II
I consumi limitati di prodotti equo solidali dipendono anche dagli altri tre fattori
di debolezza rilevati nel corso dell'analisi: l'inefficienza delle Botteghe del Mondo – dal
punto di vista economico; i problemi di prodotto – dovuti essenzialmente
all'assortimento limitato; i problemi di immagine che spingono il consumatore
all'acquisto più con il desiderio di aiutare i “poveri agricoltori” del Sud del mondo, che
non con l'idea di acquistare un prodotto di qualità.
E così ritorniamo al tema affrontato in questa tesi. Una comunicazione d'impresa
efficace, svolta mediante l'utilizzo degli strumenti più adatti – che tengano cioè conto
delle peculiarità del commercio equo e solidale – permetterebbe, infatti, di porre le basi
per risolvere questo problema di immagine. Naturalmente, questo sarà un lavoro da
svolgere per tentativi, sperimentando i vari strumenti di comunicazione ritenuti più
idonei ed osservando i risultati ottenuti.
La seconda parte della tesi si è rivelata, invece, la parte più interessante e
stimolante di tutto il lavoro. Come già anticipato all'inizio di questa introduzione,
l'obiettivo della seconda parte di questa tesi avrebbe dovuto consistere nell'individuare
gli strumenti più efficaci per la comunicazione in un'impresa del commercio equo e
solidale.
Nel frattempo, si è però presentata l'occasione di avviare una collaborazione,
proprio sul tema delle comunicazione d'impresa, con il consorzio Ctm Altromercato –
una delle maggiori imprese di commercio equo presenti in Europa. La collaborazione si
è dimostrata interessante fin dall'inizio: nessuno studio teorico su come il consorzio
realizza le proprie attività di comunicazione d'impresa, bensì lo sviluppo di un progetto
sulla comunicazione da realizzarsi all'università. L'idea di sviluppare un progetto – che
si è concretizzata in parallelo alla stesura della prima parte della tesi – si è rivelata
stimolante perché mi ha dato l'opportunità di sperimentare “sul campo” le mie
conoscenze, frutto di lunghi anni di studio universitario.
Le idee scaturite all'inizio erano tre, ma si è fin da subito optato per la
progettazione e la realizzazione di un evento, strumento di comunicazione d'impresa tra
i più utilizzati dagli operatori del commercio equo e solidale.
III
Il progetto dell'evento è stato inserito all'interno della campagna promossa
annualmente dal consorzio, che per l'anno in corso – avendo scelto come tema lo
sfruttamento dei lavoratori nel mercato del cotone e suoi derivati – prende il nome
“Tessere il futuro”. Per far sì che il progetto realizzato fosse in linea con gli obiettivi
fissati dal consorzio per la campagna di quest'anno, abbiamo deciso di analizzare il
progetto di comunicazione della campagna – che presentiamo nel corso del terzo
capitolo.
Prima di concludere questa breve introduzione, desideriamo fare un'ultima
considerazione sul ruolo che potrebbe svolgere la comunicazione d'impresa, nel
prossimo futuro, all'interno del commercio equo. Il ricorso agli strumenti di
comunicazione potrebbe rivelarsi utile, non solo per risolvere i problemi di immagine in
precedenza sottolineati, ma anche per rendere familiare il concetto di commercio equo,
raggiungendo così un più ampio numero di consumatori. Non è chiaro, infatti, per quale
motivo gli strumenti della comunicazione d'impresa – pubblicità, organizzazione di
eventi, promozioni e relazioni pubbliche, giusto per citarne alcuni tra quelli più in voga
– debbano essere ad uso prerogativo del commercio tradizionale. Decisione che, ad onor
del vero, qualche impresa del commercio equo ha già maturato, facendo ricorso ad
alcuni degli strumenti poc'anzi indicati.
A questo punto, per concludere la rapida carrellata sui contenuti di questo
lavoro, e con la speranza di aver creato nel lettore il seme della curiosità, non ci resta
che lasciare tra le sue mani il racconto del nostro progetto. Segnaliamo tuttavia che, al
momento della redazione di quest'introduzione, il progetto non ha ancora ottenuto
l'approvazione definitiva da parte dell'ufficio comunicazione. È però previsto, nel mese
di marzo, un incontro tra le parti coinvolte nel progetto: l'ufficio comunicazione
dell'ateneo, l'ufficio comunicazione del consorzio Ctm Altromercato ed il sottoscritto.
All'esito di questo incontro è legato il destino di questo progetto.
1
Capitolo 1
IL COMMERCIO EQUO E SOLIDALE:
PUNTI DI FORZA E DI DEBOLEZZA
1.1. COS’È IL COMMERCIO EQUO E SOLIDALE?
Il fenomeno del commercio equo
1
ha attraversato una fase di grande
effervescenza e sviluppo nel corso degli ultimi cinque anni. Da fenomeno di nicchia –
qual era, appunto, fino al 2000 – ha saputo evolversi e trasformarsi in realtà concreta,
portando le sfide che ha sempre affrontato ad un livello maggiormente elevato e, quindi,
meno idealistico. Le spinte ideologiche continuano a caratterizzarlo, ma accanto a
queste ha iniziato a svilupparsi una concretezza, a livello di mezzi e di risultati che, fino
a pochi anni fa, era impensabile, addirittura da parte degli stessi operatori del fair trade.
I risultati raggiunti dal fair trade in Europa nel 2001
2
sembravano un punto d’arrivo, più
che un punto di partenza; l’opinione diffusa, nel mondo del fair trade, era che ci fossero
“dei limiti fisiologici per il commercio equo, in termini di penetrazione del mercato: il
15% toccato con la banana in Svizzera è percepito come una specie di miracolo”
3
.
Se andiamo a vedere i risultati conseguiti dal commercio equo in Europa nel
2005
4
e a confrontarli con quelli registrati nel 2001, in realtà ci rendiamo conto che
negli ultimi 4 anni si è verificata un’ulteriore crescita, con risultati al di là di ogni più
rosea aspettativa. La Svizzera è il caso simbolo di questo sviluppo ma, a dir la verità,
ancora isolato rispetto al resto dell’Europa. Il tè equo in Svizzera ha raggiunto una quota
di mercato del 5%, il caffè del 6%, lo zucchero del 9%, la banana del 47%. Gli ottimi
1
Il commercio equo viene chiamato in diversi modi a seconda della lingua di riferimento: Fair Trade nei
paesi con lingua anglosassone; Commercio Justo dai paesi con lingua spagnola; Comèrcio Justo in
portoghese; Fairen Handel in tedesco e Commerce Équitable in francese. L’Italia è l’unico paese nel
quale si fa esplicito riferimento al legame tra equità e solidarietà. Questo lo si deve al consorzio Ctm
Altromercato che ha introdotto il Fair Trade in Italia nel 1989.
2
Per un approfondimento si rimanda a Jean-Marie Krier, Fair Trade in Europe 2001. Facts and Figures
on the Fair Trade sector in 18 European countries, EFTA, Bruxelles, 2001.
3
Cfr. Lorenzo Guadagnucci, Fabio Gavelli, La crisi di crescita, Feltrinelli, Milano, 2004, p. 145.
4
Per un approfondimento si rimanda a Jean-Marie Krier, Fair Trade in Europe 2005. Facts and Figures
on Fair Trade in 25 European countries, Fair Trade Advocacy Office, Bruxelles, 2005.
2
risultati realizzati in Svizzera – purtroppo ancora isolati nel panorama europeo – hanno
però il merito di aver tracciato una possibile via da seguire e hanno permesso di capire
le potenzialità e i possibili sviluppi futuri del fenomeno – comprendere quali scelte e
quali fattori hanno inciso e portato a risultati così sorprendenti non potrà che giovare a
tutto il movimento europeo.
In tutti questi anni il ruolo di denuncia del commercio equo e la volontà da parte
dello stesso di creare una coscienza etica/critica non sono però mai venuti a mancare. Il
commercio equo e solidale, da quando è nato, è sempre stato in prima linea nel
denunciare gli sfruttamenti cui sono sottoposti i lavoratori del sud del mondo,
contribuendo a far conoscere le realtà in cui vivono e lavorano queste persone. Ma
questo ruolo di denuncia rischiava di rimanere l’ennesimo sterile tentativo di risolvere i
problemi dei lavoratori del sud del mondo – un po’ come tanti altri movimenti di
denuncia che nel tempo hanno contribuito a far conoscere queste situazioni, senza
peraltro porre soluzioni concrete
5
(dai movimenti per la denuncia dello sfruttamento del
lavoro ai movimenti ambientalisti degli anni ’80 svolto da Greenpeace ed altre Ong
6
sparse in tutto il mondo).
Ma nel 1999 si è verificato un evento che ha contribuito a risvegliare le
coscienze critiche di milioni di persone e a portare alla ribalta gli squilibri causati dal
mercato capitalistico. A Seattle, nei giorni a cavallo fra novembre e dicembre, i temi
riguardanti il commercio internazionale e lo squilibrio tra il nord e il sud del mondo
sono usciti allo scoperto. La riuscita protesta, da parte del cosiddetto “popolo di
Seattle”, contro la riunione del Wto – l’Organizzazione mondiale del commercio – unita
alla resistenza interna da parte dei rappresentanti dei paesi africani e asiatici, hanno
contribuito a portare in primo piano uno dei temi cari al movimento del fair trade, vale a
dire “la natura iniqua del sistema mercantile prevalente, il suo ruolo nella permanenza
della povertà e dell’esclusione nel Sud del mondo”
7
. Uno degli slogan maggiormente
5
È indubbiamente importante il valore della denuncia che caratterizza l’operato di alcune grandi Ong
come Amnesty International, la stessa Greenpeace e tante altre. La peculiarità delle organizzazioni del
commercio equo è di unire alla denuncia la costruzione di una forma di economia alternativa. In pratica di
far seguire alla protesta la proposta. Ma questo impegno è così gravoso da aver sottratto al fair trade
buona parte delle sue capacità di informazione e di sensibilizzazione dei cittadini del Nord.
6
Acronimo di associazioni non governative. A tal proposito Tonino Perna afferma che “è difficile
definirle e classificarle in positivo. Vale a dire che è più semplice dire che cosa non sono: non sono
imprese private, non sono strutture pubbliche o parapubbliche, non sono enti di beneficenza”. Cfr. Tonino
Perna, Fair Trade, la sfida etica al mercato mondiale, Bollati Boringhieri, Torino, 1998, p. 63.
7
Cfr. Lorenzo Guadagnucci, Fabio Gavelli, La crisi di crescita, Feltrinelli, Milano, 2004, p. 36.
3
utilizzati nel corso delle contestazioni fu “They say free trade, we say fair trade”, loro
dicono commercio libero, noi diciamo commercio giusto.
In quei giorni di fine 1999 il commercio equo e solidale – grazie al forte impatto
mediatico derivante dalle contestazioni degli attivisti “no global” – è entrato in una
nuova fase di sviluppo, abbandonando il mercato di nicchia in cui si era insediato, ma
continuando nel ruolo di denuncia al sistema economico “neoliberista”. A sostegno di
questa tesi vi sono i risultati fatti registrare successivamente dal fair trade sia in Europa
che, soprattutto, in Italia
8
. I paesi storici del nord Europa stanno consolidando quando
creato negli anni precedenti, mentre i paesi del sud Europa stanno attraversando una
fase di forte effervescenza, Italia in testa.
L’oggetto della contestazione – da parte del “popolo di Seattle” – non era tanto
la globalizzazione in sé e per sé, bensì la deriva liberista che è stata impressa a questo
fenomeno e gli imputati numero uno sono le 3 maggiori organizzazioni che si occupano
del commercio mondiale: la già menzionata Organizzazione mondiale del commercio, il
Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale. Ciò che il commercio equo
denunciava e criticava fin dagli anni ’70, attraverso un lavoro svolto nella penombra,
veniva finalmente alla luce nelle giornate di Seattle. Ricordiamo – al fine di avvalorare
questa tesi – che le proteste alla riunione del Wto sono giunte a cavallo di un periodo in
cui l’economia globale è stata protagonista di una serie di crisi
9
.
In seguito, la critica mossa a questa deriva si è allargata anche ad esponenti e
studiosi del mondo economico. A partire da Joseph Stiglitz
10
, numero due della Banca
mondiale per quattro anni, successivamente abbandonata dopo aver criticato l’impatto
8
Per un approfondimento sulla situazione del maggior operatore italiano di commercio equo – il
consorzio Ctm Altromercato – si rimanda alla Relazione annuale delle attività 2004-05, Ctm
Altromercato, Verona, 2005. Si può vedere come il fatturato di Altromercato sia triplicato, passando dai
9,5 m. del 2000 ai 34 m. del 2004.
9
Ricordiamo, innanzitutto, la catastrofe economica argentina che ha avuto effetti devastanti sull’intero
paese ma anche ripercussioni negative su tutti quegli stati che avevano rapporti con la stessa – si pensi ai
bond argentini che in Italia hanno causato enormi perdite ai risparmiatori. Il fallimento della Enron, una
delle 10 aziende più importanti degli Usa, che ha quasi trascinato nel baratro anche la Arthur Andersen,
nota società che si occupa di certificazione dei bilanci – anche se poi quest’ultima è stata assolta nel
processo in cui era coinvolta. Altri casi, che hanno avuto differenti risonanze, hanno riguardato altre
aziende sparse in Europa – tra cui Parmalat, Elf Aquitaine e Cirio – e Stati Uniti – WorldCom e Vivendi.
Più in generale una fase di recessione che sta attraversando l’economia globale.
10
Joseph Stiglitz – vincitore del premio nobel per l’economia nel 2001 – ha rivestito ruoli rilevanti nella
politica economica. Ha lavorato nell'amministrazione Clinton come Presidente dei consiglieri economici
(1995 – 1997), alla Banca mondiale è stato Senior Vice President e Chief Economist (1997 – 2000), prima
di essere costretto alle dimissioni dal Segretario del Tesoro Lawrence Summers.
4
devastante della globalizzazione sui paesi poveri
11
. Stiglitz accusa la via tracciata dalle
tre suddette organizzazioni per l’economia e la finanza globale. “Non si tratta
semplicemente di modificare le strutture istituzionali, è proprio il modo di intendere la
globalizzazione che deve cambiare. I ministri delle Finanze e del Commercio la
considerano come un fenomeno principalmente di natura economica, ma per milioni di
persone nei paesi in via di sviluppo la posta in gioco è molto più alta”
12
.
È dello stesso avviso anche Muhammad Yunus, fondatore storico di Grameen
Bank, recentemente insignito del premio Nobel 2006 per la pace, in un’intervista
rilasciata alla rivista Altreconomia
13
. Nel lontano 1977 fondò nel suo paese, il
Bangladesh, la prima banca ad occuparsi di microcredito, grazie alla quale milioni di
persone povere poterono accedere liberamente al credito. Il primo dato positivo è
l’efficienza, dato che la banca vanta un recupero crediti del 98% (contro il 45-50%
medio del sistema creditizio del nostro bel paese). L’altro merito è quello di aver dato
fiducia alle donne che, infatti, rappresentano il 97% della clientela. Alla domanda sulle
teorie economiche egli risponde che “l’economia ama definirsi come una scienza
sociale. Non lo è: l’economia parla di lavoro e di manodopera. Non parla di uomini,
donne e bambini. Una scienza che vorrebbe essere sociale non può ignorare l’ambiente
che pretende di analizzare”. Come a voler dire: o tracciamo una via alternativa a questa
globalizzazione calata dall’alto oppure il divario Nord-Sud sarà destinato a crescere
ancora, con tutte le conseguenze disastrose del caso.
In linea con questo modo di intendere la globalizzazione sono anche i soci
fondatori di Max Havelaar
14
che al riguardo affermano come “la globalizzazione
dell’economia sia un processo auspicabile e irreversibile; ora non si tratta di domandarsi
se siamo a suo favore o meno, ma in quale modo vengono attuati gli accordi
internazionali”
15
. Gli inventori del commercio equo moderno
16
non additano la
11
Per ulteriori approfondimenti si rimanda a Joseph Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori,
Einaudi, Torino, 2002.
12
Cfr. Joseph Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, Torino, 2003, p. 156.
13
L’intervista è stata rilasciata alla rivista Altreconomia nel 2003 ed è pubblicata sul sito
www.altreconomia.it.
14
Max Havelaar è l’organismo di certificazione – nato in Olanda nell’85 dall’incontro tra l’economista
Nico Roozen e il missionario Frans van der Hoff – che ha introdotto, fin da subito, tale pratica.
15
Cfr. Nico Roozen, Frans van der Hoff, Max Havelaar. L’avventura del commercio equo e solidale,
Feltrinelli, Milano, 2003, p. 174.
16
Definiamo moderno il commercio equo inventato dagli olandesi di Max Havelaar in quanto tale forma
di organizzazione rappresenta l’evoluzione del primo modo di fare commercio equo, vale a dire quello
attraverso le Botteghe del Mondo, nato nel lontano ’69 a Breukelen (Olanda).
5
globalizzazione come il male del nuovo secolo appena cominciato. Cosa che invece
avviene nel libro No logo di Naomi Klein, la bibbia del movimento antiglobalizzazione.
L’autrice descrive “il sistema” come un mostro che opprime le nostre libertà e combatte
contro tutto ciò che riteniamo etico ed equo. La cosa più sconfortante è però il fatto che
si limiti alla critica senza proporre alcuna soluzione concreta
17
.
Dicevamo, gli inventori del fair trade moderno non vedono l’avvicinamento dei
mercati mondiali come un male globale; sono invece critici verso l’interpretazione
liberista data al fenomeno. In particolare, sollevano tre questioni legate al fenomeno; o
meglio, al modo in cui vengono presi gli accordi internazionali. Prima di tutto, il
fenomeno riguarda solo una parte della popolazione mondiale. Deve aumentare la
partecipazione della popolazione e degli stati più poveri al mondo per far sì che il
fenomeno sia veramente globale. In secondo luogo, bisogna chiedersi se tale processo è
calato dall’alto o può salire dal basso. Fenomeni come la finanza etica o il commercio
equo ci fanno comprendere come la globalizzazione dal basso sia possibile e come
questa sia pure efficiente. Infine, bisogna capire che il fenomeno non può riguardare
solo la dimensione economica; deve assolutamente essere considerata anche la
dimensione politica, culturale e giuridica del fenomeno. A questo proposito, va rivisto il
ruolo di alcuni organismi presenti a livello internazionale come l’Organizzazione
Mondiale del Commercio, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale.
Vanno riformulati e ampliati i loro compiti per far sì che la globalizzazione diventi un
fenomeno veramente globale, cioè di tutti. Vanno estesi i compiti anche alle sfere
sociali, culturali e giuridiche; un po’ come è avvenuto in Europa nel processo di
passaggio dalla Comunità Economica Europea all’Unione Europea.
A fronte di questi problemi, la protesta non può che seguire altre strade rispetto a
quelle adottate a Seattle. A questo proposito gli autori ritengono che la protesta debba
sostenere 3 principi di base: la disponibilità di informazioni, la creazione di una base
sociale riconoscibile e la protesta non violenta. Avere più informazioni a disposizione
significa avere una base solida su cui costruire le proprie proteste, al fine di essere più
efficienti. Il secondo principio risponde all’obiettivo di generare più consensi possibili
nella popolazione al fine di poter incidere maggiormente sul sistema economico. Il terzo
17
Per ulteriori approfondimenti Naomi Klein, No logo, Economia globale e nuova contestazione, Baldini
Castoldi Dalai, Milano, 2001.
6
principio invece fa riferimento al fatto che solo ad una protesta pacifica ed intelligente
può far seguito una proposta concreta ed incisiva.
Dopo questa rapida introduzione sul contesto storico in cui ci troviamo – utile
però per capire su quali basi si fonda il fenomeno del fair trade e il rapido sviluppo degli
ultimi anni – proviamo a dare una definizione di commercio equo e solidale. Per farlo
partiamo dalle due definizioni esistenti di commercio equo, la prima a livello nazionale
e la seconda a livello europeo. La prima è la definizione che l’Agices
18
dà nella Carta
italiana dei criteri del commercio equo e solidale
19
; la seconda è la definizione stabilita a
livello europeo
20
:
) “Il Commercio Equo e Solidale è un approccio alternativo al commercio
convenzionale; esso promuove giustizia sociale ed economica, sviluppo
sostenibile, rispetto per le persone e per l’ambiente, attraverso il commercio, la
crescita della consapevolezza dei consumatori, l’educazione, l’informazione e
l’azione politica. Il Commercio Equo e Solidale è una relazione paritaria fra tutti
i soggetti coinvolti nella catena di commercializzazione: dai produttori ai
consumatori”;
) “Il Fair Trade è un partenariato commerciale basato sul dialogo, la trasparenza e
il rispetto, che mira ad una maggiore equità nel commercio internazionale.
Contribuisce allo sviluppo sostenibile offrendo migliori condizioni commerciali
a produttori svantaggiati e lavoratori, particolarmente nel Sud, e garantendone i
diritti. Le organizzazioni del Commercio Equo, col sostegno dei consumatori,
sono attivamente impegnate a supporto dei produttori, in azioni di
sensibilizzazione e in campagne per cambiare regole e pratiche del commercio
internazionale convenzionale”.
18
L’Agices è l’associazione Assemblea Generale Italiana del Commercio Equo e Solidale. L’AGICES –
nata nel maggio 2003 - è l'associazione di categoria delle organizzazioni che promuovono i prodotti e la
cultura del commercio equo e solidale in Italia, ed è l’ente depositario della Carta Italiana dei Criteri del
Commercio Equo e Solidale.
19
Questo documento – approvato nel 1999 e successivamente modificato nell’aprile del 2005 – “definisce
i valori e i princìpi condivisi da tutte le organizzazioni di Commercio Equo e Solidale italiane”. Per il
testo integrale della nuova Carta italiana si veda il sito www.agices.org.
20
Definizione stabilita nell’autunno 2001 da FINE: gruppo di lavoro informale creato nel 1998 dalle
quattro reti del Comes operanti a livello mondiale – FLO, IFAT, EFTA, NEWS – al fine di scambiarsi
informazioni e definire un approccio comune al Comes.
7
Queste due definizioni di fair trade – le uniche definizioni ufficiali – sono già un
buon punto di osservazione da cui partire, sia per ciò che affermano, sia per ciò che
lasciano sottinteso. Al momento, ci limitiamo all’analisi e al confronto di queste due
definizioni, cercando di cogliere anche quanto scritto “tra le righe” e lasciando ad un
momento successivo l’esame in dettaglio degli elementi costitutivi del fair trade.
Il punto di partenza è il fatto che il fair trade si propone come soluzione
alternativa al commercio tradizionale; commercio alternativo che si pone come obiettivo
quello di modificare – dall’interno e, quindi, rimanendo sul mercato – le regole che
governano il commercio tradizionale.
Altro punto focale è il rapporto che viene ad instaurarsi con i produttori. Non più
un rapporto fondato sulla disuguaglianza dei poteri e che genera, quindi, iniquità; bensì
una relazione paritaria con i produttori nella quale questi ultimi hanno la possibilità di
avviare un dialogo con gli importatori e, come conseguenza, di far capire le proprie
esigenze.
Un altro punto importante – sottolineato in entrambe le definizioni – è lo
sviluppo sostenibile, sia a livello sociale che ambientale. Lo sviluppo sociale sostenibile
ha come obiettivi quelli di migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei produttori, di
ridurre il ricorso al lavoro minorile e di dare opportunità di sviluppo e dignità alle donne
– la parte della popolazione che maggiormente risente degli effetti negativi di tali
condizioni di sfruttamento. Questo attraverso l’utilizzo di una parte del surplus
derivante dalla vendita del prodotto tramite il canale del commercio equo e solidale. Il
tutto allo scopo di creare e sostenere l’autosviluppo sociale ed economico del Sud del
mondo
21
.
Si ha, invece, sviluppo ambientale sostenibile quando i produttori si
preoccupano della tutela dell’ambiente e delle biodiversità, attraverso l’eliminazione di
pesticidi e di forme di coltura intensive.
L’ultimo aspetto importante su cui vertono le due definizioni lo si può leggere
“tra le righe”. Mentre nella carta italiana si fa riferimento alla crescita dell’informazione
e della consapevolezza dei consumatori, in quella europea è presente l’obiettivo di
21
È questo il fine ultimo per il quale è stato creato il commercio equo e solidale. A tal proposito, Heinrich
Grandi – uno dei soci fondatori del consorzio Ctm Altromercato – afferma: “Il commercio equo e solidale
avrà raggiunto il successo nel momento in cui non avrà più senso di esistere”. Per arrivare a questo non si
può che passare dall’eliminazione delle differenze tra Nord e Sud del mondo e, quindi, dall’autosviluppo
del Sud del mondo.
8
migliorare le condizioni commerciali dei produttori svantaggiati. Questi due importanti
passaggi presenti nelle carte dei criteri fanno riferimento entrambi alle “asimmetrie
informative” che il commercio tradizionale sostiene e su cui può facilmente speculare. È
per questo motivo che la riduzione di tali asimmetrie è stato, fin dall’inizio, uno dei
principali impegni presenti nell’agenda del Fair Trade; obiettivo concretizzabile con
l’avvicinamento del produttore al consumatore, non solo tramite la riduzione della
filiera – e l’eliminazione degli anelli speculativi della stessa – ma, soprattutto, ricreando
quel legame tra produttore e consumatore che il mercato capitalistico – con il passaggio
dall’oggetto/prodotto all’oggetto/merce – ha contribuito ad annullare nel corso
dell’ultimo secolo
22
.
1.2. POTENZIALITÀ DEL COMMERCIO EQUO E SOLIDALE
Il Fair Trade moderno – come già spiegato in una precedente nota – ha preso il
via nel lontano ’88 per opera degli olandesi di Max Havelaar
23
. Da allora, tale forma di
commercio è stata via via introdotta nei vari paesi europei mantenendo pressoché
invariato il significato del termine coniato in lingua anglosassone. A questo indirizzo fa
però eccezione l’Italia che ha deciso di adottare il termine commercio equo e solidale
24
,
al fine di sottolineare il duplice binario – equità e solidarietà – su cui scorre tale forma
di commercio alternativo. È precisamente per questo motivo che – prima di analizzare
pregi e difetti del fair trade italiano – desideriamo soffermarci ad analizzare questi due
concetti.
Il concetto di equità relativo al commercio internazionale fa principalmente
riferimento al prezzo corrisposto ai produttori per l’esportazione. Secondo la teoria
economica il prezzo generato dal libero incontro tra la domanda e l’offerta è un prezzo
giusto, in grado di soddisfare sia le esigenze dei produttori che degli importatori. Se i
22
A questo proposito è interessante il contributo di Tonino Perna, che osserva come “in meno di un
secolo dal suk, dal mercato, dalle botteghe, i luoghi dello scambio sono diventati luoghi anonimi dove è
bandita ogni relazione sociale, dove esiste solo il grigio e mortale «Regno delle Merci». I luoghi dello
scambio hanno perso quella funzione sociale che li aveva sempre contraddistinti, mantenendo la sola
funzione economica e riconducendo l’atto di acquisto ad un semplice rapporto qualità-prezzo. Tonino
Perna, Fair Trade, la sfida etica al mercato mondiale, Bollati Boringhieri, Torino, 1998, p. 88.
23
Per chiarimenti si rimanda alla nota 14.
24
È il consorzio Ctm Altromercato che nel 1989 ha coniato il termine commercio equo e solidale, per
volontà dei tre soci fondatori Heinrich Grandi, Rudi Dalvai – attuale presidente di Ifat – e Antonio
Vaccaro.
9
produttori non sono in grado di sostenere la produzione tramite il prezzo stabilito sul
mercato saranno costretti ad uscirne. Questo meccanismo perfetto dal punto di vista
teorico, nella realtà genera dei limiti – sia da parte della domanda che dell’offerta – che
hanno alimentato una situazione di iniquità a livello mondiale. Dal lato della domanda
si presenta una forte concentrazione che consente a pochi importatori di grandi
dimensioni di alterare i meccanismi di formazione del prezzo. Dal lato dell’offerta vi è
una sostanziale differenza tra le strategie adottate dai piccoli produttori e quelle adottate
dai grandi produttori – in grado di condizionare l’intero mercato e di sviluppare, quindi,
strategie di mercato simili alle aziende in regime di monopolio. Il commercio equo e
solidale – per ovviare a questa disfunzione del libero mercato – ha deciso di stabilire il
prezzo partendo dai costi effettivamente sostenuti per la produzione.
Il concetto di solidarietà – a livello economico – è legato al ripristino delle
condizioni minime di vita e lavorative nei paesi del Sud del mondo. Questo concetto si
concretizza operativamente nella destinazione di una quota del surplus – garantita dagli
importatori – al finanziamento di progetti per lo sviluppo locale
25
(scuole, ospedali,
ecc...). La solidarietà non si fonda, quindi, su una logica assistenziale o caritativa, bensì
su un desiderio di giustizia con il quale si vogliono ridurre le iniquità esistenti tra il
Nord e il Sud del mondo. “L’atto di consumo equosolidale ha un valore e un impatto
maggiore della scelta di comprare un prodotto tradizionale accompagnata da un’azione
di beneficenza”
26
. Questo per almeno due ordini di motivi. Il primo dipende dal fatto
che il commercio equo e solidale – a differenza della beneficenza – è in grado di fornire
un salario minimo, utile per contrastare lo sfruttamento dei lavoratori e garantire
l’autosostenimento dei lavoratori. Il secondo è dovuto al fatto che il meccanismo di
sostegno allo sviluppo dal basso (bottom up) è più efficiente dei sussidi governativi
indirizzati ai poveri
27
.
25
A tal proposito è emblematico il caso della cooperativa di produttori Uciri del Messico, situata nello
stato di Oaxaca. Il reddito medio annuo di un agricoltore Uciri è passato da 210 dollari nel 1982 a 730
dollari nel 2001. Ma i cambiamenti più rilevanti si sono avuti nel campo sanitario, dei trasporti e
dell’istruzione, con la costruzione di un ospedale, di una scuola e la presenza di mezzi pubblici. Nico
Roozen, Frans van der Hoff, Max Havelaar. L’avventura del commercio equo e solidale, Feltrinelli,
Milano, 2003.
26
Cfr. Leonardo Becchetti, Marco Costantino, Il commercio equo e solidale alla prova dei fatti, Bruno
Mondadori, Milano, 2006, p. 24.
27
Sono solo alcune delle motivazioni per le quali gli autori sostengono che la beneficenza oltre a non
essere efficiente, finisce pure con il danneggiare gli stessi popoli che ne usufruiscono, in quanto li rende
dipendenti da questi sostegni. Leonardo Becchetti, Marco Costantino, Il commercio equo e solidale alla
prova dei fatti, Bruno Mondadori, Milano, 2006.