorda quello descritto da Poe in A Descent into the Maelstrom (1841a). È sempre per
mezzo dell’elettricità che si produce ogni cosa (dalla coltivazione delle piante alla
preparazione del cibo) sull’isola meccanica de L’Ile à hélice (1895).
Verne non ha descritto solamente viaggi verso mete esotiche terrestri. In De la terre
à la lune (1865) e nel suo seguito, Autour de la lune (1870), ispirati sicuramente a “The
Unparalleled Adventures of Hans Pfaal” di Poe (1835), Verne ha dedicato molto spazio
alla costruzione di un cannone capace di sparare verso la luna un gigantesco proiettile
cavo, contenente tre persone e un cagnetto, a sette miglia all’ora (la velocità di fuga),
anche se il proiettile, deviato da una cometa, non giunge a destinazione, bensì ricade nel
Pacifico, dove una nave della marina militare statunitense raccoglie gli esploratori
(come accade agli astronauti di oggi). Giovannini e Minicangeli (1998: 43) sottolineano
la professionalità di Verne, che si documentava con grande scrupolo: si consultò con un
cugino, professore di matematica, e studiò testi di astronomia dell’epoca. L’opera
anticipa inoltre il luogo comune dell’incontro con pericolosi meteoriti che compare
nella fantascienza spaziale successiva.
Celebrando le scoperte e le macchine ed avvincendo l’immaginazione della gente,
Verne ha contribuito ad alimentare l’interesse e l’entusiasmo per le nuove tecnologie,
che caratterizzano la produzione fantascientifica, frequentemente utopistica, fra il 1870
e il 1920, soprattutto in America, dove proprio in quel periodo sono state realizzate
molte invenzioni. L’ottimismo di Verne combaciava con l’ottimismo delle persone più
aperte alle innovazioni e va inquadrato nel processo che ha portato alla nascita delle
riviste pulp degli anni ’20 e ’30, che rappresentavano una nuova visione dell’uomo,
l’“uomo galattico”, l’uomo che trionfa nell’universo con la tecnologia (secondo una
definizione di Robert Silverberg, citato in T. Clareson 1980: 231).
13
1.5 Herbert George Wells
L’inglese Herbert George Wells è l’altro autore rappresentativo della
protofantascienza che ha influenzato fortemente il genere, in maniera molto diversa da
Jules Verne. Come notato da Philmus ([1976] 1980: 50), la sua produzione è un
compendio di topoi: vi si trovano tutti i temi della science fiction, dal viaggio nel tempo
all’invasione degli alieni, dall’invisibilità alla sperimentazione genetica. Tuttavia, la sua
importanza non risiede tanto in questo quanto nel suo approccio alla scienza e al
progresso. Wells vede la scienza nelle sue ripercussioni sulla società; antivittoriano,
membro della Fabian Society (da cui nacque il partito laburista), egli avvertiva
profondamente le ingiustizie sociali e nella sua narrativa, anche la più avventurosa, si
avverte sempre un monito alla società, una critica al mondo contemporaneo. La scoperta
scientifica non è al centro della storia, ma è sfruttata come mezzo per narrare una storia
che può essere avventurosa ma che spesso è ricca di riflessioni sociologiche. La sua
fantascienza si riallaccia per certi versi alla tradizione utopistica e satirica di Swift,
Stevenson, Defoe.
Wells aveva studiato fisica, chimica, geologia, astronomia e anche biologia con il
celebre Professor Thomas Huxley, il divulgatore dell’evoluzionismo di Darwin, e si era
laureato in zoologia; aveva anche scritto un manuale di biologia e veri e propri saggi su
problemi sociali. I suoi romanzi appartengono alla letteratura d’idee:
18
scritti non tanto
per narrare avventure ricche di suspense, quanto per divulgare idee, proporre diagnosi
lucide delle tendenze sociali, richiamare la società sulle conseguenze delle proprie
azioni. Non condanna la scienza, ma l’uso che ne fa la civiltà, se disgiunto dalla morale,
perché il progresso dell’umanità, se ridotto soltanto ad “un ammasso di folli conquiste”,
finirà per annientare gli stessi creatori. Wells ammonisce l’umanità a non credere di
essere al sicuro, a guardarsi bene dal ritenere il mondo immutabile e adombra le
conseguenze di certi comportamenti sociali e dell’animalità insita nell’uomo. Si avverte
nella sua opera l’idea di una graduale ed inesorabile degenerazione dell’umanità,
derivante dalle sue originali considerazioni sul futuro del capitalismo e del socialismo.
I suoi romanzi possono essere visti come una rielaborazione della teoria
dell’evoluzione di Darwin (Giovannini e Minicangeli 1998: 14). Wells iniziò la sua
carriera collaborando con alcuni giornali, per i quali scriveva articoli scientifici, finché
non gli fu chiesto di sfruttare le sue conoscenze scientifiche per scrivere delle storie, per
le quali attinse alla teorie evoluzionistiche (Giovannini e Minicangeli 1998: 243).
La fantascienza moderna ha inizio, scrive Philmus ([1976] 1980: 50), proprio con il
romanzo The Time Machine di Herbert George Wells (1895), un compendio di topoi, il
capostipite di questo genere.
Il protagonista è uno scienziato che ha costruito un congegno particolare per
viaggiare nel tempo. Il romanzo viene narrato da uno degli amici che l’inventore,
chiamato genericamente il Viaggiatore del Tempo, invita a casa per il pranzo e per
conversare di questioni di varia natura. L’opera si apre, infatti, con una discussione sulle
quattro dimensioni; il Viaggiatore del Tempo espone la sua teoria secondo cui, oltre alle
tre dimensioni spaziali chiamate genericamente lunghezza, larghezza, altezza, esiste la
quarta dimensione del tempo, lungo la quale si muove il nostro inconscio. Si viaggia
lungo il tempo ogni secondo trascorso della vita e anche quando si torna al passato con
la mente. La macchina del tempo viene descritta sommariamente, come una macchina
composta da diversi materiali (nichel, avorio, cristallo, ottone e altro), dotata di un
sedile e di leve per proiettarsi nel passato o nel futuro, nonché di uno speciale orologio.
Il Viaggiatore insiste nel voler condurre delle prove sperimentali, ma nessuno sembra
18
Ugo Malaguti (1980, in Cozzi 1980a: 23) afferma che la science fiction è “fondalmente letteratura di
estrapolazione, creativa e interpretativa del reale; una letteratura, secondo la definizione più accettata,
d’idee.”
14
credergli. Una settimana più tardi appare ai suoi ospiti in uno stato miserevole; dopo
essersi cambiato e rifocillato in perfetta tranquillità, narra il suo viaggio nel tempo. Le
sensazioni descritte sono particolareggiate, anche se il Viaggiatore ammette di non
poterle comunicare esattamente. Sono sensazioni spiacevoli, gli sembra di essere su una
montagna russa, tutto è veloce, vago, indistinto, fin quando non decide di fermarsi e il
quadrante segna l’anno 802.701. Il resoconto del viaggio è altrettanto dettagliato, ricco
di riflessioni sul mondo del futuro, completamente diverso da quello che si era
immaginato leggendo le opere utopistiche, che prevedevano grandi progressi, per
esempio nel campo dei trasporti. Il Viaggiatore lo descrive come se rivivesse le scoperte
che faceva poco a poco, riportando le ipotesi che formulava e che via via modificava. Il
mondo di quell’anno gli appare inizialmente un Eden, un vasto giardino, dove tutto
nasce spontaneamente, abitato dagli Eloi: uomini alti circa 120 cm, simili a bambini,
molto graziosi, ma anche molto fragili, innocenti, allegri, spensierati, indolenti, i quali
dormono in gruppi, in grandi palazzi in rovina, che una volta dovevano essere
riccamente decorati, e hanno un’alimentazione a base di sola frutta. Scoprirà pian piano
che gli Eloi non sono i soli discendenti degli uomini: mentre la superficie è occupata
dagli Eloi, la Terra è popolata da creature che ricordano vagamente gli uomini, ma che
si muovono come scimmie, ragni e topi, pallidissimi, dagli occhi rossi, brillanti nel
buio, timorosi della luce e del fuoco. Il Viaggiatore farà diverse ipotesi e capirà che
l’uomo si è evoluto in due specie, che derivano dalla divisione (egli stesso sa che potrà
sembrare paradossale, ma il suo ragionamento è esposto in maniera spaventosamente
logica) delle classi di lavoratori e capitalisti: col tempo, la sicurezza materiale raggiunta
con la diffusione dell’industria, deve aver addormentato lo spirito d’iniziativa e la
curiosità dell’uomo, nonché la forza, che viene sviluppata soltanto in condizioni di
necessità e precarietà; i ricchi e gli aristocratici a poco a poco devono essere diventati
sempre più fragili e delicati e alla fine i lavoratori sfruttati, abituati alla vita buia delle
industrie, spesso sotterranea, si sono evoluti in maniera diversa, fino a diventare la
nemesi della classe aristocratica. I Morlock, infatti, abitano nel sottosuolo, ove vi sono
macchine, e producono ciò che serve agli Eloi (ad esempio, scarpe e vestiti), per
l’abitudine di produrre e servire (come automi, dice il Viaggiatore); allo stesso tempo
gli Eloi sono come gregge al pascolo, felice, ben pasciuta, ma destinata al macello. Il
Viaggiatore, infatti, capirà con orrore che i Morlock si cibano degli Eloi, nelle loro
scorribande notturne, quando escono da pozzi del terreno. Il protagonista ironizza
amaramente sul fatto che, nel futuro che immaginava tanto progredito, la sua salvezza è
dipesa da una scatoletta di fiammiferi che aveva con sé e da un po’ di canfora, trovata
fra le rovine di un museo: la luce e il fuoco spaventano e uccidono in un incendio molti
Morlock, garantendogli la fuga. I Morlock, che avevano nascosto la Macchina del
Tempo, tendono un agguato al Viaggiatore, ma questi si salva per un soffio e fugge,
proiettandosi nel futuro, ancora più spaventoso: il Mondo sembra dominato da un
crepuscolo eterno, il Sole è sempre più rosso, la Luna non c’è più, i pianeti sembrano
più vicini, domina il silenzio, la Terra è occupata solo dal mare e dalla spiaggia, su cui
però si muovono esseri giganteschi, inizialmente scambiati per scogli, simili a enormi
granchi. Il Viaggiatore tornerà per fortuna nel suo anno, deluso da quanto ha visto,
perché il progresso, se non se ne considerano le conseguenze, e la divisione in ceti
sociali hanno condotto l’uomo alla fine. Quasi non crede di aver viaggiato nel tempo,
ma ha con sé alcuni fiori bianchi di quel tempo, donatigli da Weena, una piccola Eloi
che aveva salvato dall’annegamento e che successivamente era perita in un incendio,
l’ultima notte nell’anno 802.701. I convitati non sembrano credergli, soprattutto i
giornalisti. Il viaggiatore vuole comunque viaggiare ancora nel Tempo e portare delle
prove. Il narratore apre la porta del laboratorio proprio quando il Viaggiatore sta
partendo; viene investito da una corrente d’aria, percepisce un rumore di vetri che si
spezzano, per un attimo scorge una figura spettrale seduta su una massa scura che gira
15
vorticosamente fra scintilli metallici, ma un istante dopo dell’amico non c’è traccia.
Anche la governante, che credeva di trovare lì il padrone, non capisce da quale porta sia
uscito. Purtroppo, il narratore scrive nell’epilogo che da allora sono trascorsi tre anni.
Per suo conforto, conserva quei due fiori bianchi del futuro, che testimoniano quanto
meno che, anche quando l’intelligenza e la forza avranno abbandonato il cuore umano,
saranno ancora vivi la gratitudine e l’affetto.
Il romanzo, che spesso appare quasi come un saggio in merito ai problemi della sua
epoca, descrive un’avventura, pur molto coinvolgente, in termini razionali; il tono è
serio, ravvivato da sprazzi di umorismo (soprattutto quando descrive il comportamento
degli ospiti); la tensione è alta, ma viene comunicata senza scadere nelle descrizioni
truculente che si trovano spesso nelle opere gotiche. Giovannini e Minicangeli (1998:
16) considerano questo romanzo come il riflesso delle inquietudini di una società che
andava incontro a un periodo di grande instabilità; nel romanzo Wells esprimeva la
convinzione che, sul lungo termine, il progresso ha come risultato la degenerazione,
un’idea ben diversa da quella di Verne, che celebrava il progresso. Jean Gattégno (1977,
cit. in Fattori 1980: 7) ha riconosciuto in H.G. Wells la costante del procedimento
estrapolativo: Wells ricorre all’estrapolazione, ovvero individua nella società a lui
contemporanea delle tendenze significative e, aiutato dalle sue conoscenze sociologiche
e tecnologiche e da un’interpretazione personale del darwinismo, scrive un’opera che
riesce a coniugare la letteratura d’idee con quella popolare. Anche le altre opere di
Wells utilizzano costantemente l’estrapolazione, come nota Philmus ([1976] 1980: 51).
Philmus classifica The Invisible Man (1897) come modello estrapolativo-analogico
delle perplessità suscitate dalla scienza moderna, ricollegandolo comunque al mito del
Faust, al Frankenstein e al racconto Strange Case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde di Robert
Louis Stevenson (1886). Lo scienziato Griffin sfrutta la sua padronanza delle leggi
naturali per rendersi invisibile, mediante delle sostanze chimiche: da un lato, traspare
una critica alla società, in quanto è il singolo che avvia i mutamenti (come in The Time
Machine, la società è conservatrice e restia alle novità: alcuni dei conoscenti del
Viaggiatore non gli credono affatto e non danno grande credito ai suoi esperimenti, o
quanto meno non li comprendono); dall’altro lato, tale cambiamento, se fatto in nome di
motivazioni egoistiche e personali, viene condannato. The Island of Dr. Moreau (1896)
è influenzato dalla morale vittoriana e, come nel Dr. Jekyll, mette in guardia dagli istinti
bestiali dell’uomo, ma è uno dei primi testi sugli esperimenti genetici e uno dei primi
esempi di allarme per i rischi di un uso illimitato della scienza (Giovannini e
Minicangeli 1998: 46-47): Moreau è il medico che crea ibridi tra animali e uomini, per
il proprio guadagno personale, riuscendo a dare alle bestie una forma semiumana e
mutare il loro cervello; tuttavia, il protagonista, il londinese Prendick, assisterà al
ritorno dell’animalità in questi uomini-bestie.
Un altro punto fermo della fantascienza è il suo romanzo The War of the Worlds
(1898). Racconta la prima invasione dei marziani, nei pressi di Londra, descritta dal
narratore con un linguaggio quasi giornalistico, inizialmente distaccato; poi la realtà
dell’invasione colpisce anche il narratore, che continua comunque a descrivere quanto
accade e a trarne delle riflessioni. L’azione è intervallata dalle annotazioni sociali, sul
comportamento degli inglesi di fronte ai bagliori che si vedono su Marte, i loro tentativi
di avvicinarsi agli strani oggetti caduti sulla Terra, il panico e la distruzione, e da
considerazioni scientifiche proprie dell’epoca, basate sulla teoria dell’evoluzione,
l’osservazione del sistema solare (in particolare di Marte), le teorie sulle infezioni dei
microbi. I marziani sono simili a grossi polipi, esseri che hanno sviluppato soprattutto la
testa, una massa grigiastra e arrotondata, con la bocca a V rovesciata, due enormi occhi
scuri, privi di fronte e mento, muniti di tentacoli, si spostano su una sorta di mezzo
meccanico a tre piedi; all’inizio sembrano innocui, ma in seguito, grazie a una sorta di
raggi laser, bruceranno persone, boschi e paesi, imprigionando gli uomini e bevendo il