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istituzioni, costituiscono la base per rivendicare la centralità dei problemi della
formazione.
Presupposti sui quali poggia tale rinnovata attenzione sono i mutamenti che caratterizzano
il passaggio verso l’economia (e la società) post-industriale: la globalizzazione, la
pervasività dell’innovazione tecnologica, l’affermarsi di nuove configurazioni d’impresa
(a rete, virtuale), la diffusione dei knowledge workers, lo sviluppo di forme di lavoro
“atipiche” e flessibili, etc.
Ogni attività di formazione è in fondo un contributo al benessere. Il criterio base di una
società del benessere è la soggettività: poi esiste quello di abbondanza, di pluralità, cioè di
democrazia. Tutto questo si basa su una formazione-sviluppo sempre più soggettiva
perché il soggetto è il titolare di un’ipotesi di benessere.
Oggi il rapporto fra individuo e organizzazione è continuamente ridefinito in una logica di
partnership per attivare occasioni e processi di apprendimento capaci di creare valore per
l’individuo e per l’organizzazione. Tali trasformazioni impongono una riconsiderazione
critica ed una revisione di logiche, strutture, meccanismi, metodologie della formazione e
la necessità di guardare con occhi nuovi a questo mondo.
Le imprese non possono non confrontarsi con queste nuove esigenze: dovranno ripensarsi
attraverso strategie d’azione permanenti e non confinate in tempi e spazi particolari e
dedicati. Dovranno imparare a considerare che ogni istante della vita, qualsiasi evento può
essere portatore di apprendimento e di crescita. Dovranno per questo collegare più
fortemente vita privata e vita professionale, conoscenza ed esperienza, teorie e pratiche,
momenti formali e momenti informali, saperi soggettivi e saperi istituzionalizzati, risorse
umane e aspetti gestionali e tutto ciò a ogni livello di responsabilità.
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L’azienda interscambia con il mondo esterno non solo beni e servizi, ma soprattutto le
proprie conoscenze con le conoscenze e i valori di altri soggetti, generando un processo di
crescita culturale interna ed esterna. L’impresa manifesta la propria vitalità mediante una
ricerca costante ed un continuo desiderio di sapere, conoscere, e confrontarsi con gli
“altri”, attraverso i processi aziendali quotidiani.
In quest’ottica, i flussi di comunicazione, interni ed esterni indistintamente, rappresentano
un passaggio non trascurabile nella condivisione e gestione della conoscenza. Non a caso,
all’interno delle imprese, la comunicazione sta diventando sempre di più il fattore che
contraddistingue un veloce e corretto sviluppo aziendale. Si parla di un vero e proprio
universo della conoscenza intesa, in questo contesto, come conoscenza globale di tutti i
processi e di tutte le esigenze interne all’azienda. Ma non solo: l’attenzione è rivolta anche
ai clienti e ai fornitori dell’azienda stessa, perché non si può sviluppare il proprio business
senza tenere conto delle caratteristiche, psicologiche e non, della propria clientela,
orientandosi alla soddisfazione delle esigenze del mercato. La principale fonte di
vantaggio competitivo è dunque insita nel capire le necessità dei clienti, proponendo ed
innovando prodotti e servizi continuamente e più rapidamente dei concorrenti.
Negli ultimi anni l’adeguata gestione del patrimonio di conoscenze è sembrata una strada
possibile per ottenere vantaggi consistenti e duraturi rispetto ai concorrenti. Il management
delle conoscenze si è configurato, quindi, come l’insieme di attività volte a mantenere e
migliorare il livello delle conoscenze delle persone e dell’organizzazione nel suo
complesso, in modo da migliorare la posizione competitiva. L’idea di fondo, ormai
dimostrata, è che la cura e l’accrescimento delle competenze individuali, connesse
direttamente e indirettamente alla competenza distintiva dell’impresa, portino al
miglioramento della performance dell’intera azienda.
Spetta proprio al Knowledge Management, ovvero la disciplina di gestione dei processi
aziendali che considera il capitale intellettuale di un’azienda come fattore di primaria
importanza per conseguire successo sul mercato, gestire questa conoscenza e svilupparla
in modo da renderla fruibile a tutti.
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Eppure, troppo spesso nelle imprese si è ancora lontani dall’impiego diffuso di metodi e
strumenti per la gestione e lo sviluppo del capitale umano che abbiano la stessa
sistematicità con la quale si gestiscono gli altri fattori di produzione. In generale, la
ragione di queste miopie non è semplicemente ascrivibile ai gestori d’impresa: è
sostanzialmente la conseguenza di una mancata definizione di metodi e strumenti di
mappatura, verifica, miglioramento e costante monitoraggio delle competenze individuali.
Metodi e strumenti che sono, peraltro, molto ben sviluppati nella gestione dei diversi
fenomeni produttivi, finanziari, logistici, commerciali. Il numero delle aziende che
considerano (non solo a parole) le proprie risorse umane chiave (spesso una notevole
percentuale dell’intero organico) come un capitale composto da conoscenze e capacità da
tutelare e da sviluppare per garantirsi successo sul mercato dovrebbe aumentare in maniera
esponenziale.
Lo scopo del mio lavoro di tesi è quello di consentire, per certi versi, il superamento di tali
lacune. Essa si pone un obiettivo preciso: presentare in forma sistematica e applicabile i
criteri e i metodi per la gestione del capitale umano e gli strumenti applicativi che
consentano finalmente di trasferire al presidio delle risorse umane la stessa affidabilità del
presidio degli altri citati fattori di produzione.
La tesi non vuole propagandare una moda forse effimera, né offrire una ricetta
universalmente valida come risposta risolutiva alle necessità di adeguare i sistemi e i
processi della formazione alle trasformazioni nell’economia e nelle imprese, ma
semplicemente costituire un’occasione di riflessione per tutti coloro che sono interessati ad
affrontare con spirito critico ed innovativo il dibattito in corso.
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1) LA CONOSCENZA COME “RISORSA” E “PRODOTTO”
“Conoscere le cause ultime, questo è appunto pensare, e solo per questa via le
sensazioni diventano conoscenze e non vanno perdute, ma al contrario si fanno
essenziali e cominciano a irradiare ciò che in esse è contenuto.”
(H. Hesse**)
SOMMARIO: 1.1 Elogio della conoscenza – 1.2 Due approcci diversi. La
suggestione di un’epistemologia soggettivista – 1.3 Conoscenza tacita ed esplicita
– 1.4 La codificazione della conoscenza – 1.5 Potenziale e sfida dei mercati della
conoscenza – 1.6 In conclusione: da “mors tua vita mea” a “vita tua vita mea”
1.1 Elogio della conoscenza
“Il migliore investimento possibile è quello nella conoscenza.”
(B. Franklin*)
Tutte le organizzazioni creano conoscenza. Nella maggior parte dei casi, però, questo
processo è casuale, stocastico e come tale imprevedibile. E’ tuttavia senz’altro possibile (e
diventerebbe, quindi, un dovere) modificare le cose affinché la creazione e la diffusione
della conoscenza escano dall’accidentale, dal fortunoso e dall’episodico per sistematizzarsi
in organizzazioni e processi più razionali ed efficaci.
Questa sistematizzazione e razionalizzazione impegna, oggi, nel mondo, molti miliardi di
dollari nel tentativo di governare, da parte delle aziende e a proprio profitto, l’acquisizione
** Hesse H., Siddartha, Adelphi, Milano, 1985
* www.famousamericans.net/benjaminfranklin
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prima, delle conoscenze ed il loro trasferimento, poi, ai diversi livelli di competenza e
responsabilità gestionali.
Nelle imprese c’è la tendenza a pensare che il bagaglio delle proprie conoscenze sia
sempre disponibile per facilitare l’assunzione di decisioni e realizzare attività operative.
Ma questa convinzione si basa su una triplice ipotesi: che la conoscenza sia comunicabile,
che sia decontestualizzabile e che sia consapevole.
In realtà non bisogna dimenticare che esistono diverse forme di conoscenza: alcune sono
facilmente esplicitabili e comunicabili, altre non emergono facilmente perché legate alle
interazioni fra gli individui, altre ancora sono utilizzate, ma in modo inconsapevole,
proprio perché sono state apprese in modo tale, o, semplicemente, perché ci si è
dimenticati di possederle.
Si è soliti intendere la conoscenza come frutto di un’attività mentale, di un processo
esclusivamente cognitivo. Troppo spesso passa in secondo piano la centralità dell’azione
ai fini della generazione di nuova conoscenza. Le imprese, considerate come sistemi
cognitivi, ovvero come sistemi che producono conoscenza per il raggiungimento dei
propri fini, tendono naturalmente all’inerzia, cioè a confermare la conoscenza che ha
funzionato fino a quel momento. La creazione di nuova conoscenza implica uno sforzo,
un’intenzione, un’azione, appunto, il cui scopo finale è quello di pervenire a un qualcosa
che non è comprensibile sulla base del set di conoscenze attuali: solo in questo modo
l’impresa riesce a vincere l’inerzia e ad integrare nel proprio patrimonio conoscitivo le
componenti nuove.
La base di conoscenza da fornire al soggetto che apprende deve essere codificata in
termini precisi all’interno di uno specifico linguaggio e di un dominio teorico ben definito,
in modo da offrire cardini di riferimento significativi e stabili: dall’altro, però, questa
stessa base deve essere sufficientemente flessibile da consentire l’allargamento dello
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sguardo ad altri contesti e da favorire la capacità di generalizzare quanto già costituito
prendendo in considerazione altre situazioni ed altre problematiche.
Ieri la conoscenza era scarsa e altamente protetta. L’informazione era filtrata dall’alto
attraverso l’imbuto della struttura organizzativa ed era relativamente poca l’informazione
che arrivava alla base aziendale. Molte aziende si limitavano a focalizzare la loro
attenzione sulla produzione manageriale di prodotti tangibili.
Oggi sono numerose le ditte che offrono i propri servizi ai singoli manager e alle aziende
per creare un ambiente di apprendimento diffuso che integri le competenze e la cultura
delle organizzazioni aziendali con le nuove tecnologie, in modo da consentire che la
conoscenza possa divenire ricchezza dell’impresa. La tecnologia fa da catalizzatore per la
diffusione e l’utilizzo delle conoscenze in azienda, magico potenziatore delle possibilità
che la conoscenza offre, amplificando il suo potenziale benefico. Internet, Intranet, Sistemi
Esperti e Reti accelerano la circolazione delle conoscenze rompendo gli schemi spazio-
temporali preesistenti e mettendo in relazione funzioni aziendali e colleghi che poco o mai
si sarebbero parlati nel corso della loro vita professionale.
Ciò non significa che la produzione della conoscenza debba uscire dalla sfera
dell’individuo (o del gruppo) creatore, per diventare appannaggio di organizzazioni, di
strutture socializzate (anche se in parte è così). Si vuole invece dire che nel passaggio di
informazione e di conoscenza che avviene tra lavoratore ed impresa è possibile, e può
essere vantaggioso, frapporre una struttura cognitiva che organizzi modi e forme di questa
trasmissione e di questa fruizione.
E’ un po’ come se le aziende si fossero svegliate una giorno dicendo di sé: “Non esistiamo
per vendere ciò che produciamo. Esistiamo per creare e diffondere conoscenza e il
profitto non è fine a sé stesso: è uno degli strumenti della conoscenza”, accorgendosi che i
propri dipendenti erano depositari di un insospettato sapere tacito che andava esplicitato,
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formalizzato e messo a disposizione per il bene dell’azienda e quindi, in ultima analisi, del
mercato.
Emerge dunque un profilo completamente nuovo del soggetto conoscente: un soggetto che
non può non pensare, così come non può non agire comportamenti; un soggetto che non
può non costruire teorizzazioni su sé stesso e sul mondo e che non può mai smettere di
apprendere e di elaborare conoscenza perché ciò è l’essenza stessa della sua vita. Emerge
un individuo che – così come l’impresa – è sempre ed inevitabilmente un produttore di
conoscenza, in ogni momento della sua vita privata e professionale, anche se non sempre
ne è consapevole. Emerge una persona che non ha bisogno di gratificazioni particolari per
produrre conoscenza: è sufficiente che si veda riconosciuta nella sua autonomia e dignità
di attore conoscente e che non si senta espropriata né degli strumenti né dei risultati della
propria attività cognitiva.
Non a caso, attualmente, la maggior parte delle aziende mettono a disposizione risorse
crescenti più per l’acquisizione di menti che non di braccia (“from brawn to brain”). E’ la
recente “caccia al filosofo” – o al matematico – oggi praticata da molte aziende che nel
passato, ai livelli direttivi intermedi, assumevano soprattutto ingegneri.
Effettivamente, questa nuova realtà richiede, a quanti sono chiamati a ricoprire ruoli di
responsabilità, che essi siano in grado di mettere in campo una propensione al rischio
diversa da quella del passato, che può essere considerata innovativa solo da un’impresa
knowledge based, vale a dire da un’impresa che sia strutturata in modo da fondare la
propria competitività sulla capacità di accogliere, diffondere, condividere e creare
conoscenza al proprio interno, in un interscambio dinamico con l’esterno. In ultima
analisi, a rendere visibile la conoscenza, riuscendo a determinare oggettivamente “che
cosa fa” di un venditore “un bravo venditore”.
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1.1 L’azienda knowledge based
1.2 Due approcci diversi.
La suggestione di un’epistemologia soggettivista
“ Noi siamo quello che pensiamo.
Tutto quello che pensiamo proviene dai nostri pensieri.
Con i nostri pensieri noi costruiamo il mondo.”
(Budda*)
E’ difficile trattare il tema della conoscenza senza definire chiaramente i concetti su cui si
basa, ma sfortunatamente non esiste una base univoca di definizioni comune alle
diverse teorie.
Da sempre il dualismo tra occidente e oriente è stato oggetto di interesse, non solo per
intellettuali e accademici, ma anche per artisti, viaggiatori, politici e diplomatici. I due
approcci storici al problema della conoscenza nelle organizzazioni produttive restano
quello occidentale e quello giapponese. Si tratta dell’esplicazione della questione
fondamentale del dualismo epistemologico che permea tutto il dibattito sulla natura della
conoscenza. Il tema di fondo parte da lontano, è un tema di fondo dell’intera umanità: è
l’interesse per come usare la conoscenza acquisibile e acquisita per lo sviluppo delle
organizzazioni e quindi, in sostanza, della società. Inoltre, il recente successo delle
migliori aziende giapponesi che hanno attivato un florido sistema di Knowledge
* Conze E., Breve storia del Buddhismo, Rizzoli, Milano, 1985
contesto
esterno
contesto
esterno
creare
accogliere
condividere diffondere
19
Management costituisce ovviamente un elemento non trascurabile di accresciuto valore.
Nell’approccio occidentale, oggettivista, l’organizzazione è depositaria della conoscenza e
responsabile dell’elaborazione di informazioni, che devono essere formali ed esplicite, e le
usa per adattarsi alle mutevoli circostanze esterne. Il modello organizzativo è normalmente
top down: il vertice elabora le informazioni ed emette direttive verso i livelli più bassi, che
ripetono l’operazione fino a giungere alle linee di produzione; queste ultime restituiscono
informazioni al livello superiore e il ciclo ricomincia. Il sapere è materia generale (cioè
applicabile in più contesti) ed astratta (cioè indipendente da un contesto specifico),
pertanto indipendente dal soggetto conoscitore.
Nell’approccio giapponese, invece, soggettivista, viene data molta importanza alle
capacità personali dei membri di un’organizzazione e si cerca di far emergere le loro
risorse per raggiungere gli obiettivi aziendali. Purtroppo questo tipo di conoscenza non è
facilmente trasmissibile, essendo i mezzi tradizionali (manuali, libri, corsi, etc.)
inadeguati; servono quindi lunghi periodi di training on the job. Il modello organizzativo
tende ad essere bottom up, per cui i dirigenti cercano di valorizzare al massimo le capacità
della base e si limitano a fornire strategie generiche. Il sapere è materia specifica e
concreta, intimamente legata all’esperienza conoscitiva del soggetto.
In sintesi: l’epistemologia occidentale tende ad attribuire una validità assoluta alle teorie e
alle ipotesi astratte che hanno contribuito allo sviluppo della scienza. Il retroscena di
questa tendenza è la tradizionale preminenza che si dà alla conoscenza concettuale,
rigorosa e sistematica che può essere fatta risalire fino a Cartesio. Il rischio, d’altra parte, è
quello di una sindrome da “paralisi da iperanalisi”.
L’epistemologia giapponese, sulla falsariga del buddismo Zen, dove la formazione
richiesta al discepolo esula dal mondo del non logico per tutta la durata del percorso di
apprendimento, tende invece a privilegiare maggiormente l’incarnazione dell’esperienza
personale. Effettivamente, un punto di debolezza può essere rappresentato dalle scarse
20
abilità di analisi, compensate solo in parte dal frequente ricorso all’interazione
interpersonale. Similmente, l’enfasi sull’esperienza personale “immediata” del
management giapponese rappresenta un’espressione concreta di questa tendenza.
1.3 Conoscenza tacita ed esplicita
“Solamente le idee che, anche in minima parte, possono dirsi nostre
sono quelle esprimibili in modo adeguato con le parole.”
(H. Bergson*)
Una suddivisione bipartita della conoscenza umana servirà ad esplicare meglio i due modi,
quello occidentale e quello orientale, di intendere, concepire e gestire la conoscenza degli
individui.
Per l’appunto, proprio attraverso le riflessioni di due studiosi giapponesi, Ikujiro Nonaka e
Hirotaka Takeuchi (1995*), la conoscenza può essere classificata in due categorie:
esplicita e tacita. La prima comprende tutto quanto è esprimibile mediante i sistemi
formali di comunicazione ed è trasmessa per mezzo di libri, manuali o corsi, in quanto ha
un contenuto prevalentemente logico e linguistico; la conoscenza esplicita è la base della
cultura occidentale. La seconda è invece il risultato di processi non formali né logici, ed è
composta da intuizioni, nozioni personali, esperienza, cultura e valori morali; può essere
trasmessa per mezzo di metafore e analogie, ma, più semplicemente, con l’esempio
pratico.
* Bergson H., Le Opere (1889-1896); Trad. it., Serini P., UTET, Torino, 1971
* Nonaka I., Takeuchi H., The Knowledge-Creating Company, Oxford University Press, 1995; Trad. it., Frigelli U.,
Inumaru K. (a cura di), The Knowledge-Creating Company. Creare le dinamiche dell’innovazione, Guerini, Milano,
1997
21
La conoscenza esplicita è quella codificata, facilmente trasmissibile e conservabile,
esprimibile in parole ed algoritmi, può essere “elaborata” da un computer ed
immagazzinata in un database; rappresenta, però, solo la punta dell’iceberg dell’intero
corpo della conoscenza.
La conoscenza tacita, al contrario, è legata al contesto di riferimento ed è difficile da
esprimere in maniera formalizzata. Quando un individuo conosce tacitamente, egli fa ed
agisce senza distanza da cose e persone ed ha una grande difficoltà a tradurre in parole e
regole il processo nel quale è coinvolto. In quest’ottica, l’interazione conoscitiva tra le
persone è caratterizzata da osservazione inconsapevole e da vicinanza sociale e
“comunitaria”. Nel contempo, nella conoscenza tacita è implicita una dimensione
cognitiva rilevante, di schemi, di modelli mentali, di credenze e di percezioni così
consolidate da essere divenute assiomatiche. E’ proprio questa dimensione cognitiva a
determinare il modo con cui si percepisce il mondo circostante.
La conoscenza tacita, pur essendo estremamente importante per il comportamento sociale
degli uomini, è stata finora quasi del tutto ignorata. Eppure, essa è una fonte importante
della competitività delle aziende giapponesi: la natura soggettiva del sapere viene indicata
dagli autori come una conquista tutta orientale sia in senso filosofico, sia in senso
organizzativo attraverso l’esperienza delle loro aziende. Ed è proprio l’approccio
giapponese alla conoscenza (un approccio tacito) ad essere identificato come uno dei
fattori chiave del successo delle imprese orientali. In questa chiave, le aziende sono viste
come entità che producono continuamente un sapere soggettivo (tacito o implicito) che, se
opportunamente esplicitato (e quindi reso nuovamente oggettivo), può produrre
miglioramento continuo ed innovazione.
Ovvero: il sapere da implicito e tacito, difficile da capire e da comunicare, deve diventare
sapere esplicito, facile da descrivere, codificare e documentare. Così le conoscenze
passano dall’individuo al gruppo e l’impresa genera conoscenza in quanto collettività che
condivide saperi. Il processo di creazione di conoscenza organizzativa coincide
precisamente con questo momento di conversione dalla dimensione tacita a quella
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esplicita. I due distinti tipi di conoscenza possono definirsi simmetrici. Conoscenze tacite
ed esplicite sono, in definitiva, unità costitutive fondamentali tra loro in rapporto di
complementarietà.
Molte organizzazioni non sanno di sapere e, quindi, non attivano azioni e piani di
aggiornamento e di valorizzazione della propria base di conoscenze e capacità.
Normalmente le conoscenze sono parte automatica e implicita del saper fare di
un’organizzazione e le capacità sono presenti in comportamenti organizzativi abitudinari e
scontati. In queste circostanze per essere acquisita, diffusa e migliorata, la competenza
(cioè l’insieme di conoscenze e capacità) incontra una forte inerzia organizzativa.
Occorre allora trovare un modo per ricondurre le cose all’oggettività, fermo restando uno
dei principi cardine dell’economia e della scientificità: la replicabilità. Solo una volta
incorporato il sapere esplicito in un prodotto o servizio esso può generare valore attraverso
la replicazione: bisogna liberarlo dal contesto specifico ed applicarlo a contesti diversi,
codificandolo all’interno di un prodotto. Diviene insomma indispensabile per le aziende
operare vere e proprie raccolte del saper fare, per focalizzare e ridurre i tempi di
approfondimento e diffusione al proprio interno delle conoscenze applicative e dei
comportamenti efficaci.
1.4 La codificazione della conoscenza
“Numera ciò che è numerabile.
Misura ciò che è misurabile e ciò che non è misurabile rendilo misurabile.”
(G. Galilei*)
Sistematizzare la conoscenza vuol dire, in sostanza, trasferirla dal campo dell’implicito (o
* Galilei G., Opere complete, Società Editrice Fiorentina, Firenze, 1964
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inconsapevole e abitudinario) al campo dell’esplicito (o consapevole e proceduralizzato)
per rendere più facile e rapido il suo trasferimento e la conseguente acquisizione e
diffusione. Le imprese, tutt’ora ancorate al modello della conoscenza implicita, hanno
sempre più necessità, per ragioni di competizione e di sopravvivenza, di rendere esplicita e
diffusa negli attori chiave la propria competenza distintiva (1), in modo che possa essere
espressa al meglio ed inserita in un ciclo di perfezionamento.
La codificazione rappresenta un momento fondamentale per l’azione di leva sulla
conoscenza nell’organizzazione. La codificazione assegna alla conoscenza quel carattere
di permanenza che esisterebbe altrimenti solo nella mente dell’individuo; rappresenta o
integra la conoscenza in forme varie che ne consentono la condivisione, la conservazione,
la combinazione e la manipolazione.
L’obiettivo della codificazione consiste nel trasformare la conoscenza dell’organizzazione
in una forma accessibile agli individui che ne hanno bisogno; questa attività “traduce”
letteralmente la conoscenza in un codice (non necessariamente di tipo informatico), in
modo da facilitarne l’organizzazione, l’esplicitazione, la trasferibilità e le possibilità di
comprensione.
La codificazione della conoscenza nelle organizzazioni realizza un processo di
trasformazione in formati accessibili e applicabili. Le nuove tecnologie svolgono
certamente un ruolo importante nella codificazione della conoscenza e promettono di
facilitare ulteriormente la gestione di questa attività nel futuro.
(1) La “competenza distintiva” è l’insieme delle conoscenze e capacità che un’impresa ha accumulato negli
anni (ovviamente tramite le proprie risorse umane) e per mezzo delle quali viene riconosciuta e apprezzata sul
mercato dai propri clienti. In questa configurazione si può dire che i clienti acquistano prodotti e servizi da una
particolare impresa se li riconoscono, se li “distinguono” in modo significativo e prolungato nel tempo. Il
successo di un’impresa, quindi, sta nel difendere la propria competenza distintiva (distinta appunto dai clienti) e
nell’evolverla sulla base delle esigenze del mercato, derivanti dalla dinamica competitiva e dalla incessante
modificazione delle esigenze della clientela stessa. (Cocco G.C., 2001)
24
Resta comunque assodato che una conoscenza effettivamente complessa, tacita, sviluppata
ed internalizzata da un individuo nel corso di un ampio periodo risulta impossibile da
riprodurre attraverso un documento o un database. Una categoria simile di conoscenza
incorpora un apprendimento accumulato ed integrato le cui regole potrebbero essere
troppo complicate per essere separate dal comportamento dell’individuo stesso. Ciò può
significare trascorrere uno o due anni nel tentativo di assorbire e contribuire a creare nuova
conoscenza, e solo in seguito trasportarla verso nuove posizioni. In Giappone, per
esempio, è diffusa l’abitudine di avvicendare gli ingegneri dalla direzione alla produzione
e viceversa, in modo che venga compresa la logica dell’intero processo di sviluppo e
realizzazione dei nuovi prodotti.
Semplicemente, non si può essere sempre in grado di rappresentare con efficacia la
conoscenza al di fuori della mente umana. In generale, il processo di codificazione della
più ricca conoscenza tacita è perciò limitato all’individuazione di persone che possiedono
la conoscenza, ed in seguito ad indirizzare verso di loro chi compie una ricerca,
incoraggiando all’interazione. L’assunto che si sottende è che sia molto più probabile che
la conoscenza venga assorbita quando aderisce al senso di verità delle persone, quando
viene cioè trasferita con sentimento ed inserita in un contesto o in una cornice condivisi,
almeno in parte, dai destinatari.
Spesso, tuttavia, l’interazione assume una forma pressoché “confidenziale”, si tratta di
un’occasione “di comodo” in cui l’interlocutore è quello che possibilmente si colloca più
vicino nello spazio, non necessariamente proprio la persona più competente da consultare
su quel particolare tema. Si cerca, insomma, di ottenere informazioni sufficientemente utili
da un interlocutore prossimo. Ovviamente, tanto più complessa e grande è
l’organizzazione, tanto meno probabile rimane l’opportunità di trovare le competenze
migliori nelle vicinanze o in qualunque ufficio della sede. Le maggiori dimensioni
aumentano le probabilità che la conoscenza richiesta esista da qualche parte nell’impresa,
ma tendono a diminuire le probabilità di sapere come e dove trovarla. In un contesto
competitivo, una conoscenza “abbastanza buona” non si rivela buona abbastanza.