Introduzione
Che i media stiano sempre più assumendo una dimensione globale e pervasiva è
tanto evidente da non richiedere alcuna dimostrazione scientifica. Basterà l'esperienza
per notare come la nascita di nuovi canali televisivi, siti di informazione, blog, web-tv
stia trasformando quello che siamo soliti chiamare “mondo dell'informazione” non solo
in senso quantitativo ma anche qualitativo. Chiedersi, di fronte a questi fenomeni, se il
pubblico non sia stanco dell'informazione è una domanda retorica ovviamente a risposta
negativa: a cambiare, rispetto un tempo, sono semmai i mezzi di comunicazione e le
forme comunicative, ma si può dire con certezza che la “fame” di informazione e le
professioni ad essa collegate sono in continuo aumento. Da quelli più strettamente
giornalistici, dove la crisi della carta stampata spinge verso nuove vie di comunicazione
(pensiamo al fenomeno delle tavolette digitali che in un futuro neanche troppo lontano
soppianteranno il cartaceo), a quelli che coinvolgono le aziende private, gli enti
amministrativi e governativi per arrivare alla comunicazione politica tout court.
Questa, come vedremo, ha seguito passo passo le trasformazioni che, negli ultimi
cinquant'anni, si sono susseguite nel mondo della comunicazione a livello mediatico e
linguistico. Alla base di tutto - ovviamente - ci sono sempre avvenimenti di carattere
storico-politico e cambiamenti di mentalità che, nel loro susseguirsi, hanno influenzato i
temi più adatti a smuovere l'elettorato e le modalità con cui trasmetterli. È questa l'idea
di fondo attorno cui si sviluppa l'analisi della situazione italiana dal Dopoguerra ad
oggi. Molto più difficile capire, nella dialettica fra sistema mediale e politico, quale dei
due occupi una posizione preminente rispetto all'altro. È l'agenda politica ad influenzare
quella mediale o avviene piuttosto l'inverso? La domanda, così formulata, è oziosa:
sarebbe come chiedersi, secondo il famoso detto della tradizione popolare, se sia nato
prima l'uovo o la gallina. Si potrà piuttosto analizzare, caso per caso, diverse situazioni
ipotizzando per ciascuna un possibile ordine di priorità in cui entrano in gioco, ancora
una volta, fattori storici e precise scelte editoriali.
Un'interpretazione - tuttavia - la si può azzardare: col passare degli anni è sempre più
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la logica mediale ad influenzare quella politica. Il medium che più ha contribuito alla
nascita di questa logica è stata la televisione che, con la sua capacità di penetrazione (il
giornale va comprato, la tv basta accenderla) e grazie al potere di seduzione
dell'immagine, ha costituito un mezzo di trasmissione talmente potente da modificare
completamente i tempi e i modi della comunicazione politica. Gli effetti di questo
cambiamento si sono potuti ovviamente apprezzare molti anni dopo lo sbarco della
televisione in Italia, datato 1954: non solo perché, a causa del suo costo elevato in
un'economia ancora segnata dalla crisi del Dopoguerra, il nuovo medium ha impiegato
almeno una ventina d'anni per raggiungere tutte le famiglie, ma anche per il monopolio
statale che incanalava la comunicazione politica su binari ben precisi e poco flessibili.
Di politica, in televisione, si parlava forse più di oggi in rapporto alla programmazione
complessiva ma molto meno in termini assoluti: i dibattiti e i talk show oggi al centro
dell'attenzione erano limitati alla Tribuna politica, programma dalla struttura
rigidissima, e da un telegiornale unico (che restò tale fino al 1976 quando venne creata
una redazione autonoma per il secondo canale) dalla comunicazione blanda e
tendenzialmente filo-governativa. Solo in seguito con la lottizzazione dei canali pubblici
e, in particolar modo, con la nascita della tv commerciale su scala nazionale del 1990 il
medium assumerà una particolare rilevanza: sarà non a caso Silvio Berlusconi, quale
imprenditore televisivo, ad intuire la sua enorme capacità di trasmettere una
comunicazione politica ed elettorale. Per questi motivi mi concentrerò sull'analisi della
televisione nella parte dedicata alla Seconda Repubblica ad eccezione di un piccolo
approfondimento su Tribuna politica utile come termine di paragone per comprendere
analogie e cambiamenti fra i due periodi. Tornando a Berlusconi sua è la prima “discesa
in campo”, un genere che, insieme al talk show, porterà nella politica una nuova
modalità comunicativa basata sull'immagine che il leader riesce a dare di sé da cui
l'importanza degli aspetti soprasegmentali come gestualità, prossemica e tono di voce
curati sempre più maniacalmente.
Un altro elemento che, pur non rientrando direttamente nell'analisi, merita qualche
accenno è la consulenza politica in cui, negli ultimi anni, sono nate nuove
professionalità riassumibili, al di là delle varie sfumature, nella figura dello spin doctor.
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Una locuzione inglese intraducibile in italiano a livello letterale (“colui che fa girare
vorticosamente l'informazione”, ma il verbo to spin allude all'“effetto” che si dà alla
palla in uno sport come il baseball) che corrisponde, pur con vistose differenze, al
concetto di consulente politico: quella dello spin doctor è in definitiva una figura,
ancora poco presente in Italia, che fonde in sé diverse abilità di comunicatore
(generalmente svolge o ha svolto la professione di giornalista). Per il buon esito della
campagna accanto a lui dovrebbe trovarsi un campaign manager (o organiser) con il
compito di organizzare gli eventi comunicativi tenendo sempre ben presente la
risonanza che possono esercitare sui media. A questo fine lo spin doctor dovrà fornire al
candidato per cui lavora suggerimenti circa le migliori modalità comunicative da
intraprendere, l'immagine pubblica e privata: tutti compiti particolarmente delicati che
presuppongono un vincolo di stima e fiducia reciproca. Non a caso delle dieci qualità
del buon consulente politico che gli studiosi Roberto Grandi e Cristian Vaccari
[Elementi di comunicazione politica 2007; pag. 17-18] individuano le più importanti
sono sicuramente lealtà, familiarità e sintonia politica con le idee del candidato
1
. Su
questa terza qualità, in particolare, troviamo qualche differenza fra gli Stati Uniti e
l'Europa: se nei primi la consulenza politica è vista, a tutti gli effetti, come una
professione relativamente autonoma rispetto al partito rappresentato, nei paesi del
Vecchio continente la sovrapposizione e l'identificazione del comunicatore nello
schieramento rappresentato è sensibilmente più marcata [Mancini 1999 in Grandi,
Vaccari p.17]. Studi più recenti [Kolodny 2000; Duilio 2004 in Cacciotto, M Marketing
politico 2011, p.16], in realtà, dimostrano come anche oltreoceano la maggior parte dei
consulenti politici ha generalmente una formazione interna al partito per cui: uno studio
ancor più analitico del 2007 [Bohne, Prevost e Thurber in Cacciotto 2011, p.16] mette
in luce come su un campione di 324 consulenti politici solo due, nella loro carriera,
abbiano lavorato per più di un partito. Fra i consulenti politici sono certamente degni di
menzione gli statunitensi Joe Napolitain, fondatore del moderno spin doctoring, Karl
Rove, che ha seguito l'intera carriera elettoralmente sempre vincente di George W. Bush
(ed è stato anche consulente di Silvio Berlusconi nel 2001) e Dick Morris, la figura di
1 Le altre sono la resistenza alle pressioni, la competenza, l'esperienza, le capacità organizzative e
relazionali, la reputazione e la buona stampa, la gestione della visibilità (prestando attenzione a non
diventare loro i volti della campagna) e la comprensione delle dinamiche e degli stati d'animo
dell'elettorato
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gran lunga più libera all'interno del panorama internazionale: ha lavorato infatti in
campo repubblicano per poi passare a dirigere la campagna elettorale di Bill Clinton,
tornando dai repubblicani per dedicarsi negli ultimi anni a varie campagne
sudamericane ed europee come quella che ha portato Viktor Yushenko alla presidenza
dell'Ucraina. Una figura poliedrica, che si trova a stento in Europa dove, fra i consulenti
più famosi, non se ne trova uno che abbia lavorato per partiti differenti. Si pensi a Peter
Mandelson ed Alastair Campbell che alla metà degli anni '90 promossero la nascita del
New Labour britannico, vincente alle elezioni del 1997 sotto la guida di Tony Blair:
entrambi inseriti nel partito con importanti incarichi governativi. L'Italia, ovviamente,
non fa eccezione dal momento che le due figure che più si avvicinano al concetto di
spin doctoring (sono in realtà entrambi dei comunicatori più che dei veri e propri
consulenti) rispondono ai nomi di Paolo Gentiloni e Paolo Bonaiuti: due soggetti
organici ai due partiti più rilevanti, Partito Democratico e Popolo della Libertà, che
hanno iniziato una carriera giornalistica per poi rivestire importanti incarichi
parlamentari (il primo come ministro delle Comunicazioni dal 2006 al 2008, il secondo
come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all'editoria dal 2008 a
oggi).
In Italia siamo ancora abbastanza lontani da un modello imprenditoriale di
consulenza politica che, al contrario, si sta sempre più radicando in altri Paesi del
mondo, Stati Uniti in primis. Di aziende come l'americana Gcs, che si occupa di
consulenza globale, in Italia non c'è neanche l'ombra: fondata dagli spin doctor
Greenberg e Carville e Shrum (da cui la sigla), l'azienda ha svolto campagne elettorali
in più di 80 nazioni del mondo, offrendo la propria consulenza a leader come Bill
Clinton (nel 1992), Tony Blair (nelle tre vittorie del 1997, 2001 e 2005), Gerarld
Schröder (1998), Nelson Mandela, Ehud Barak nel 1999 e 2001 [Cacciotto 2011, p.29].
Eppure nel campo della consulenza politica ampiamente intesa anche in Italia qualcosa
si sta muovendo. In particolar modo nel mercato dei sondaggi dove il mercato è
abbastanza sviluppato con agenzie come l'Ispo (Istituto per gli Studi sulla Pubblica
opinione) diretto da Renato Mannheimer, docente universitario e analista delle tendenze
elettorali per il programma Porta a Porta e il “Corriere della Sera”; o figure come Luigi
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Crespi, analista e consulente che suggerì a Berlusconi il “contratto con gli italiani” (la
cui agenzia, Holding per la comunicazione, ha subito un devastante crack nel 2005 per
cui Crespi è stato arrestato per bancarotta fraudolenta), e Alessandra Ghisleri, fondatrice
di Euromedia Research, anch'ella molto vicina all'attuale presidente del Consiglio.
Un'altra figura rilevante è quella di Claudio Velardi, fondatore dell'agenzia di
consulenza Running, da sempre inserito in ambienti di sinistra, prima come dirigente
politico del Pci poi come politico nel team di Massimo D'Alema. Di recente formazione
è anche l'Aicoop, Associazione italiana consulenti politici e di public affairs, che stenta
ancora a prendere piede. Una difficoltà legata, in tutta probabilità, ad una visione della
consulenza politica che in Italia non è ancora considerata a pieno una professione.
Da quanto detto sopra, appare chiaro come l'obiettivo primario della consulenza
politica sia quello di sfruttare le potenzialità dei media a vantaggio del proprio
candidato. Ciò non deve però indurci nell'errore di pensare che i mezzi di
comunicazione di massa, specialmente se a grande diffusione come le reti televisive,
fungano da semplice “grancassa” dei politici più abili e non assecondino, piuttosto, i
propri interessi. Al di là della deontologia professionale che impone “lealtà e buona
fede” non dimentichiamo che ogni contenitore che trasmette comunicazione politica ha
esigenze di audience che spingono ad orientare l'informazione nella direzione desiderata
tramite una serie di poteri che la sociologia dei media ha sintetizzato in tre macro-
categorie: l'agenda setting che, tramite la scelta e la gerarchizzazione delle notizie,
attribuisce importanza e priorità; il priming, che permette di attivare nel pubblico
conoscenze connesse a un determinato argomento che ne influenzano la comprensione
e, soprattutto, la valutazione; infine il framing, che funge da cornice cognitiva
permettendo di associare un evento ad altri eventi simili secondo una serie di operazioni
spesso condotte secondo una serie di stereotipi e luoghi comuni. Secondo Entman [in
Mc Quail, D. Sociologia dei media, 2007 p.223] i frame individuano dei problemi, ne
diagnosticano le cause, formulano dei giudizi e suggeriscono i rimedi.
Tramite questi processi l'influenza dei media sulla comunicazione politica risulta
evidente. Riguardo la prima caratteristica – scrive Mc Quail - «è stata spesso rilevata
7
nelle ricerche una corrispondenza tra l'ordine di importanza dato dai media ai problemi
e quello attribuito agli stessi dal pubblico e dai politici». Dearing e Rogers [in Mc Quail,
D. 2007, p. 300] definiscono questo processo come «una competizione fra i protagonisti
di eventi per guadagnare l'attenzione dei giornalisti, del pubblico e delle élites
politiche». Secondo questa teoria, l'ideazione dei programmi politici non si baserebbe
sempre su un'approfondita analisi delle esigenze dei cittadini (raccolte magari tramite
sondaggi e questionari), ma troverebbe spesso la propria origine in una semplice
trasposizione delle priorità stabilite dai mezzi di comunicazione di massa. Per questo -
suggerisce sempre Mc Quail - un'analisi ben fatta dovrà tenere conto dei seguenti
fattori:
1. Il contenuto dei programmi di partito.
2. Le prove di un mutamento di opinione in un dato settore del pubblico.
3. Un'analisi del contenuto che mostri l'attenzione dei media ai diversi problemi nel
periodo in questione.
4. Qualche indicazione del relativo consumo dei media da parte del pubblico
interessato.
Il priming, come elemento più specifico riconducibile all'agenda setting, è invece
quel meccanismo che permette ai politici di essere associati alle problematiche sulle
quali hanno più possibilità di essere convincenti. Per gli studiosi Iyengar e Kinder [in
Mc Quail, D. 2007, p. 301] le tematiche politiche che ricevono maggiore attenzione
(quindi le prime in agenda) hanno anche una maggiore preminenza nei giudizi
sull'attività degli attori politici. Il giudizio su un partito da parte degli elettori
dipenderebbe dunque dalla percezione di come questi agiscono nelle questioni più
salienti. Per fare un esempio concreto si ha priming quando un leader di una nazione
cerca di sviare l'attenzione dai fallimenti interni ricercando una sovraesposizione
mediale dei successi internazionali o - in extremis - intraprendendo una spedizione
militare per coalizzare intorno alla bandiera le diverse idee e forze politiche.
Il framing è senza dubbio l'elemento più complesso dal momento che l'ipotesi per cui
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il pubblico apprenderebbe in funzione degli schemi cognitivi suggeriti dai media si
scontra con gli studi di Cappella e Jamieson [in Mc Quail, D. 2007, p. 298] secondo cui
«il modo in cui le notizie sono incorniciate dai giornalisti e il modo in cui le incornicia
il pubblico possono essere simili o differenti». Questa teoria troverebbe particolare
applicazione alla considerazione che i cittadini hanno della politica. Secondo questa
interpretazione non sarebbe la struttura intrinseca della sfida politica “a somma zero”
(in cui alla vittoria di uno corrisponde la sconfitta dell'altro) quanto il processo di
framing che inquadra le notizie politiche secondo gli schemi della strategia e del
conflitto (quindi secondo il lessico militare) a generare negli attori politici e nel
pubblico mediatico il cosiddetto fixed-pie mindset: una struttura mentale per cui la
competizione politica non sarebbe altro che una guerra in cui ognuna delle parti sarebbe
legittimata a usare contro l'altra ogni arma possibile per interessi propri e non della
collettività. Una visione che contribuirebbe ad incrementare una diffidenza dei cittadini
nei confronti della politica dei partiti e la conseguente nascita di liste civiche o
movimenti.
Secondo Scheufele [Mc Quail, D. 2007, pag 299] non vi sarebbe anche in questo
caso sempre una precisa intenzione persuasiva da parte dei media nell'utilizzo dei
frames. I cosiddetti media frames sarebbero costruiti in gran parte dai professionisti
della comunicazione sotto la pressione di routines lavorative che hanno a che fare con le
fonti (spesso mosse da interessi particolari) e con i “valori notizia” che identificano e
inquadrano le notizie politiche. Solo in un secondo tempo vi sarebbe la trasmissione al
pubblico delle notizie “incorniciate” (vedi la visione cinica dei politici) e, di
conseguenza, l'accettazione o meno di tali frames così come trasmessi dal medium con
conseguenze che possono agire sui loro atteggiamenti mentali come il cinismo o a
livello comportamentale come l'astensionismo.
Da queste considerazioni si può intuire una serie di fattori preliminari che possono
aiutare a comprendere meglio la successiva analisi della storia della comunicazione
politica italiana. In primo luogo pur potendo riassumerla in una serie di macro-periodi
non dobbiamo dimenticare che ogni singolo atto comunicativo è sempre caratterizzato
da una precisa progettualità e un determinato intento che andranno, di volta in volta,
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ritrovati. Secondo: la cura della comunicazione diventa, col passare del tempo, sempre
più importante a causa di un elettorato sempre più mobile. Terzo: quando si prende in
considerazione il rapporto con i mezzi di comunicazione di massa la questione è
destinata a complicarsi. I media commerciali, infatti, perseguono proprie logiche che
sono in gran parte di carattere commerciale cui la politica, volente o nolente, deve
adeguarsi. Il che non toglie ovviamente che in alcuni casi siano gli stessi editori mossi
da interessi politici diretti (Silvio Berlusconi fondatore di Mediaset e Carlo De
Benedetti di Cir) o indiretti (la famiglia Agnelli come proprietaria della “Stampa” o i
diversi gruppi finanziari a capo del “Corriere della Sera”) ad influenzare i propri media
per averne visibilità. Questa considerazione, a dire il vero, interessa solo marginalmente
la mia analisi che si concentrerà sull'utilizzo dei media da parte della politica nel caso
italiano che Grandi e Vaccari [2007, pag 65,66] dividono in tre fasi: premoderna, dalla
fine della guerra agli anni '60, dominata dall'ideologia e dal voto di “appartenenza”;
moderna, dagli anni '60 alla fine degli anni '90, in cui la comunicazione televisiva
assume un ruolo determinante; postmoderna dalla fine degli anni '90 in cui la
televisione generalista, pur rimanendo il principale mezzo di comunicazione politica,
vede intaccare il proprio predominio a favore di nuovi canali e media digitali secondo
una tendenza definita come “balcanizzazione”. Come già accennato nella mia analisi
seguirò la comunicazione visiva dai primi anni del secondo dopoguerra al suo pieno
sviluppo nella campagna elettorale delle elezioni politiche del 1994, data che è
generalmente indicata come inizio ufficiale della Seconda Repubblica.
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Parte Prima
La Prima Repubblica
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Capitolo I
Un'epoca di scontri e riappacificazioni
1. Inquadramento storico
Quando parliamo di Prima Repubblica facciamo riferimento, in realtà, a una
creazione giornalistica. Se infatti prendiamo in considerazione la storia politica della
Repubblica italiana notiamo come, dal 1948 ad oggi, non vi sia stato alcun
cambiamento nell'ordinamento costituzionale tale da far supporre l'esistenza di due
diverse repubbliche sul modello delle cinque francesi caratterizzate da modelli politici
molto differenti fra loro. La cesura fra Prima e Seconda Repubblica, individuabile
grosso modo negli anni '90 e che approfondirò nella seconda parte, non si è infatti svolta
a livello istituzionale bensì prettamente politico e partitico, con la nascita di nuove
formazioni intente a distanziarsi il più possibile da un sistema politico giunto ormai ai
minimi storici del consenso.
La Prima Repubblica vede come protagoniste dell'agone politico le stesse forze che
l'avvento del fascismo aveva relegato ai margini della vita politica e che negli anni
successivi alla Liberazione riescono ad accrescere non poco la propria forza. La
partecipazione politica, in Italia, raggiunge il suo picco proprio in questo periodo
storico: gli iscritti ai partiti principali si misurano ormai in centinaia di migliaia e non
più in poche decine come in epoca prefascista, così come altissimo è il desiderio di
partecipare direttamente all'amministrazione dello Stato dopo vent'anni di dittatura. Una
partecipazione incoraggiata da partiti molto attivi sul territorio che spingono i propri
iscritti a tesserarsi e a candidarsi nelle amministrazioni locali.
Io in realtà mi occuperò quasi esclusivamente delle elezioni politiche che, non
basandosi sulla conoscenza diretta dei candidati da parte degli elettori, fanno
maggiormente emergere l'aspetto ideologico del voto e sulla capacità di rispondere alle
esigenze pratiche di tutti gli strati sociali della popolazione e, in particolare, della
propria base elettorale. Se infatti l'elettorato della Prima Repubblica è probabilmente
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