4
mentale, è qui condizione stessa affinché si possa davvero accedere ad essa, e non
è dunque il frutto di una semplice sconsideratezza o faciloneria. Inoltre, se non la
si prende per “presunzione teoretica”, la temerarietà, ovvero l’arditezza del cimen-
tarsi con così vari e complessi autori, più che gettare – ad uno sguardo più attento
e assennato – in un prevedibile scoraggiamento di fronte alla difficoltà dell’impre-
sa (il quale pure, a volte, non ha esitato a prendere il sopravvento), si è trasformata
semmai nella confortevole constatazione di non essere io il solo ad essermi posto
una simile domanda, bensì di ritrovarmi come in un piccolo coro (che non credevo
ormai più possibile), all’interno del quale ognuno, a suo modo, contribuisce a dare
voce e dignità filosofica al problema del senso dell’essere di cui la domanda fon-
damentale va eminentemente alla ricerca. A tale proposito – come del resto risul-
terà certamente evidente – è opportuno dichiarare fin da subito che l’intero lavoro
vede in Heidegger l’interlocutore più rilevante e determinante. E questo non solo
in quanto in esso si faccia diffusamente uso del suo linguaggio o si facciano ripe-
tutamente riferimenti alle sue opere (basti pensare alle numerose citazioni o dare
uno sguardo alla bibliografia), ma anche e soprattutto in quanto è dal pensiero hei-
deggeriano che si è ricavata, se non proprio l’impostazione, certamente l’ispira-
zione e lo spirito con il quale condurre la discussione. Del resto, è a Heidegger
che si deve la riproposizione più significativa e penetrante a noi più vicina della
domanda fondamentale. Ma anche il dialogo con un Leibniz, e soprattutto con un
Leopardi e con uno Schelling risulta essere assolutamente decisivo per la com-
prensione stessa dell’origine, della portata e del senso della domanda. La nostra
ambizione apparirà allora forse meno azzardata se solo si pensi al fatto che nella
presente indagine, pur avendo noi incontrato diversi autori, non abbiamo certo
preteso di esaurire la complessità della vicenda filosofica che riguarda ognuno di
essi in modo particolare, bensì ci siamo limitati – per quanto possibile – ad inter-
rogarli e ad ascoltare soltanto quanto essi avessero da dire, in modo più o meno
esplicito, intorno alla domanda fondamentale (ciò vale anche nel caso dei riferi-
menti fatti ad Aristotele, a Wittgenstein, a Carnap). Se, inoltre, un simile collo-
quio ha davvero potuto svolgersi in modo responsabile e fruttuoso – ciò che giudi-
cherà il lettore – questo sarà stato anche merito dell’azione moderatrice esercitata
dalla (se pur non vastissima) letteratura filosofica riguardante la domanda fonda-
mentale, ed in particolare da quanto, su di essa e sulla sua evoluzione nella storia
del pensiero occidentale, ha scritto L. Pareyson.
La questione che viene qui posta è certamente una questione immensa. Essa è
addirittura la questione: in quanto fondamentale, essa è la domanda delle doman-
de. Ma la paura che nasce di fronte alla vastità e di fronte all’importanza del suo
cospetto, anche se comprensibile, non ci autorizza in nessun modo a rimuoverla,
né a delegarla ad altri o ad altre occasioni. La domanda sorge spontaneamente nel-
l’uomo e non esistono né specialisti in materia cui rivolgersi, né migliori opportu-
nità di quella presente per darle una voce e discuterne intorno. Nessun luminare,
per quanto preparato, e nessun trattato specialistico, per quanto esteso ed accurato,
potranno mai porre la domanda fondamentale meglio di quanto non accada nel ca-
5
so in cui essa irrompa con tutta la sua forza nel cuore e nella mente di un qualsiasi
uomo. E questo perché per essere posta essa non ha bisogno né di preparazione
culturale, né di sofisticati strumenti scientifici, né di sterminati spazi d’indagine.
La domanda, infatti, non nasce affatto dalla presunzione o dall’arroganza teoretica
di colui che crede di essere abbastanza competente, in filosofia o in una qualsiasi
scienza, da permettersi il lusso di trattare una tanto ardua e complessa questione;
essa proviene, bensì, dall’umiltà e dall’ingenuità di un qualunque uomo che sem-
plicemente sente e che pensa a sufficienza. Né la nostra imperizia filosofica e
scientifica, né l’esiguità del lavoro che in questa sede ci era in fondo richiesto pos-
sono, dunque, da sole, delegittimare la nostra risoluzione nel riproporre la doman-
da fondamentale.
Tutto ciò non toglie che è soltanto attraverso gli strumenti ed i contenuti della
filosofia che diventa possibile qualcosa come la comprensione stessa della doman-
da. In effetti, una cosa è limitarsi a porre la domanda (ciò che è in potere di ogni
uomo), altra cosa è condurre una ricerca consapevole che miri esplicitamente ad
afferrarne la possibilità ed il senso, nonché a scorgere la via per una possibile ris-
posta. La risposta – se mai ne esistesse una – può essere, infatti, ricercata soltanto
se si abbia precedentemente chiarito l’origine ed il significato della domanda (ciò
che, sicuramente, presuppone una certa dimestichezza filosofica ed ermeneutica).
La presente indagine intende consistere proprio in un “sostare” sopra la domanda
fondamentale: un sostare che è teso a cogliere l’essenza stessa della domanda (la
sua origine, il suo darsi una forma, il suo valore, la sua portata, il suo senso), e che
a tal fine si avvale delle importanti indicazioni e dei preziosi suggerimenti di alcu-
ni di quei pensatori che con essa hanno avuto modo, in maniera più o meno di-
chiarata e cosciente, di confrontarsi. Se questa sosta sia stata “conveniente” o me-
no non saprei dirlo. Certamente è stata per me non soltanto opportuna, ma presso-
ché inevitabile. In ogni caso, dopo ogni sosta che si rispetti, l’importante è saper
riprendere il cammino. Che nessuna risposta compaia alla fine di questo mio stu-
dio e del presente lavoro costituisce, per quanto mi riguarda, in un certo senso, già
una risposta.
f. c.
6
LA DOMANDA FONDAMENTALE:
«Perché l’essere piuttosto che il nulla?»
7
«Io non so né perché venni al mondo; né come; né cosa sia
il mondo; né cosa io stesso mi sia. E s’io corro ad investi-
garlo, mi ritorno confuso d’una ignoranza sempre più spa-
ventosa. Non so cosa sia il mio corpo, i miei sensi, l’anima
mia; e questa stessa parte di me che pensa ciò ch’io scrivo,
e che medita sopra di tutto e sopra se stessa, non può co-
noscersi mai. Invano io tento di misurare con la mente
questi immensi spazj dell’universo che mi circondano. Mi
trovo come attaccato a un piccolo angolo di uno spazio in-
comprensibile, senza sapere perché sono collocato piuttos-
to qui che altrove; o perché questo breve tempo della mia
esistenza sia assegnato piuttosto a questo momento del-
l’eternità che a tutti quelli che precedevano, e che segui-
ranno. Io non vedo da tutte le parti altro che infinità le
quali mi assorbono come un atomo»
∗
…«e come un’ombra
che dura solo un istante e senza ritorno. Tutto quello che
so è che devo morire presto, quello che conosco di meno è
questa stessa morte che non posso evitare. Come non so da
dove vengo, così non so dove vado; so soltanto che uscen-
do da questo mondo cadrò per sempre o nel nulla o in po-
tere di un Dio sdegnato, senza sapere quale di queste due
condizioni sarà eternamente la mia sorte. Ecco il mio sta-
to, pieno di debolezza e di incertezza»
∗∗
.
♦
«Solo perché il niente è manifesto nel fondo dell’esserci,
può sorpassalirci il senso della completa estraneità dell’en-
te, e solo se questa estraneità ci angustia, l’ente ridesta e
attira su di sé lo stupore. Solo sul fondamento dello stupo-
re, ossia dell’evidenza del niente, sorge il “perché?”, e so-
lo in quanto il perché è possibile come tale, noi possiamo
domandare dei fondamenti e fondare in modo determinato.
Solo perché possiamo domandare e fondare, è assegnato
alla nostra esistenza il destino della ricerca»
***
.
∗
U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis.
∗∗
B. Pascal, Pensieri.
***
M. Heidegger, Che cos’è metafisica?
8
I.
NECESSITÀ E LEGITTIMITÀ DEL DOMANDARE
1. § La filosofia come domanda e la domanda fondamentale.
Filosofare significa chiedere:«Perché vi è,
in generale, l’essente e non il nulla?».
M. Heidegger, Einführung in die Metaphysik
1
.
Prima di ogni altra cosa, la filosofia si caratterizza come domanda. L’essenza stes-
sa della filosofia si fonda originariamente sulla possibilità del domandare. In ques-
ta possibilità risiede ciò che contraddistingue eminentemente l’uomo in quanto ta-
le. Già Aristotele mostrava che l’uomo, a differenza dell’animale, non si limita al-
l’immediatezza delle mere sensazioni e dei meri ricordi, né si accontenta di quel-
l’insieme coerente di diverse immagini del medesimo oggetto che chiamiamo «es-
perienza». All’uomo è dato, infatti, di non arrestarsi alla semplice constatazione di
ciò che è e di come è, ossia del fatto che le cose sono queste o queste altre, e che
sono in un certo modo anziché in un altro. L’uomo è in grado di elevarsi, piutto-
sto, sul piano delle cause degli eventi e delle cose che costituiscono il mondo, ov-
vero di porsi il problema del loro fondamento, di richiederne la ragione, di do-
mandarne l’origine, e dunque di tentarne una spiegazione. Precisamente questo è
ciò che distingue gli uomini meramente «empirici» dai filosofi: i primi «sanno il
che, ma non il perché»
2
; quegli altri, invece, sono coloro che si mettono costante-
mente alla ricerca del «perché» e della «causa»
3
.
Ma perché l’uomo è capace, in generale, di avere a che fare con qualche cosa
come il perché – e precisamente con quel perché che, sebbene sia fondamentale e
propedeutico in tutte le scienze, potremmo definire, in base a quanto diremo, filo-
1
Tübingen, 1966, trad. it. di G. Masi, Introduzione alla metafisica, a cura di Gianni Vattimo, Mi-
lano, 2003, p. 19.
2
Ad esempio non sanno «perché il fuoco sia caldo, ma soltanto che esso è caldo». Aristotele, Me-
tafisica, I, 1, 981 b (trad. it. di A. Russo, Bari, 2002).
3
Ivi, I, 1, 981 a.
9
sofico? Ciò che innanzi tutto sospinge l’uomo a cercare di valicare il piano del che
e tentare l’approdo a quello del perché, ovvero a portarsi nella dimensione genera-
le della domanda è, secondo Aristotele, uno di quegli stati emotivi che definiscono
l’uomo in quanto tale, che appartengono cioè alla sua essenza, e precisamente il
sentimento della meraviglia: «[…] gli uomini, sia nel nostro tempo sia dapprinci-
pio, hanno preso dalla meraviglia lo spunto per filosofare, poiché dapprincipio es-
si si stupivano dei fenomeni che erano a portata di mano e di cui essi non sapeva-
no rendersi conto, e in un secondo momento, a poco a poco, procedendo in questo
stesso modo, si trovarono di fronte a maggiori difficoltà, quali le affezioni della
luna e del sole e delle stelle e l’origine dell’universo»
4
.
In effetti, è proprio grazie ad una tale sensazione di stupore e d’incertezza di
fronte al che delle cose, al loro modo di essere, che l’uomo viene in chiaro della
propria ignoranza nei confronti del perché e, conseguentemente, di quel socratico
sapere di non sapere a partire dal quale soltanto è possibile raggiungere la co-
scienza della propria indigenza conoscitiva e, dunque, il cercare di porvi rimedio.
In ciò consiste l’inizio e l’essenza del filosofare in Platone, secondo il quale la na-
tura del filosofo è proprio come quella di Eros: né povera né ricca, né immortale
né mortale, né divina né umana, bensì demonica, ovvero intermedia tra gli estre-
mi. Né gli dèi – che già la possiedono –, né gli ignoranti aspirano, infatti, alla sa-
pienza, giacché «chi non avverte la propria deficienza non può desiderare ciò di
cui non sente il bisogno»
5
. Soltanto coloro che «stanno in mezzo» tra gli uni e gli
altri possono, dunque, essere filosofi. Ed è proprio a partire dalla meraviglia che
nell’uomo può destarsi la coscienza di una simile mancanza, la quale è condizione
imprescindibile affinché questi possa iniziare ad esercitare quella tendenza e quel-
l’amore nei confronti della sophìa che tradizionalmente, almeno a partire da Plato-
ne, noi indichiamo con il termine φιλοσοφìα.
Ma «[…] se è vero che gli uomini si diedero a filosofare con lo scopo di sfug-
gire all’ignoranza, è evidente che essi perseguivano la scienza col puro scopo di
sapere e non per qualche bisogno pratico»
6
. Com’è noto, per Aristotele, la filoso-
fia non è soltanto “amore per la sapienza”; essa è bensì un amore disinteressato
per la sapienza, una ricerca che non poggia su alcun bisogno pratico, e che perciò
dà luogo ad una “scienza” indifferente nei confronti di una sua applicazione pra-
tica, una scienza non produttiva, che cioè non nasce in vista di un utile
7
. Ma siamo
sicuri che la filosofia sia davvero del tutto disinteressata? Non abbiamo forse rin-
4
Ivi, I, 2, 982 b. Del resto, il concetto era già chiaro al maestro Platone: «La passione del filosofo
è soprattutto questa: la meraviglia; non c’è altro inizio della filosofia che questo». (Teeteto, 155d).
5
Platone, Simposio, 203 c, 204 a-b, (cors.miei).
6
Aristotele, Metaph., I, 2, 982 b.
7
E se questo sembra valere per una qualsivoglia “scienza fisica” – giacché essa, in generale, è pur
sempre una «scienza che studia le cause» – a maggior ragione varrà per una “scienza metafisica”,
ossia per quella scienza che meglio si adatta al puro e disinteressato conoscere: la scienza «al mas-
simo grado», «di ciò che è conoscibile nel grado più alto», e cioè la scienza dei «primi principi» e
delle «cause» prime. Già da qui si comprende come in Aristotele la filosofia, nel suo senso più au-
tentico (come meraviglia che si traduce in logos), si configuri come metafisica.
10
tracciato la sua genesi in quel domandare sui fondamenti che a sua volta trova
fondamento sul sentimento della meraviglia? E non è forse questo sentimento che
instilla in noi un “interesse”, o meglio, una tendenza e un “bisogno” di altro tipo?
Non nasce la filosofia proprio come il bisogno di render ragione dei fatti che acca-
dono, delle cose che capitano sottomano e, progressivamente, di quelle che tra-
scendono il nostro mondo più immediato? Certo, non è questa una propensione o
un bisogno che possa dirsi materiale, pratico o utilitaristico, e pur tuttavia è sem-
pre un bisogno. Un bisogno che non ha altro fine se non in se stesso, ma che, no-
nostante il suo “disinteresse”, continua a mantenere la sua peculiare natura di “esi-
genza”, di “necessità”, di “urgenza”. Perciò, nella misura in cui all’uomo appartie-
ne lo stato emotivo della meraviglia come sua possibilità originaria e costitutiva,
allora gli appartiene anche – ed in modo non meno originario ed essenziale – qual-
cosa come la possibilità di domandare del fondamento e della ragione delle cose,
ovvero la possibilità della ricerca filosofica. In altre parole, dal momento che l’uo-
mo è, secondo la sua essenza, “condannato” a meravigliarsi, egli è chiamato altre-
sì a volgere tale sentimento in un domandare pensante e in un discorso cosciente e
coerente. Egli è, per così dire, “costretto” al domandare filosofico: non può non fi-
losofare. Lo stesso Aristotele, a proposito dell’impresa conoscitiva che si accinge
ad iniziare nella sua opera (quella che sarà poi denominata Metafisica), dice: «è
chiaro, allora, che noi ci dedichiamo a tale indagine senza mirare ad alcun bisogno
che ad essa sia estraneo»
8
, e tuttavia – verrebbe da aggiungere – prestando ascolto
proprio a quel bisogno che per tale indagine è invece familiare, intimo, addirittura
fondante. Un bisogno filosofico, dunque. Un bisogno (una tendenza, un’inclina-
zione, una disposizione) che pur fondandosi sulla meraviglia, non si dà dopo di
essa, ma con essa, e cioè con il darsi stesso dell’essere umano.
Ora, se quanto detto è vero; se cioè la filosofia nasce come il bisogno d’interro-
gare suscitato dallo stupore di fronte al fatto che qualche cosa sia in un certo mo-
do e, dunque, come una ricerca del perché di questo fatto; ne segue che l’interro-
gare che domanda non meramente circa l’essere in un certo modo – ovvero che
non ha una specifica cura per questo fenomeno o quell’altro, per questo ente o
quest’altro –, ma che, in modo più penetrante, giunge a porre in questione l’essere
stesso in quanto tale, è certamente, per così dire, un interrogare “più filosofico”,
vale e dire più profondo, più esteso, in una parola più originario. Infatti, è il gene-
rico bisogno filosofico che conduce alla questione del perché qualche cosa sia in
un modo piuttosto che in un altro, ma è soltanto il bisogno filosofico che si carat-
terizza come autentico bisogno metafisico che percepisce come problema e che,
quindi, invita alla domanda sul perché, in generale, qualche cosa sia piuttosto che
non sia affatto – domandare che poggia, non a caso, su quella che può esser defi-
nita come la “meraviglia delle meraviglie”: non come il mondo è, ma che esso è.
Ora, anche per Aristotele, in un certo senso, il bisogno e il domandare filosofici
si configurano, nel loro originario e supremo modo di essere, come bisogno e do-
8
Ibidem.
11
mandare metafisici. La filosofia è per lui anzitutto metafisica. Non a caso questa
prende il nome di «filosofia prima» – anche se non si deve intendere qui la sua
primarietà da un punto di vista propriamente temporale, giacché semmai il do-
mandare metafisico è piuttosto un punto d’arrivo che di partenza
9
; tanto meno il
bisogno metafisico si configura come il bisogno primario e più urgente da un pun-
to di vista “fisico” o fisiologico
10
. Per Aristotele, piuttosto, la metafisica è filoso-
fia prima poiché essa è la scienza che non si occupa di fondamenti e di cause con-
tingenti (che sono così e così ma che potrebbero essere altrimenti), bensì dei
«principi» e delle «cause» prime, incondizionate, assolute, senza la conoscenza
delle quali non potrebbe esservi nessun’altra conoscenza. Perciò, sebbene tutte le
altre siano «materialmente più necessarie»
11
, essa è la scienza somma, la più ris-
pettabile, la più «divina e veneranda», la più degna di essere perseguita e, dunque,
quella cui l’uomo, in fondo, tende nel modo più originario ed autentico.
In verità, come nota Heidegger, l’espressione aristotelica μετà τà φυσικά non è
affatto trasparente, anzi, essa «serve a designare uno stato di fondamentale imba-
razzo filosofico»
12
. Aristotele, infatti, la utilizza contemporaneamente per caratte-
rizzare la filosofia prima sia come «conoscenza dell’ente in quanto ente», dell’en-
te in generale (ens commune), sia come conoscenza della sfera più eminente del-
l’ente a partire dalla quale si determina l’ente in totale. La metafisica aristotelica
sembra dunque sdoppiarsi: da una parte essa è scienza di ciò che è comune a tutti
gli enti (metaphysica generalis) e, dunque, della totalità dell’ente come tale nei
suoi caratteri universali; dall’altra parte essa si configura come scienza della tota-
lità dell’ente determinata però a partire dalla sua sfera eminente, fino alle sue spe-
cializzazioni regionali interne (metaphysica specialis). Di conseguenza essa si ca-
ratterizza come ontologia in senso stretto, in quanto discorso (logos) sull’ente (ón)
preso in generale, nonché come teologia, in quanto discorso sull’ente sommo, di-
vino (theion). Teologia è, del resto, anche e soprattutto la metafisica postaristote-
lica, ovvero quella scolastica, la quale, forte della concezione cristiana (non aristo-
telica) secondo cui la totalità dell’ente non divino è un creato, fece derivare dal
summum ens tutto ciò che è, operando così una classificazione in tre sfere: Dio,
natura, uomo. Ad esse corrisposero poi le tre discipline che costituiscono la meta-
fisica come dottrina tradizionale, rispettivamente: teologia, cosmologia, psicolo-
gia. In più, l’idea aristotelica della metafisica come «regina delle scienze», come
9
Infatti, «dapprincipio essi [i filosofi] si stupivano dei fenomeni che erano a portata di mano […] e
in un secondo momento, a poco a poco, […] si trovarono di fronte a maggiori difficoltà, quali le
affezioni della luna e del sole e delle stelle e l’origine dell’universo». (Cfr. nota 3, cors. miei).
10
Dal momento che «solo quando furono a loro disposizione tutti i mezzi indispensabili alla vita e
che procurano benessere e agiatezza, gli uomini incominciarono a darsi ad una tale sorta di indagi-
ne scientifica». (Aristotele, Metaph., I, 2, 982 b.)
11
Metaph., I, 2, 983 a, (cors.mio).
12
M. Heidegger, Kant und das Problem der Metaphysik, Bonn, 1929 (trad. it., Kant e il problema
della metafisica, Bari, 1981, p.17). Cfr. anche M. Heidegger, Einleitung zu «Was ist Metaphy-
sik?», in Wegmarken, Frankfurt am Main, 1976 (trad. it. a cura di F. Volpi, Introduzione a «Che
cos’è metafisica?», in Segnavia, Milano, 1987, p. 330).