9
CAPITOLO I
Caratteristiche del volontariato
1. PRECISAZIONI TERMINOLOGICHE
Occuparsi oggi delle associazioni di volontariato vuol dire avventurarsi
in un ambito ancora poco strutturato, sia dal punto di vista legislativo, sia da
quello organizzativo. Solo nell’ultimo decennio si è avvertita l’esigenza di
porre dei fondamenti cardine che diano certezze e sviluppino forme di
sostegno e di coordinamento unitario.
E’ necessario perciò fare un po’ di chiarezza su alcuni termini che
vengono usati in questo campo, per non cadere in equivoci.
Le organizzazioni cui specificatamente ci riferiamo in questa tesi, sono
soggetti associativi di natura privata, a diverso grado di formalizzazione e
istituzionalizzazione, che secondo alcuni sociologi si situano nello spazio fra
lo Stato e il mercato, mentre secondo altri, si situano all’interno di quello
spazio del privato sociale
1
, costituito dalla società civile. Ora questo spazio
viene indifferentemente denominato nell’uso comune come Terzo settore,
terzo sistema, terza dimensione, non profit.
1.1 Il concetto di Terzo settore, terzo sistema, terza dimensione
Condividendo le considerazioni di Carlo Borzaga
2
sulla definizione di
Terzo settore, possiamo affermare che in Italia questo concetto non è ancora
stato del tutto chiarito. Importato letteralmente dall’americano Third Sector,
1
Per privato sociale s’intende << ogni ambito di gestione autonoma di chi vi lavora e di chi vi partecipa,
garantita pubblicamente e controllata nelle sue risorse e nei suoi esiti sociali secondo criteri stabiliti
come bene comune nel momento pubblico universalistico >> P. Donati in Achille Ardigò (a cura di), Per
una rifondazione del welfare state, Franco Angeli, Milano, 1984.
2
C. Borzaga, in Rivista del volontariato, n. 2/99, pagg. 27 – 38.
10
da noi si confonde con la terminologia che ci deriva direttamente dalla nostra
cultura economica e dalla classificazione statistica, per cui quando parliamo
di settori, ci riferiamo ad attività economicamente omogenee (ad esempio
settore tessile, settore bancario ecc...). Secondo la definizione americana, le
attività economiche in senso lato, ma anche le attività sociali, sono divise in
tre settori: il privato (il profitto), il pubblico (emanazione della pubblica
amministrazione) e il Terzo settore (il non profitto). Appartenere ad un
settore, dunque, non significa avere in comune una pluralità di
caratteristiche, ma solo una.
L’interpretazione che ne viene data dalla nostra cultura, ha al contrario
alimentato l’idea che le attività che compongono il Terzo settore dovessero
essere omogenee da molti punti di vista mentre, in realtà, lo sono solo da
uno: il fatto di non essere nè del primo, nè del secondo.
Premesso ciò, passiamo a dire che l’idea del Terzo settore viene
ufficializzata per la prima volta in Europa nel 1977, in un rapporto elaborato
da un gruppo di esperti, cui era stato affidato – dalla Commissione della
Comunità Economica Europea – il compito di riflettere sulle nuove
caratteristiche dello sviluppo socio-economico. In particolare, apparve per la
prima volta il termine terzo sistema.
La definizione più semplice e tradizionale di terzo sistema è di tipo
residuale: esso è composto da tutte quelle attività che non appartengono nè
allo stato nè al mercato, cioè che producono beni e servizi secondo modalità
di produzione e di fruizione diverse da quella tipiche, sia del mercato, sia del
settore pubblico
3
. Il termine sistema genera sicuramente meno equivoci del
termine settore, dato che implica comunque l’idea della presenza di soggetti
diversi all’interno della stessa realtà (ad esempio quando parliamo di sistema
socioculturale ci riferiamo a organizzazioni diverse, istituzioni religiose,
famiglia, mass media, istituzioni scolastiche ecc...). Lo stesso termine terza
dimensione, ancora più generale, indica anch’esso l’appartenenza ad una
3
L. Tavazza, Volontari oggi, Cassa di Risparmio di Roma, SEI, Torino, 1990, pag.171.
11
medesima realtà e presuppone, forse ancor più del termine sistema, la
diversità dei soggetti che ne fanno parte.
1.2 Il concetto di non profit
Oltre alla definizione residuale, è possibile anche definire il Terzo
settore come l’aggregato delle organizzazioni che concorrono, su base non
profit, alla produzione di servizi di rilevanza e interesse sociale, ed entrano in
relazione con le organizzazioni formali dello Stato e del mercato
4
. Con il
termine non profit, ci si riferisce all’insieme delle attività non finalizzate al
lucro. Questa definizione ci riporta al concetto del non profitto americano
vista nel paragrafo precedente. Per una definizione delle organizzazioni non
profit (Onp)
5
, bisogna però riferirsi allo schema classificatorio di tali attività
formulato dall’Sna (System of National Accounts), la carta degli statistici
internazionali. Secondo l’Sna, le istituzioni non profit sono definite come enti
giuridici e sociali creati per lo scopo di produrre beni o servizi il cui status non
permette loro di essere fonte di reddito, profitto o altro guadagno di tipo
finanziario per chi o coloro che le costituiscono, controllano o finanziano
6
.
Questa definizione non esclude che dall’attività delle non profit si generi
il reddito necessario a remunerare il lavoro di chi vi opera, nè che l’attività di
produzione sia accompagnata dalla vendita dei beni e dei servizi prodotti, nè
che da tale attività si generino redditi, profitti o altri guadagni finanziari.
L’unico vincolo riguarda la non distribuzione degli utili.
Un ulteriore criterio di classificazione prende in considerazione la fonte
prevalente di finanziamento, distinguendo le non profit in market e non
market, a seconda che nella loro attività, prevalgano i ricavi delle vendite di
beni e servizi oppure i trasferimenti di fonte pubblica o privata.
4
D. Rei, Servizi sociali e politiche pubbliche, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1997.
5
A volte utilizzeremo questa abbrevazione per indicare appunto le organizzazioni non profit.
6
G. Vittadini (a cura di), Il non profit dimezzato, Etaslibri, Milano, 1997, pag. 20.
12
1.3 Gli approcci sociologici sull’origine del Terzo settore
Prima degli anni ‘80, l’interesse dei sociologi nei confronti del fenomeno
del Terzo settore, o settore non profit, si è espresso solo a livello
microsociologico, cioè si è incentrato su ricerche riguardanti singole
organizzazioni, specialmente quelle operanti in ambito sanitario o artistico.
Solo dopo gli anni ’80, si è guardato anche al livello macrosociologico, sia in
risposta alle teorie degli economisti, sia per la rilevanza numerica, economica
e politica che il settore andava assumendo.
In particolare si cerca di rispondere a due domande:
a) come nasce e perchè si sviluppa il Terzo settore?
b) esiste una specifica differenza che caratterizza il Terzo settore
rispetto agli altri settori della società moderna (Stato, Mercato e Reti
Informali)?
A seconda delle risposte date dai sociologi a queste due domande, si
sono formulate le due diverse definizioni analizzate nei paragrafi precedenti,
che sviluppano in una differente prospettiva l’evoluzione del concetto di
Terzo settore.
Le teorie formulate fino ad oggi sono state molte e diverse, tanto che in
questo campo d’indagine, possiamo affermare che non esista un paradigma
comune. Riferiremo così solo le teorie degli autori più importanti, che
possiamo raggruppare a seconda di tre approcci diversi. Per comodità,
chiameremo rispettivamente questi tre filoni di pensiero approccio
contestuale, residuale e civico-societario
7
.
Il primo filone di pensiero vede esponenti come Di Maggio e Anheier
8
affermare l’importanza dei fattori istituzionali che intervengono a formare le
organizzazioni del Terzo settore. Fra questi vi sono le politiche pubbliche, le
culture nazionali e le scelte iniziali delle organizzazioni che si sono fatte
7
I nomi dei tre approcci sociologici sono solo delle etichette di comodo utilizzate da noi per semplicità
espositiva.
13
carico di rispondere a determinati bisogni sociali. I fattori variano a seconda
dei contesti geo-politici e dei periodi storici. Le organizzazioni possono
rispondere in maniera diversa a queste variabili, adattandosi così in modo
diverso alle condizioni ambientali che di volta in volta si propongono. Si
svilupperebbero perciò forme associative diverse a seconda del contesto
spazio-temporale considerato. Queste forme associative possono essere più
o meno differenziate, come struttura organizzativa, dalle organizzazioni
pubbliche o di mercato. Va comunque ribadito che per questi due sociologi,
non esiste una teoria generale delle organizzazioni non profit. Questo primo
approccio sociologico, viene schematizzato nella figura 1.
Figura 1 Approccio contestuale
Il secondo approccio invece, ricerca l’origine del Terzo settore nella
teoria organizzativa, in particolare nella teoria della nicchia (Hannan e
Freeman)
9
. Questa teoria si collega a livello macro con la teoria della crisi del
8
P. Di Maggio, H. Anheier, The sociology of nonprofit organizations and sector, in Annual Review of
Sociology, n. 16, 1990, pagg. 137-159.
9
M. T. Hannan, J. Freeman, The population ecology of organization, in American Journal of Sociology,
n. 5, 1977, pagg. 929-964.
MERCATO
STATO
TS
MERCATO
A
M
B
I
E
N
T
E
E
S
T
E
R
N
O
14
welfare state (Anheier, Seibel)
10
che confina il Terzo settore a uno spazio
residuale fra lo Stato e il mercato. La teoria della nicchia contesta la teoria
economica neo-classica, la quale nega la sopravvivenza delle imprese mal
gestite e inefficienti e la teoria sociologica dell’isomorfismo organizzativo, che
sostiene la scomparsa delle organizzazioni “devianti” dal normale
comportamento organizzativo. Per Seibel il Terzo settore è appunto un
esempio di nicchia organizzativa, cioè è l’insieme di quelle organizzazioni
che non si sono adattate alle mutate esigenze dell’ambiente ma che
nonostante tutto sopravvivono grazie alla legittimazione dello Stato che affida
loro la fornitura di beni pubblici. Questa legittimazione non si basa
sull’affidabilità delle organizzazioni, considerate strutturalmente inefficienti e
inefficaci, ma sul fatto che lo Stato sia preoccupato di mettere a rischio
l’economia di mercato con l’espansione del suo potere, in seguito
all’accresciuta domanda di beni pubblici. Questo potrebbe portare a una crisi
di governabilità e a una paradossale delegittimazione dello Stato stesso.
Dunque le organizzazioni del Terzo settore servirebbero allo Stato proprio
perchè affrontano i problemi senza risolverli e senza che la loro mancata
soluzione possa venire imputata allo Stato che, invece, se intervenisse
direttamente, produrrebbe le soluzioni ma a rischio di squilibrare l’economia
di mercato (vedi figura 2).
Il terzo ed ultimo approccio si pone in una prospettiva esattamente
opposta a quella precedente. Mentre per Seibel l’intervento dello Stato e/o
del mercato costituiscono il modo normale di risposta ai bisogni dei cittadini,
e il ricorso al Terzo settore un modo per ovviare a possibili o reali fallimenti
dell’uno o dell’altro, Salomon sostiene che il libero associarsi dei cittadini è il
meccanismo preferito per produrre beni collettivi. Sono i limiti di questo
meccanismo a rendere necessario l’intervento dello Stato. Lo Stato si pone
dunque in una dimensione residuale o sussidiaria. Quanto più ci si allontana
dalla dimensione volontaria di aggregazione, tanto più si perde il senso
10
H. Anheier, W. Seibel, The third sector. Comparative studies of nonprofit organizations, DeGruyter
15
sociale del dovere. L’intervento pubblico è necessario però a correggere
l’insufficienza, il particolarismo, il paternalismo e il dilettantismo del
volontariato. Wagner, Lohmann
11
e Donati
12
hanno sviluppato
successivamente e diversamente fra loro la teoria della nascita del Terzo
settore intesa come maniera spontanea di organizzarsi di una comunità. Tutti
però riconducono il Terzo settore all’emergere di una nuova società civile,
considerata come elemento centrale del sistema democratico. La società
civile si organizza dunque dando vita a specifici soggetti sociali, specifici beni
e specifiche motivazioni che non sono riconducibili né allo Stato, né al
mercato, né a un mix delle caratteristiche dell’uno o dell’altro. Questi processi
producono un cambiamento complessivo dell’ambiente del welfare state, che
è costretto a costruire una politica sociale che tenga conto di queste realtà
come attori delle politiche stesse (vedi figura 3).
Figura 2 Approccio residuale
Publ., Berlin-New York, 1990.
11
R. A. Lohmann, The commons. New perspectives on nonprofit organizations and voluntary action,
Jossey-Bass Publishers, San Francisco, 1992.
S
T
A
T
O
M
E
R
C
A
T
O
TS
16
Figura 3 Approccio civico-societario
Le precedenti teorie ripercorrono in qualche modo l’evoluzione che il
concetto di Terzo settore ha assunto nel tempo. A seconda
dell’atteggiamento della cultura politica dominante, dei rapporti con lo Stato e
con il mercato, delle finalità, della strategia organizzativa esterna e dei criteri
di gestione interna del Terzo settore, si possono quindi avere tre tipi seguenti
di configurazioni societarie del Terzo settore. Leggendo la tabella 1 per righe,
emerge l’evoluzione che ha assunto il ruolo del Terzo settore negli anni
13
.
1.4 Terzo settore e crisi del Welfare State
Se si vuol comprendere la natura e il ruolo del Terzo settore nella
società odierna, bisogna però rifarsi inevitabilmente a una prospettiva
diacronica che parte dall’attuale crisi dello stato del benessere, più
comunemente denominata crisi del welfare state.
12
P. Donati, La cittadinanza societaria, Laterza, Bari, 1993.
13
P. Donati (a cura di), Sociologia del terzo settore, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1996.
SOCIETA’ CIVILE
STATO
TERZO SETTORE MERCATO
17
Nell’accezione odierna il welfare state è quella forma di stato che
garantisce, in linea di principio a tutti i cittadini in quanto tali, il godimento di
una serie di diritti, non solo civili e politici ma anche sociali, questi ultimi
consistenti in un <<pacchetto>> di risorse necessarie per far fronte ai bisogni
vitali, a prescindere dal contributo produttivo del singolo individuo alla
collettività
14
.
Tabella 1 Configurazioni societarie del ruolo del Terzo settore
CONFIGURAZIONE
DI RESIDUALITÀ
(STATO NAZIONALE
EUROPEO)
CONFIGURAZIONE
DI TUTELA
(SOCIETÀ CIVILE
ANGLOSASSONE)
CONFIGURAZIONE
DI PROMOZIONE
(CITTADINANZA
SOCIETARIA)
1. ATTEGGIAMENTO
DELLA CULTURA POLITICA
DOMINANTE VERSO IL TS
TS tollerato come attività
marginale di beneficenza
privata
TS come diritto civile (a
sfondo caritativo)
TS come diritto pieno di
cittadinanza civile e
politica
2. RAPPORTI DEL TS CON
LO STATO
Incluso a latere
nell’ordinamento statuale
(come sostegno integrativo
per i marginali)
TS e Stato sono sfere di
solidarietà separate
TS e stato sono sfere di
solidarietà sociale
interdipendenti
3. RAPPORTI DEL TS CON
IL MERCATO
Nessuno (esclusione per
principio dal mercato)
Separazione funzionale
(come non profit)
Interdipendenza (divisione
del lavoro)
4. FINALITÀ DEL TS
Beneficenza privata e
pubblica
Beneficenza privata e
servizi
Produzione di beni
relazionali
5. STRATEGIA
ORGANIZZATIVA ESTERNA
DEL TS
Testimonianza umana
nella marginalità sociale
Auto-organizzazione della
società civile
Competizione solidaristica
6. CRITERI DI GESTIONE
INTERNA DEL TS
Criteri di buona
utilizzazione di un
patrimonio destinato a
scopi umanitari
Criteri di iniziativa e
responsabilità associativa
Criteri di imprenditorialità
sociale (associata)
L’esperienza dell’Italia è stata caratterizzata dall’aver interpretato il
Welfare State come Stato assistenzialistico, espressione con la quale si
intende una elargizione di aiuti in larga misura discrezionali e dati senza
rapporto con i contributi assicurativi, a prevalenti fini di consenso sociale e
politico.
14
P. Donati in A. Ardigò (a cura di), Per una rifondazione del welfare state, Franco Angeli, Milano,
1984, pag. 156.
18
Inoltre l’equazione di pubblico uguale a statuale, ha condotto, alla
lunga, a esiti contraddittori rispetto all’esigenza cui lo Stato intendeva
rispondere assumendosi la responsabilità diretta nella erogazione di beni e
servizi sociali: creare sfera pubblica, corresponsabilità sociale su quei beni e
servizi e sui processi della loro produzione e fruizione
15
.
Vi è un ampio accordo sui principali fattori che caratterizzano la
problematicità dell’esperienza italiana
16
:
a) A una maggiore pressione contributiva del sistema fiscale, non ha
corrisposto una modernizzazione e un miglioramento della qualità
delle prestazioni di sicurezza sociale; la stessa sicurezza sociale,
costruita nel trentennio che va dagli anni ’50 agli anni ’80, è stata
intesa solo in parte come risposta ai contributi, e in gran parte
invece, come assistenza pura;
b) L’apparato della pubblica amministrazione è rimasto privo di
controlli, di efficacia, efficienza ed equità circa gli accessi alle
prestazioni, la qualità e i risultati delle prestazioni di sicurezza
sociale, nonostante sia stato regolato da leggi apposite; in questo
senso l’Italia dei consumi e dei grossi investimenti ha dovuto fare i
conti con una classe politica mossa da interessi particolaristici che,
nel tempo, ha condizionato quasi tutti gli interventi di politica sociale
ed in generale di politica economica;
c) Le grandi opere, che avrebbero dovuto creare al sud la moderna
industria italiana, non hanno risollevato le sorti del Mezzogiorno e
sono divenute delle “cattedrali nel deserto”, a dimostrazione di
quanto poco possano fare le politiche sociali statali se non vengano
15
Il termine pubblico non è sinonimo di Stato. Lo Stato è divenuto però nel tempo ad identificarsi con il
termine pubblico perchè si è assunto tutta la responsabilità dell’erogazione dei beni non privati, cioè
pubblici, sociali, attinenti alla qualità sociale della vita. E’ nel processo di costruzione delle istituzioni
che i beni trattati hanno acquisito un significato pubblico. O. De Leonardis, In un diverso welfare,
Feltrinelli, Milano, 1998.
19
sviluppate sulla base delle caratteristiche delle realtà territoriali
locali. Inoltre il sistema tangentizio, portato alla luce dal pool “Mani
pulite”, rappresentò l’anello di raccordo tra gli amministratori pubblici
e le lobby industriali che ne erano alle spalle, dando a tutto il
sistema politico amministrativo dei vincoli che, di fatto, non
permettevano di sviluppare ed attuare in Italia una politica seria e
costruttiva;
d) La speculazione edilizia, molto forte tra gli anni ‘60 e ’70, non ha
creato delle strutture metropolitane funzionali e vivibili, ma ha
rappresentato, sempre nell’ottica del clientelismo e della
partitocrazia, un momento per arricchire i poteri occulti dell’Italia.
Più in generale, cioè non solo in Italia, i sistemi istituzionali d’intervento
sociale che si sono sviluppati nel welfare state come dispositivi di base della
cittadinanza – l’assistenza, la sanità, l’educazione, le garanzie del lavoro e in
genere la sicurezza sociale – sono tuttora oggetto di misure restrittive e di
tagli di spesa e vengono considerati uno spreco, un costo non più
sostenibile. Inoltre appaiono inadeguati ai problemi sociali cui dovrebbero
rispondere.
Ma la crisi del welfare state non è soltanto legata all’emergere di una
situazione economica e politica differente e sempre più precaria, essa è
principalmente una crisi di solidarietà e di integrazione sociale che sviluppa
particolarismi ed egoismi fra differenti categorie sociali, aree regionali e
generazioni. Il trend demografico d’invecchiamento della popolazione e
l’indebolimento della situazione occupazionale ha creato profondi squilibri fra
le generazioni e tra i lavoratori (e tra occupati e disoccupati). Ciò ha
indebolito non solo la base fiscale del welfare state ma soprattutto le sue
promesse universalistiche, rivelando risvolti selettivi che penalizzano in
16
S. Scatena, Tesi di Diploma dal titolo “Crisi del welfare state ed espansione del privato sociale”,
Libera Università Maria SS. Assunta LUMSA, anno accademico 1995/96.
http://www.serviziosociale.com/tesi.htm
20
maniera particolare le donne, i giovani e i disoccupati. Mancando i correttivi e
gli ammortizzatori sociali che il welfare state assicurava, si moltiplicano le
divisioni nelle culture e nei sistemi simbolici e si sviluppano forme di
aggregazione sociale conflittuali. Oltre alle fratture generazionali, ne sono un
esempio le guerre etniche, i nuovi fondamentalismi, il localismo.
L’altra causa importante della crisi del welfare state è data dal
cambiamento valoriale che influisce direttamente sugli stili di vita e che è da
ricercare in quella nuova tendenza culturale che parte dalla seconda metà
degli anni ’60 e si protrae fino alla fine degli anni ’80, connessa a una sempre
maggiore differenziazione funzionale della società.
Il welfare state infatti, entra in crisi non solo perchè non riesce più a
realizzare le mete su cui si legittima (implementare i diritti sociali su basi
universalistiche), perdendo così la fiducia e l’autorevolezza, ma anche
perchè il quadro dei bisogni sociali è radicalmente mutato. Ciò non soltanto
nel senso che i bisogni si siano spostati o trasformati rispetto all’oggetto, ma
soprattutto nel senso che una parte di essi chiede di essere soddisfatta in un
altro modo, più autenticamente umano. Inoltre non si devono confondere i
vecchi bisogni insoddisfatti con i nuovi bisogni: gli uni e gli altri rimandano
infatti a pratiche e risposte sociali diverse, anche se i vecchi bisogni possono
venire ridefiniti da quelli nuovi, dato che è lo stile di vita complessivo che
viene modificato.
In sostanza, pur essendo il Terzo settore un fenomeno strutturale,
assume in questo nuovo contesto uno sviluppo congiunturale, che si traduce
nella nascita di sempre nuove organizzazioni che cercano di soddisfare, sia
vecchie, sia nuove esigenze. L’azione volontaria è cresciuta all’interno di
questo processo: non in alternativa ma dentro lo sviluppo e la crisi del
welfare state.