II
Ma tale garanzia non può, comunque esorbitare dal ruolo e dalla funzione del
giornalista. È in questo quadro che si colloca la riforma del reato di
diffamazione a mezzo stampa. L’importanza di tale cambiamento è data sotto
diversi profili. In primo luogo, la presa di coscienza della reale difficoltà, ai
tempi di oggi, per i professionisti della comunicazione, di svolgere un
efficiente ed efficace lavoro di raccolta e divulgazione di notizie per la
comunità, essendo fortemente penalizzati da un intreccio di norme e sanzioni
che limitano (a volte anche in modo eccessivo) quel sacrosanto diritto sancito
all’art. 21 Cost.. In secondo luogo, il dibattito scaturito in merito a tale riforma
ha dimostrato, inoltre, come sia l’informazione che la libertà di espressione, e
dunque di comunicazione, abbia un ruolo primario nello sviluppo della
personalità e della coscienza sociale delle persone. Un ruolo che da anni viene
riconosciuto anche dal diritto e dalla legge, i quali sono, appunto, gli unici
strumenti attraverso cui poter rivendicare la ormai soffocata libertà di stampa.
La legge di riforma del reato di diffamazione, dunque, apre un portale
importante verso una nuova figura di giornalista.
1
1. Per un’informazione leale
1.1. Il diritto di cronaca
“Dopo più di mezzo secolo dall’avvento della democrazia in Italia, molta gente
non ha ancora capito cosa sia esattamente questo benedetto o maledetto diritto
di cronaca. Altri lo accettano controvoglia, come se fosse un male necessario;
una conseguenza perversa ma inevitabile di quella libera espressione del
pensiero e di quella libera circolazione delle idee di cui parla la Costituzione.
Non tutti si rendono conto che l’informazione è uno dei fondamenti sostanziali
sui quali si regge una società democratica” (Rossetti, 2002, 39). La copertura
dell’art.21 della Costituzione, la definizione dei suoi limiti e i tentativi di tutela
delle norme che disciplinano il settore giornalistico e delle numerose pronunzie
giurisprudenziali, hanno sempre ricondotto il diritto di cronaca ad una
interpretazione implicita anziché ad un suo concetto giuridicamente definito. In
genere si può dire che la cronaca è intesa come la mera “esposizione dei fatti,
scevra da commenti aggiunte od omissioni” (Zeno-Zencovich, 1995, 1), ma è
nella libertà di manifestazione del pensiero (art. 21) che in primo luogo la
cronaca si va a rispecchiare. Una libertà che, negli anni, ha riscontrato una
visione sia attiva (libertà di informare) che passiva (libertà di essere informati),
entrambe espresse e specificate dal diritto di cronaca. In riferimento alla prima
forma di libertà, la giurisprudenza ha provveduto a definire i tre limiti che
inibiscono il diritto di cronaca, limiti che fungono anche da requisiti
fondamentali che qualificano lo stesso diritto (si veda art. 51 c.p.): verità
obiettiva o putativa della notizia, interesse pubblico e continenza. C’è da
sottolineare che i confini a cui il cronista deve attenersi sono stati individuati in
principal modo dai provvedimenti di varie Corti di giustizia (per lo più
2
Costituzionale e Cassazione), le quali hanno tentato di colmare quel vuoto
normativo in cui la disciplina giornalistica era caduta. Un vuoto che si è
formato nonostante la legge sulla stampa, “nello spirito del comma VI
dell’art.21 e dell’art.2 della Cost., pone, con l’art.15, un limite preciso
all’esercizio del diritto di cronaca” riguardo a “particolari impressionanti o
raccapriccianti” (Abruzzo 2004)
1
, nonostante la legge n. 69/63, sia con l’art. 2,
che impone ai giornalisti il limite dato “dall’osservanza delle norme di legge
dettate a tutela della personalità altrui”, “il rispetto della verità sostanziale dei
fatti”, oltre che l’osservanza dei “doveri imposti dalla lealtà e dalla buona
fede”, che con gli artt. 48 e 51, in merito ai provvedimenti e sanzioni
disciplinari, e nonostante le direttive impartite dalla Carta dei doveri del
giornalista (1993) e dal Codice di deontologia della privacy nella professione
giornalistica (1998). Oltre a questi documenti, il settore giornalistico, cercando
sempre di autodisciplinarsi in mancanza appunto di riferimenti normativi, si è
avvalso anche di statuti professionali nati all’interno di alcune redazioni. “I
testi più completi sono il Codice di autodisciplina del “Sole-24 Ore” (1987) e il
Patto sui diritti e doveri dei giornalisti, dell’Editoriale “La Repubblica”
(1990)” (Papuzzi, 1998, 202), dove si va a sancire un principio fondamentale
dell’informazione, quello dell’imparzialità, esente da qualsiasi tipo di influenza
o interferenza, in particolare nel secondo documento, dove si prevede anche
l’istituzione di un “garante del lettore, al quale può rivolgersi chiunque ritenga
violato il rispetto della sfera privata della persone” (Papuzzi, 1998, 202).
Premesso dunque che la libertà di cronaca, essendo tale, non dispone di una
estensione illimitata dei suoi confini, ma che comunque beneficia di una ampia
copertura costituzionale, data l’ampia interpretazione a cui è aperto l’art. 21
Cost., ci si trova di fronte all’inevitabile scontro tra manifestazione del
pensiero e diritto all’onore, alla reputazione e alla riservatezza della persona
oggetto della notizia (artt.2 e 3 Cost).
1
F. Abruzzo, CSM. Incontro di studi sul tema “Magistratura e mass media”, Roma, 9 – 11 dicembre
2004, www.odg.mi.it
3
“Non essendo in merito diritto positivo, se non quello costituito dai richiamati
principi costituzionali, è stata l’opera della giurisprudenza a forgiare lo
‘statuto’ del diritto di cronaca” (Rizzo 2002,103).
Tra le sentenze maggiormente rilevanti, infatti, sono da citare alcune decisioni
della Cassazione che, delineando meglio gli orientamenti giurisprudenziali
assunti negli ultimi anni, hanno una particolare importanza. Tali provvedimenti
sono quelli riscontrabili in due sentenze delle sezioni penali riunite del 1983
(Cass., 26 marzo 1983; Cass., 26 maggio 1983) e nella famosa sentenza della
prima sezione della Cassazione civile del 1984, nota come del “decalogo”
(Cass., 18 ottobre 1984) in cui, al fine di tracciare un adeguato percorso per il
cronista, sono stati ridefiniti nuovamente i tre “criteri-chiave” (Zeno-
Zencovich, 1995, 7) quali appunto la verità dei fatti, dove viene specificato
l’obbligo di controllo delle fonti (si veda al riguardo anche la sentenza della
Cassazione penale, sezioni unite, 30 giugno 1984, secondo cui, “non essendoci
fonti d’informazione privilegiate”, l’esercizio del diritto di cronaca non può
basarsi su una sola fonte)
2
, “la pertinenza dei fatti narrati all’interesse sociale”
(Zeno-Zencovich, 1995, 7) e infine la “correttezza espositiva” (Zeno-
Zencovich, 1995, 7). Ma è sotto forma di libertà di essere informati che il
diritto di cronaca trova la sua piena tutela e con essa la dignità che gli spetta,
riconoscendo la sua funzione sociale di divulgatrice di notizie. Fin dall’art. 28
dello statuto Albertino (4 marzo 1848), dove si stabiliva che “la stampa sarà
libera, ma una legge ne reprime gli abusi”, e considerando sia il successivo
regio decreto n. 695 (noto come Editto Albertino sulla Stampa), dove all’art. 1
si affermava che “la manifestazione del pensiero per mezzo della stampa e
qualsivoglia artificio meccanico, atto a riprodurre segni figurativi, è libera:
quindi ogni pubblicazione di stampati, incisioni, litografie, oggetti di plastica e
simili è permessa con che si osservino le norme seguenti…”, che la
regolamentazione durante l’Italia fascista, quando una “ragnatela di leggi e
2
V. Zeno-Zencovich, op. cit., 1995
4
decreti aveva come possibile risultato la ‘paralisi’ della pubblicazione del
periodico” oltre al fatto che “Mussolini controllava la stampa tramite i
direttori”, il diritto di cronaca non ha goduto di altro che di “concessioni” e
censure, tanto da non poter essere propriamente detto nemmeno “diritto”. Per
tali motivi, il primo comma dell’art. 21 Cost. (si ricorda che la Carta
costituzionale è entrata in vigore il 1° gennaio del 1948 mentre la legge sulla
stampa è stata emanata l’8 febbraio 1948) e l’equivalenza che si è stabilita tra
tale articolo, il diritto ad informare e il diritto di cronaca, assumono una
importante valenza sociale.
Una valenza sociale riscontrabile in numerose sentenze quali la sentenza n.
1/1981: la Corte costituzionale riconosce “il rilievo costituzionale della libertà
di cronaca (comprensiva dell’acquisizione delle notizie) e della libertà
d’informazione quale risvolto passivo della manifestazione del pensiero,
nonché il ruolo svolto dalla stampa come strumento essenziale di quelle libertà,
che è, a sua volta, cardine del regime di democrazia garantito dalla
Costituzione”.
E ancora, la sentenza del 10 luglio 1974 n. 225: “I giornalisti preposti ai servizi
di informazione sono tenuti alla maggiore obiettività e (devono essere) posti in
grado di adempiere ai loro doveri nel rispetto dei canoni della deontologia
professionale”.
Infine, la legge 4 agosto 1955 n. 848 (Convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali) all’art. 10 enuncia: “Ogni
persona ha diritto alla libertà di espressione e questo diritto comprende la
libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee
senza interferenza di pubbliche autorità”.
5
1.1.1. I limiti del diritto di cronaca
“Il diritto di cronaca è l’espressione e specificazione del diritto di libera
manifestazione del pensiero (ex art.21 Cost.), che prevale sul diritto all’onore
ed alla reputazione del soggetto della notizia (artt. 2 e 3 Cost.) quando i fatti
riportati siano veri, di interesse pubblico ed espressi in forma continente”
(Zeno-Zencovich 1995, 1). Con la delineazione dei tre limiti la questione è
diventata ben più ampia. Fino a che punto la verità di una notizia, il suo
interesse pubblico e la forma in cui viene raccontata giustificano l’invadenza
del cronista nella vita privata delle persone, giustificano la mancanza di
rispetto verso i sentimenti o l’onore e la reputazione dei soggetti coinvolti? La
giurisprudenza si è più volte interessata di dare al giornalista delle linee di
condotta da seguire, linee non solo ravvisabili tra alcune tra le più importanti
sentenze che la Cassazione ha emanato in materia (a partire dalle più note
come Cass., 26 marzo 1983, Cass., 26 maggio 1983 e la famosa sentenza-
decalogo del 18 ottobre 1984, fino alla più recente Cass. pen., sez. V, 26
maggio 2000), ma definite già dai primi anni ’60.
Partendo dalla verità, che si pone come il primo principio a cui è subordinata la
cronaca, il suo concetto ha visto negli anni un’evoluzione che ne ha fortemente
ristretto i confini. Infatti, se negli anni ’60 non si doveva “accertare la verità
assoluta di ogni singolo fatto, data l’esigenza fondamentale di rapidità
dell’informazione, ma che sia sufficiente il controllo delle fonti, pur essendo
però necessario che il fatto vero costituisca il nucleo centrale della
notizia”(Zeno-Zencovich, 1995, 2), introducendo anche la nozione di verità
putativa (ovvero raggiunta da un “serio accertamento” dei fatti), negli anni ’70
“alcune sentenze distinguono tra fonte attendibile” dove il controllo delle fonti
non è necessario, e “fonte non attendibile dove la verità della notizia deve
essere necessariamente verificata (Cass., 13 febbraio 1974)” (Zeno-Zencovich,
1995, 5). Ma è negli anni ’80 che il concetto di verità, e soprattutto il suo
6
carattere di putatività, viene definito con maggiore rigore, tanto che la maggior
parte della giurisprudenza di quel periodo, non solo ha fatto da base a quella
attuale, ma è tutt’ora vigente. Tali cambiamenti di orizzonte della disciplina
sono sostanzialmente dovuti all’evolversi dei mezzi di comunicazione di
massa, all’aumento delle notizie che il giornalista si trova a trattare e dunque
alla necessaria rapidità con cui è costretto a vagliare la veridicità delle notizie e
le loro fonti. Essendo la verità di una notizia in stretta dipendenza dalle fonti a
cui il cronista attinge, proprio il controllo accurato di queste, necessario per la
tutela della reputazione del singolo, è al centro del dibattito in materia. Viene
dunque eliminata ogni differenziazione fatta in passato tra “fonti attendibili” e
“fonti non attendibili”, affermando che non solo “non esistono fonti
informative privilegiate tali da svincolare il cronista dall’onere di esaminare,
controllare e verificare i fatti oggetto della narrazione” (Cass. 30 giugno
1984)
3
, ma vengono messe al bando anche le “mezze verità”, ovvero quella
situazione in cui, nel narrare un fatto, si omettano volontariamente o non,
aspetti in modo tale da alterare l’intero significato del racconto. Una messa al
bando dovuta al fatto che una verità incompleta “è più pericolosa dell’
esposizione di singoli fatti falsi per la più chiara assunzione di responsabilità.
La verità incompleta deve essere, pertanto, equiparata alla notizia falsa” (Cass.
18 ottobre 1984). Sulla scia di tali disposizioni, e tenendo in considerazione
che tutte le fonti devono essere controllate (sia quelle di altre fonti informative,
sia le voci attinte in ambienti giudiziari, sia le dichiarazioni rese da terzo e sia
le interpellanze e interrogazioni parlamentari), evitando che queste si diano
reciprocamente credito, “salvo quanto diffuso dagli organi ufficiali dello Stato”
(Rizzo, 2002, 109), al giornalista rimane l’esercizio putativo del diritto di
cronaca. Il principio sancito dalla Cassazione secondo cui “la cronaca
null’altro è che l’esposizione dei fatti contraddistinta dalla correlazione tra
l’oggettivamente narrato e il realmente accaduto” (Cass. 18 ottobre 1984), ha
trovato spesso l’impossibilità della sua attuazione, in vista del fatto che, nella
3
V. Zeno-Zencovich, op. cit., 1995, 178
7
fase di raccolta e controllo delle fonti, possono sussistere circostanze che
inducono il cronista in errore. Nel trattare in tali casi l’assunzione di
responsabilità del giornalista, il giudice di legittimità e la giurisprudenza in
generale (dagli anni ’60, prima, e più specificatamente negli anni ’80, dopo), si
è trovata sostanzialmente unanime nello stabilire che “non risponde al reato di
diffamazione il giornalista che dia la prova dei fatti e delle circostanze che
rendano attendibile e giustifichino il proprio errore e che riscontrano la cura da
lui posta nella verifica della verità dei fatti narrati” (Zeno-Zencovich, 1995,
176). Dunque, il tutto si riconduce al rispetto della verità sostanziale delle fonti
(si veda in merito Cass. 18 ottobre 1984 e art. 2 della l. n.69/63). Sono
condizioni queste che, anche se stabiliscono la rilevanza della buona fede o
dell’errore incolpevole, non esimono il cronista dal rispettare i principi
d’interesse pubblico e continenza. “Evidente è la ratio che anima i giudici di
legittimità, i quali hanno da sempre ammonito che ragioni di speditezza e
celerità dell’informazione, non possono prevalere sulla tutela della dignità
della persona. Non va, infatti, dimenticato che la libertà di pensiero è
riconosciuta e garantita a tutela della democrazia e della persona. Essa,
pertanto, non può essere utilizzata per scalfire proprio quei beni che la
impongono e la giustificano” (Rizzo, 2002, 110).
La necessità, dunque, di pubblicare una notizia vera, si riconduce al secondo
limite a cui è sottoposto il diritto di cronaca, ovvero l’interesse pubblico,
essendo stato stabilito più volte dalla giurisprudenza che una notizia falsa non
ha nessuna rilevanza sociale, in quanto non contribuisce alla corretta
formazione dell’opinione pubblica (si veda Cass. 10 febbraio 1989; Cass. 14
giugno 1988). È proprio la funzione educatrice della cronaca che le permette di
soddisfare il limite-requisito di interesse pubblico (si veda anche art. 41 Cost.),
in quanto è tramite l’informazione ricevuta che le persone acquisiscono gli
strumenti necessari al fine di effettuare una corretta valutazione degli
avvenimenti narrati e dei soggetti coinvolti (tale è il cosiddetto “limite
funzionale”). Il concetto di interesse pubblico, inoltre, è stato più volte
8
ricollegato anche a quello di “attualità della notizia” (Trib. Roma, 21 giugno
1967)
4
, in quanto la rilevanza sociale è riscontrabile anche dal fatto che un
avvenimento, sia del passato che del presente, abbia comunque una forte
attinenza con la vita corrente. È qui che si va a collegare il cosiddetto “diritto
all’oblio” (si veda il combinato disposto dell’art. 9, co. I, lett. e) e l’art. 13, co.
I, lett. c) entrambi della L. 675/96). Infatti, “non si può, a distanza di anni,
riportare all’attenzione della cronaca situazioni ormai dimenticate, dicendo che
il fatto presente è simile a quello che si è verificato in passato. In tal modo si
lede il diritto alla privacy e si opera al di fuori dell’utilità sociale della notizia”
(Biscontini, 2002, 13). Che “la cronaca sia diretta alla moralizzazione della vita
sociale, e quindi abbia la funzione di formazione ed indirizzo della coscienza
sociale” (Zeno-Zencovich, 1995, 3) è un limite definito a partire già dagli anni
’60 e, nel corso degli anni, più che di modifiche al riguardo, si può parlare di
perfezionamenti per la sua attuazione. Premesso che non tutte le notizie sono
degne di essere pubblicate e che il limite primo posto all’interesse pubblico è
quello della “mera curiosità, la quale non legittima le notizie che oltrepassano
la riservatezza e la tutela della personalità” (Rizzo, 2002, 104), un trattamento
particolare è stato riservato all’homo publicus. L’orientamento della
giurisprudenza degli anni ’60 in materia, secondo cui “la libertà di cronaca sia
più ampia, essendo meno impenetrabile la sfera individuale di chi si esponga in
pubblico diventando personaggio, perciò è lecito riportare anche fatti della vita
privata di quello” (Zeno-Zencovich, 1995, 3), è stato successivamente
completato negli anni ’70 e ’80 in sentenze come quella della Cassazione del
27 maggio 1975 n. 2129, in tema di riservatezza, dove si è ritenuto che
“l’esigenza di maggiore conoscenza della persona nota non può identificarsi
nella morbosa curiosità che parte dal pubblico per le vicende piccanti o
scandalose svoltesi nella intimità della casa di una persona assurta a notorietà”
(Zeno-Zencovich, 1995, 367). Dunque, è lecito pubblicare notizie sulla vita
privata di un personaggio noto in proporzione alla sua notorietà e all’incidenza
4
V. Zeno-Zencovich, 1995, 4
9
che il suo comportamento può avere sulla vita della collettività, purché le
notizie diffuse siano “direttamente collegabili alle ragioni della notorietà o
riguardino la sfera intima e privata del singolo” (Peron 1999)
5
.
A limitare il diritto di cronaca, assieme alla verità e all’interesse pubblico,
infine, c’è anche la cosiddetta continenza, intendendo, con questo termine, “la
necessità che la diffusione di notizie e commenti avvenga in forma civile e
corretta e che l’esposizione dei fatti e della loro valutazione si presenti, per
quanto possibile, obiettiva e serena” (Zeno-Zencovich, 1995, 291).
L’evoluzione storica di tale concetto, come per quello di verità, ha visto una
sua progressiva restrizione e definizione.
Infatti, se negli anni ’60, non essendo stata effettuata ancora la distinzione tra
cronaca e critica, era ancora lecito affiancare alla mera esposizione dei fatti
tipica della cronaca, un commento purché in stretta connessione con quanto
narrato, negli anni ’80 si giunge all’individuazione, da parte della Suprema
Corte, di tutte quelle forme d’illecito (i “subdoli espedienti”) attraverso cui la
cronaca scade “nello sleale difetto di chiarezza che è più pericoloso, talvolta, di
una notizia falsa o di un commento triviale e non può rimanere privo di
sanzione” (Cass. 18 ottobre 1984, n. 5259). Si sono introdotte dunque nuovi
concetti quali quelli di “sottinteso sapiente”, di “accostamento suggestionante”,
di “tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato” e infine di
“insinuazione”.
Ogni volta che il significato di una notizia viene presentato in modo tale da far
intendere al lettore qualcosa di molto diverso da quello esposto o comunque in
modo tale da andare “in senso sfavorevole nei confronti della persona che si
vuol mettere in cattiva luce” (Cass. 18 ottobre 1984, n. 5259), ci si trova di
fronte alla prima forma d’illecito, quelle del “sottinteso sapiente”. Una forma
questa che prevede “il più sottile ed insidioso di tali espedienti”, ovvero quello
dell’uso delle virgolette.
5
S. Peron, “Diritto di cronaca prevalente solo quando la notizia è vera”, 1999, in www.odg.mi.it
10
Stesso meccanismo fuorviante per quanto riguarda i significato, vale per l’
“accostamento suggestionante”, con l’unica precisazione che nel mettere in
cattiva luce il soggetto, si decontestualizzano alcuni fatti, accostandoli ad altri
di accezione negativa per la reputazione della persona oggetto della notizia. La
suggestione del lettore, inoltre, è stata ravvisata anche nell’uso del “tono
sproporzionatamente scandalizzato” (tipico in special modo del titolo
dell’articolo), magari enfatizzando aspetti marginali, portando in tal modo
anche alla violazione del limite della verità (Cass. 30 aprile 1980). Si passa,
infine, alle “insinuazioni”, il cui concetto è stato introdotto già negli anni ’70,
quando, con la sentenza della Cassazione dell’11 novembre 1975, si affermava
che “il diritto di cronaca deve riferirsi a fatti veri, e non essere espressione di
opinioni personali che insinuino nel lettore dubbi sul soggetto passivo della
cronaca, venendo a mancare in questo caso anche l’interesse pubblico di fronte
a pure opinioni del giornalista” (Zeno-Zencovich, 1995, 6). Dunque con la
sentenza del “decalogo” l’“insinuazione” è stata più specificatamente descritta
come, “pur senza esporre fatti o esprimere giudizi apertamente, si articola il
discorso in modo tale che il lettore li prenda egualmente in considerazione
denigrando la reputazione di un determinato soggetto”. Insomma, con tali
disposizioni, l’uso di un linguaggio aggressivo, gli attacchi gratuiti alla sfera
morale della persona, gli intenti denigratori che non hanno alcuna rilevanza
sociale e l’offesa in generale, sono state messe al bando, cercando di ottenere
una esposizione dei fatti o un confronto di idee il più possibile moderato,
affinché l’informazione non sia un “pretesto per colpire la sfera individuale del
soggetto, quando la polemica è sorretta per lo più da valutazioni e
considerazioni personali” (Cass. 26 novembre 1983).
11
1.1.2. La cronaca nelle sue varie forme
Nera e giudiziaria, politico-sindacale, di costume, inchieste e interviste. Sono
questi i vari ambiti della cronaca in cui è più importante il rispetto dei tre limiti
fondamentali, quali interesse pubblico, verità e continenza. La cronaca
giudiziaria è forse il campo più delicato entro cui il giornalista si trova a
muovere, questo perché “le notizie sono rappresentate da fatti inerenti lo
svolgimento dell’attività della magistratura e delle autorità investigative”
(Rizzo, 2002,142) e dove il soggetto del fatto di cronaca è inevitabilmente
sottoposto ad indagini, ed eventualmente ad un processo. Avendo tali fattori
una forte rilevanza sociale (rilevanza tipica di ogni sentenza), diventano
conseguentemente esposti all’interesse della stampa, al fine di esercitare il
diritto-dovere di divulgazione dei fatti. Ma l’interesse pubblico, oltre a limitare
la cronaca, è esso stesso limitato, dovendo tenere presente che il soggetto
indagato beneficia della tutela dell’art.2 Cost., per cui non può essere
sottoposto a “offese gratuite e valutazioni infondate”, (Rizzo, 2002, 142), a
meno che non sia implicata la “conoscenza di fatti di grande rilievo sociale,
quali la perpetrazione di reati e l’attività di polizia giudiziaria” (Cass. 22 marzo
1999, n. 2842)
6
. A ciò si aggiunge anche la copertura dell’art.27, comma II,
Cost., dove viene sancito il principio di “non colpevolezza”, primo paletto
posto alla cronaca giudiziaria. Numerose sono, infatti, le sentenze che
avvalorano la tesi secondo cui “il principio di non colpevolezza non può essere
anticipato dall’organo di stampa, perché si tratterebbe, né più né meno, della
pubblicazione di una notizia notoriamente falsa, in quanto la valutazione della
responsabilità degli inquisiti non è ancora stata effettuata dagli organi
competenti (Trib. Genova, 15 aprile 1985). Un pregiudizio che, andando a
ledere il principio costituzionalmente garantito dell’onorabilità della persona,
comporterebbe l’applicazione delle norme previste dall’art.595 c.p..
6
F. Abruzzo, op. cit., 2004
12
Infatti, se da un lato la presunzione di innocenza è prevalsa dall’interesse
pubblico alla conoscenza dei fatti, come stabilito dalla Cass. sez. V, 18
dicembre 1980 (Rizzo, 2002, 143), dall’altro, “come affermato dalla stessa
Corte europea dei diritti dell’uomo, l’esercizio del diritto di cronaca giudiziaria
non può tradursi nella celebrazione di pseudoprocessi, che inducano la
pubblica opinione a «prendere conclusioni» sulla base di quanto viene diffuso
dai mezzi di comunicazione di massa, con il rischio ulteriore di una perdita di
fiducia nell’autorità giudiziaria, in aggiunta alla violazione della presunzione di
non colpevolezza degli accusati” (sent. 26 aprile 1979)
7
. Dunque, al giornalista
non è consentito preannunciare notizie ancora incerte. Un principio che, di
conseguenza, va a caratterizzare e quindi a disciplinare anche i tre criteri
principali della cronaca. “Il limite della verità deve essere restrittivamente
inteso, dovendosi verificare la rigorosa corrispondenza tra quanto narrato e
quanto realmente accaduto, perché il sacrificio della presunzione di innocenza
non può esorbitare da ciò che sia necessario ai fini informativi” (Cass., pen.,
sez. V, 3 giugno 1998)
8
. Infatti, rispettare il limite della verità dei fatti,
comporta l’adeguato e dettagliato controllo delle fonti, che in questo specifico
ambito devono essere necessariamente costituite da “dibattimenti penali,
decisioni pubbliche, organi di polizia giudiziaria o altre fonti certe” (Zeno-
Zencovich, 1995, 16) o da “atti giudiziari, rapporti di polizia e dispacci di
agenzie giornalistiche”, indicate come fonti di particolare autorevolezza dal
Trib. Messina, 13 dicembre 1988. Si tratta però di indirizzi che comunque
vengono surclassati da quello prevalente secondo cui “non esistono fonti
privilegiate, e non possono qualificarsi tali i funzionari di polizia che vengano
meno agli obblighi di riservatezza, o le agenzie stampa o la RAI, o altri
giornali” (vedi Cass. 30 giugno 1984 e Trib. Roma, 6 aprile 1988)
9
, esclusi i
casi previsti dagli artt. 114 e 329 c.p.p., dove, nel disciplinare le fonti coperte
dal segreto, si dispongono le ipotesi di “desegretazione” degli atti processuali o
7
G. Rizzo, 2002, 143
8
F. Abruzzo, op. cit., 2004
9
V. Zeno-Zencovich, 1995, 16 e 19
13
parte di essi. Dagli anni ’80 ad oggi, il campo delle fonti attendibili, in grado di
escludere il giornalista dalla verifica, esimendolo da responsabilità penale, si è
comunque esteso, includendo anche il comunicato stampa, non essendo fonte
qualificata l’informativa della Guardia di Finanza all’autorità (vedi Trib.
Roma, sez. I, civ., n. 501, 13 gennaio 2000), il contenuto di un esposto dei
carabinieri, qualora sia riportato correttamente nell’articolo e si riferisca ad un
caso di forte rilevanza sociale (vedi Cass., pen., sez. V, n. 998 del 26 settembre
2001) e infine il testimone del fatto oggetto della notizia, non essendo questi
tenuto al segreto (vedi Cass., pen., sez. I, 11 luglio 1994). Avere una notizia
vera vuol dire verificare l’“esattezza, o meno, delle informazioni pubblicate in
relazione ai provvedimenti adottati dall’ufficio del Pm” (Cass., 22 marzo 1999,
n.2842)
10
, ricordando inoltre che “per l’applicazione della causa di esclusione
della punibilità di cui l’art. 51 c. p., nei casi in cui si tratta di pubblicazione di
notizia mutuata da un provvedimento giudiziario, è necessario che essa sia
fedele al contenuto del provvedimento stesso, senza alterazioni o
travisamenti”, tanto che ci deve essere una perfetta corrispondenza tra
l’articolo appena pubblicato e il contenuto degli atti utilizzati (Cass., pen., sez.
I, 10 novembre 2000; Cass., pen., sez. V, 3 giugno 1998”)
11
, tenendo presente
anche la pronuncia secondo cui ci debba essere “sostanziale corrispondenza tra
fatti come sono accaduti e fatti come sono narrati”, dove è prevista la stessa
esclusione di punibilità (Cass., pen., sez. V, 7 aprile 1992)
12
. A tal proposito,
viene strettamente collegato alla verità il limite della continenza.
10
F. Abruzzo, op. cit., 2004
11
Rizzo, 2001, 145
12
F. Abruzzo, op. cit., 2004