4
Note alla redazione
Il lavoro nasce all’interno di uno scenario non sociologico, bensì
pedagogico, di partecipazione fortuita da “esterno” ad un progetto di cui
sarei poi divenuto collaboratore interno.
Seguendo, in quanto educatore professionale, un minore dimorante
nella zona Mirafiori sud della città di Torino, mi sono ritrovato a cercare,
per attitudini che riguardano il ragazzino in questione, un’attività/laboratorio
di orticoltura ed uno spazio a questa dedicato.
La mia ricerca è, per ovvie ragioni di comodità, partita dal web ed ha
rintracciato presto una risposta calzante: il blog di MiraOrti. Questo canale,
oltre che offrirmi un panorama delle attività pregresse ed in corso nella zona
perifluviale in cui si svolge il progetto, mi ha permesso di instaurare una
buona comunicazione con gli “addetti ai lavori”: la Cooperativa Biloba.
Da qui è partita un’attività, tutt’ora in corso, con il minore, in cui egli
ha potuto, affiancato da Isabella, Stefano e Luca della Cooperativa,
sperimentarsi nella messa a dimora di alcune piantine nell’orto “collettivo”,
l’orto che la Cooperativa mantiene privo di barriere (in una posizione che
favorisce la visibilità, oltre che la partecipazione) e nell’“orto di Elvira”,
orto “privato” che una anziana e brillante vedova ha messo disposizione
della Cooperativa e della “volenterosa gioventù” che può aiutarla nel
ripulirlo sfruttandone la terra e collaudando i primi aneliti di condivisione e
lavoro comune.
In uno dei primi episodi che mi hanno visto all’orto in qualità di
educatore ho appreso che l’orto in cui conducevo e conduco l’educando a
vivere un’esperienza costruttiva, è una realtà non autorizzata, terreno
pubblico abusivamente ritagliato in quanto non destinato ad altri usi.
In merito a tale scelta il mio feedback è stato positivo, in quanto da
sempre questi orti spontanei
1
“strappati” all’abbandono pubblico hanno fatto
parte del mio immaginario, fatto anche di qualche esperienza di ritrovo
sociale all’interno di tali spazi; la risposta del minore è stata più incredula,
quasi affascinato dal carattere proibito di questa sua nuova attività.
Ai miei appuntamenti settimanali come educatore hanno dunque man
mano cominciato ad affiancarsi altri come collaboratore del Progetto
MiraOrti, in veste di aspirante sociologo, inserendomi io in un momento in
cui era alle porte una necessaria indagine sul campo, a seguito di un lungo
periodo di conoscenza di una parte del contesto e di alcuni attori (con tutti i
presupposti di una ricerca-azione) ed in vista della costruzione di alternative
possibili ad una riqualificazione urbana, presumibilmente devastante dal
punto di vista sociale e lontana dalle esigenze del territorio.
I miei “mercoledì con MiraOrti” sono cominciati a fine Novembre
2011 ed hanno visto partecipe un equipe di 4 elementi composta di un
paesaggista, un architetto, un’agronoma (Presidente della Cooperativa) ed
appunto un laureando in Sociologia; i primi incontri sono serviti alla
1
Si è preferito usare il termine “orti spontanei” a “orti abusivi” perché più neutro, senza la
connotazione negativa dell’abuso, anche perché si potrebbe parlare di abuso vero e proprio
in un luogo in cui la legge viene esercitata; in queste aree invece la legalità entra di rado. I
due termini indicano comunque lo stesso concetto: un’appropriazione non organizzata e
non regolamentata di un lotto di terra di non proprietà usato per la produzione di frutta e
verdura destinata principalmente all’autoconsumo.
5
definizione di quello che era un progetto definito negli obiettivi, ma non
nella fase operativa: si è pensato di sfruttare il mio lavoro di tesi per
svolgere la prima parte di questo progetto, quella conoscitiva e d’indagine,
analizzando la propensione degli ortolani ad aderire ad un progetto ancora
passibile di eventuali ridirezionamenti; si è poi immaginato insieme un
proseguimento di questo lavoro in cui, una volta raccolte ed analizzate le
interviste conoscitive, si sarebbero presentati i risultati ottenuti direttamente
agli ortolani in occasione di un “forum primaverile agli orti urbani”; nello
stesso si sarebbero poi presentati loro dei questionari con un funzione
differente dalle prime interviste, ossia quella di “pre-contratti”, costruiti
sulla base dei risultati dell’indagine esplorativa e utili a sottoscrivere la
propria disponibilità nel processo di cambiamento.
Successivamente si è proceduto, di mercoledì in mercoledì,
nell’ideazione dell’intervista e, ai primi di Gennaio, nella somministrazione
di questa ai primi attori in questione, due interviste-pilota che sarebbero
servite a verificare la fattibilità di un approccio diretto con la complessità
del soggetto-tipo. I tempi si sono però dilatati e, fortunatamente per la
ricerca, si è potuto aggiungere una sessione di interviste primaverile, nel
mese di Marzo.
Nel mese seguente poi un nuovo orizzonte si è prospettato per questo
lavoro: la Cooperativa ha rintracciato altri tre sociologi (due laureati ed una
laureanda) per strutturare un equipe che costruisse un questionario da
somministrare all’intera popolazione dell’area in questione.
La funzione della mia indagine esplorativa è divenuta allora quella di
orientare la ricerca quantitativa che sta avvenendo ed avverrà nei mesi di
Giugno e Luglio e fornire ad essa una descrizione della popolazione,
limitata ad alcuni ambiti, per costruire domande appropriate, utilizzare un
linguaggio adeguato e far leva su quelle qualità positive che gli ortisti in
questione si attribuiscono, valorizzando le competenze e le risorse che
mettono in campo.
Il questionario è stato completato nel mese di Maggio e nei mesi a
seguire avverrà la somministrazione, mentre le idee del “pre-contratto” e del
forum sono state accantonate per fare posto ad un’indagine più
professionale ed oggettiva e posticipare i momenti assembleari ai mesi a
venire, quando il questionario e le informazioni veicolate avranno smosso la
situazione attuale ed avranno creato il terreno e l’interesse necessario per
una maggior partecipazione.
Questo secondo lavoro d’equipe si è rivelato piacevole e molto
costruttivo; sono emersi fra l’altro alcuni strumenti utili ed originali per la
ricerca sociologica sul campo: una serie di bacheche in legno nell’area orti
permetteranno di avvisare dell’imminente somministrazione dei questionari
e di anticipare, ai lettori più volenterosi, i tratti essenziali della proposta
MiraOrti; una serie di fotografie/immagini, che ritraggono alcune fra le
possibili rappresentazioni dell’orto urbano, andranno a sostituirsi ad alcune
risposte multiple nell’indagine quantitativa, per agevolare l’intervistato nella
trasmissione dei significati e del proprio immaginario.
Nel complesso posso dire di aver apprezzato fortemente questa
esperienza, che mi ha permesso di crescere da un punto di vista
professionale con una rapidità che non mi sarei atteso e di farlo all’interno
di un contesto gradevole e distensivo come quello agricolo.
6
1. INTRODUZIONE
Da lungo tempo esistono e da altrettanto si cerca di codificarle.
Sono attività del tempo libero open air legate al settore primario, nonché
attività economiche secondarie di tipo agricolo. Sono le attività che
caratterizzano il lavoro trattato in questa tesi, l’orticoltura urbana.
Nelle ricerche sociologiche la figura protagonista di tale fenomeno ha
assunto nel tempo i più disparati appellativi, quali “l’agricoltore part-time”,
“l’operaio contadino”, il “metalmezzadro”
2
.
Oggi il fenomeno ha mantenuto una certa consistenza e la terra subisce
una importante rivalutazione di carattere simbolico
3
: la città sperimenta in
misura sempre maggiore il surrogato di una vita agreste idealizzata, il suo
inverso irraggiungibile. È la conferma di una crisi del sistema? È la ricerca
di un compromesso? Indubbiamente è un mutamento del paesaggio urbano e
forse l’incremento di quella porzione di cittadinanza che nega questa sua
condizione
4
.
Alla luce di questa ripresa dell’idillio rurale
5
, nonché del perdurare nel
tempo di un fenomeno già datato, in questo lavoro si effettuano una serie di
tentativi con un preciso approccio metodologico.
Tale approccio è stato costruito nell’intersezione di due discipline, la
sociologia e la geografia, individuate come quelle maggiormente adatte a
studiare il fenomeno. La geografia perché in grado di offrire una prospettiva
spazializzata del fenomeno e di qualificarne la produzione di territorio; la
sociologia in quanto necessaria ad indagare negli attori le percezioni, le
intenzioni ed il loro confluire in tale produzione. Si spera con questo sistema
di evitare di ripetere ciò che urbanesimo, antiurbanesimo e gli studi sulle
folk society hanno troppo sovente assecondato: modellare gli studi
sociologici soltanto sulla contrapposizione fra società e comunità, senza
interessarsi della reale rappresentabilità delle tendenze umane, con visioni
nostalgiche ed idealizzate del contesto rurale
6
.
Tale metodologia “socio-geografica” si inserisce all’interno di un
progetto più ampio, il Progetto MiraOrti (orti a Mirafiori), il quale a sua
volta individua come approccio vincente per il suo fine (quello di una
riqualificazione attuata “dal basso”) la ricerca-azione.
Gli obiettivi generali della ricerca di tesi sono due: il primo, teorico, è
quello di costruire un quadro interpretativo del fenomeno che possa
dialogare con una moltitudine di contesti caratterizzati dalla presenza di orti
urbani; il secondo, empirico, quello di analizzare, tramite un’indagine
qualitativa di tipo esplorativo, un preciso contesto, quello dell’area degli orti
di strada del Drosso in Mirafiori sud, nella quale appunto è attivo da tempo
il progetto MiraOrti e nella quale si necessita di evidenziare quelle che sono
le risorse ed i vincoli della comunità locale nell’ottica di allargare la
fruizione di questo territorio all’intera cittadinanza.
2
G. Osti, Sociologia del territorio, Il Mulino, Bologna, 2010, p. 210
3
R. Strassoldo, Sociologia dell’agricoltura, Nis, Roma, 1996, p. 6
4
http://giuseppefanizza.info/index.php?/projects/orti-urbani/
5
D. Bell, Variations on the rural idyll, in P. Cloke, T. Marsden e P.H. Mooney, Handbook
of rural studies, Sage, London, 2006, p.149-160
6
F. Demarchi, Società e spazio. Temi di sociologia urbana e rurale, Libera Università degli
Sudi, Trento, 1974, p. 43
7
La dissertazione si suddivide essenzialmente in quattro capitoli.
Il capitolo iniziale cerca di offrire una ricostruzione storica di ciò che
l’orticoltura urbana ha rappresentato nelle vicende umane (a partire dalla
civiltà Babilonese fino ai giorni nostri), un tentativo di definizione del
fenomeno e delle funzioni cui assolve oggigiorno ed una raffigurazione
socio-spaziale del contesto in cui si sviluppa: lo sprawling urbano; si è
ritenuto opportuno ragionare sullo spiazzamento che questo fenomeno
comporta nella percezione del rapporto fra le periferie delle città e le zone
agricole, sia a livello topografico che sociale, in quanto tale ragionamento
permette di palesare una serie di paradossi molto attuali quali: “i cittadini
vogliono essere agricoltori” o “ la periferia vuol ripensarsi rurale”.
Il secondo capitolo ha il compito di realizzare la struttura teorica, per la
quale si è deciso di adottare una prospettiva territoriale, un ottimo
“contenitore” in grado di essere declinato in contenuti provenienti da altre
discipline, come quella sociologica. Il concetto di territorio difatti definisce
un sistema ambientale governato da un soggetto, e presuppone dunque, oltre
un sistema di relazioni fra organismi viventi e fattori abiotici, un centro di
tale sistema, ovvero una funzione di controllo e governo. Nelle scienze
sociali tale concetto non è definito in maniera oggettiva, bensì in quanto
costruzione sociale, quindi come culturalmente contestualizzato. Lo studio
dei problemi territoriali è pertanto anche lo studio di come tali problemi
sono riconosciuti e rappresentati socialmente, necessita quindi chiaramente
di un particolare contributo dalle scienze sociali
7
.
In ultimo nel secondo capitolo ci si avvale dei contenuti di un’altra
disciplina, l’antropologia, per comprendere da una terza prospettiva la
necessità di “territorializzazione”, intesa come appropriazione di un
territorio che possa costituire un riferimento da cui partire alla ricerca di un
senso del luogo.
Il terzo capitolo si addentra all’interno del contesto in cui avviene la
ricerca, quello torinese e, ancor più nello specifico, quello del quartiere
Mirafiori Sud in cui, oltre che esser presente un’ampia porzione di terreno
adibita ad orti urbani “spontanei”, esiste un progetto di riqualificazione
dell’area. Nel capitolo viene presentato il progetto “ufficiale”, ossia quello
della Provincia di Torino, e quello “alternativo”, il progetto MiraOrti,
all’interno del quale questo lavoro di ricerca svolge la funzione di
“salvacondotto”. Un elemento di specificità dell’orticoltura urbana oggi è
infatti proprio il forte coinvolgimento di organismi non profit, delle
cooperative sociali come Biloba (fautrice del progetto MiraOrti), che
nascono con mission che coniugano la salvaguardia dell’ambiente con
quella della persona e della socialità. Il terreno su cui si lavora è scivoloso
per il fatto che si tende ad un uso ideologico della ruralità (da cui si
attendono non meglio dimostrati risultati taumaturgici) e per il fatto che
vivere il territorio non induce automaticamente ad un più intenso
attaccamento ad esso ed ad un maggior zelo nel conservarlo, ma, talvolta, ad
un più cinico sfruttamento
8
.
7
M. Bagliani, E. Dansero, Politiche per l’ambiente. Dalla natura al territorio, De Agostini
Scuola Spa, Novara, 2011, p.5-8
8
G. Osti, Sociologia del territorio, Il Mulino, Bologna, 2010, p. 214
8
Da questi presupposti parte la ricerca empirica vera e propria,
illustrata nel quarto capitolo e condotta con un fine esplorativo, tramite
interviste non strutturate, agli attori che vivono l’area in questione.
Si sono indagati in questa ricerca i vari sedimenti, cognitivi e materiali,
perché questi costituiscono storicamente un accumulo intelligente che
permette di individuare le regole di sviluppo del territorio, e quindi di
un’adeguata riqualificazione, che non vada a cancellare quella complessità
che definisce la specificità del luogo
9
.
In questo capitolo le competenze “conversazionali” degli attori con il
luogo, ed il processo con cui queste si sono sviluppate, diventano una
risorsa per comprendere i caratteri del loro insediamento nell’area studiata:
così come non sono i grammatici o i linguisti a creare le lingue, è nel
processo continuo di “dialogo con i luoghi” che si formano le culture
dell’abitare, “con la parte invisibile delle menti locali condivise e la parte
visibile del costruito”
10
.
9
M. Bagliani, E. Dansero, Politiche per l’ambiente. Dalla natura al territorio, De Agostini
Scuola Spa, Novara, 2011, p. 15
10
La Cecla, Mente locale. Per un antropologia dell’abitare, Eleuthera, Palermo, 1993, p.21
9
2. L’ORTICOLTURA URBANA
2.1 RICOSTRUZIONE STORICA
La coltivazione in città è una realtà che accompagna l’uomo da
quando il suo mondo assume connotazioni urbane, alternando, nel corso
della storia, una vocazione produttiva, quella dell’orto, con una ricreativa,
ossia il giardino, come luogo di riposo e di “tregua” dal resto del mondo
11
.
Fin dall’età Neolitica si possono rilevare tracce di attività agricole,
nei territori della cosiddetta “mezzaluna fertile”, proprio dove, millenni più
tardi, nascerà una delle prime città della storia: Babilonia.
Con la costruzione delle prime città mesopotamiche si affermò la
differenza tra spazio naturale e antropico, la cui linea di demarcazione era
segnata dall’edificazione di mura solide a circondare la città.
Babilonia era circondata da una doppia cinta di mura, interrotte dalla
porta di Ishtar, attraverso la quale passava la strada principale di accesso
alla città; sopra la porta si sono rinvenute le strutture a volta che
costituivano la base di sostegno dei sovrastanti giardini terrazzati.
1 - Giardini pensili in Babilonia
12
Dal momento che allora l'utilizzo del terreno con colture diverse da
quelle agricole non era consueto, la progettazione dei giardini fu
un'iniziativa culturale di largo respiro. Va rilevato come, nella cultura
11
C. M. Greco, Paesaggi commestibili. Prospettive di agricoltura urbana a Milano, Tesi di
Laurea Magistrale in Architettura, relatore A. Lanzani, Politecnico di Milano, 2010, p. 8
12
Fedele riproduzione fotografica di un'opera d'arte bidimensionale originale di pubblico
dominio probabilmente realizzata nel 19° secolo, a seguito dei primi scavi nelle capitali
assire. Si suppone che i giardini nacquero intorno al 600 a.C. per opera di Nabucodonosor
II, con l’obiettivo di rincuorare la moglie che dovette abbandonare l'ambiente naturale
natio. http://it.wikipedia.org/wiki/File:Hanging_Gardens_of_Babylon.jpg
10
tradizionale della Mesopotamia, il significato del termine “giardino” si
accostasse all’immagine del Paradiso
13
.
Gli orti di Babilonia, accortamente irrigati, furono coltivati ad
arance, limoni, pistacchi, albicocche e molti altri frutti che solo secoli più
tardi sarebbero giunti in Occidente. Si diffuse nella città un nuovo paesaggio
“commestibile”, dove, accanto alle piante ornamentali, crescevano specie da
portare in tavola.
Altrove invece, affreschi e modellini rinvenuti nelle tombe
testimoniano i caratteri del giardino egiziano, concepito anch’esso come sito
di svago oltre che di produzione di vino, frutta, verdura.
Il giardino egizio si sviluppò in un’area attorniata da mura, al riparo
dalla sabbia del deserto e dalle piene del Nilo. Intendeva isolarsi da un
ambiente ostile ed assumeva la connotazione di un interno confortante,
sicuro, ordinato, caratterizzato da armonia dei colori e combinazione delle
forme vegetali, nettamente diviso dal deserto, emblema di un esterno
caotico, sterile e irregolare
14
.
Nella civiltà dell’antica Grecia si profilarono invece percorsi diversi
da quelli di Egizi e Babilonesi. Il panteismo greco avvertiva la presenza
divina nell’ambiente naturale, che andava reso inviolabile e mantenuto in un
perfetto stato di armonia. Soltanto in età più avanzata si originarono in
Grecia i primi giardini nei pressi di strutture pubbliche, abitazioni e palestre;
questi continuarono ad appartenere, tuttavia, ad una dimensione onirica e
religiosa, slegata dalla natura in quanto luogo di sfruttamento agricolo.
La coltivazione orticola di piccoli appezzamenti di terreno fu,
nondimeno, una pratica poi diffusa all’interno delle città greche tanto che fu
matrice dello sviluppo della successiva polis, potendone garantire una
completa autosufficienza alimentare.
Fin dal periodo della colonizzazione greca si avviò un processo di
appropriazione privata della terra volta alla coltivazione individuale, che
induceva elementi di casualità e arbitrarietà nel piano stesso di
colonizzazione, specialmente in Sicilia e nella Magna Grecia, nei pressi di
città e terreni declivi
15
.
Così nell’antica Persia, tra i Maya o ancora nelle città medievali
europee, sempre son esistiti spazi interni all’area urbana in cui produrre
cibo, recuperando e conservando l’acqua, riciclando i rifiuti organici e
sfruttando al meglio le condizioni climatiche e contingenti, come
l’approvvigionamento durante i conflitti bellici.
ALTO MEDIOEVO
Nel Medioevo europeo alcune parcelle delle terre comuni erano
recintate e destinate alla coltura intensiva di ortaggi
16
, ma per lo più il
carattere e la funzione propri degli orti furono legati all’ambiente domestico.
Dall’età repubblicana l’hortus rappresentò l’ideale prosecuzione
dell’abitazione verso l’esterno, tant’è che accanto alle divinità del focolare, i
lares familiares, spuntarono presto i lares agrestes, le divinità del giardino.
13
C. M. Greco, Paesaggi commestibili. Prospettive di agricoltura urbana a Milano, Tesi di
Laurea Magistrale in Architettura, relatore A. Lanzani, Politecnico di Milano, 2010, p. 9
14
Ibidem, p. 9
15
Ibidem, p. 10-11
16
Kurz D, HistorischesLexikonderSchweiz,2011;http://www.hls-dhs-dss.ch/textes/i/I16602.php
11
Scriveva Virgilio nella Georgica II: “laudato ingentia rura, exituum
colito”
17
, ovvero “loda i vasti terreni, coltivane uno piccolo”.
L’hortus assumeva quindi un carattere prevalentemente utilitaristico:
la produzione per la sussistenza familiare.
Anche Catone ravvisava nell’agricoltura un’attività più che
apprezzabile, per il valore pedagogico e morale di un attività che permette,
attraverso la fatica, il raggiungimento del benessere economico.
Egli intendeva nobilitare la tradizionale vocazione agraria delle
gentes patrizie contro l'affermazione di una nuova classe, quella
commerciale, in grado di ottenere guadagni maggiori e più rapidi
18
.
Invitava, nel suo trattato “De agricoltura”, i cittadini all’attività agricola,
scrivendo: “Dagli agricoltori invece escono e uomini fortissimi e
valorosissimi soldati e il loro profitto è giusto e sicuro e non ha nulla di
odioso; e non sono tratti a cattivi pensieri coloro che a questo lavoro si
sono dati”
19
.
Nel tempo poi il significato di “hortus” subì una ragguardevole
evoluzione: al carattere utilitaristico ed alle connotazioni simboliche, si
congiunsero, in epoca imperiale, aspetti letterari e filosofici, con una
variazione anche nell’assetto della vegetazione, della quale vennero a far
parte fiori e piante ornamentali
20
.
2 - Madonna e santi nel giardinetto del Paradiso
21
17
Virgilio, Georgiche, lib. II, v. 412-413
18
G. Pontiggia e M. Grandi, Letteratura latina. Storia e testi, Principato,Milano,1996,p.162
19
M. Porcius Cato, De agri cultura, II a.C., praefatio;
http://la.wikisource.org/wiki/De_agri_cultura
20
C. M. Greco, Paesaggi commestibili. Prospettive di agricoltura urbana a Milano, Tesi di
Laurea Magistrale in Architettura, relatore A. Lanzani, Politecnico di Milano, 2010, p. 11
21
Artista: Meister des Frankfurter Paradiesgärtleins, Das Paradiesgärtlein, Szene: Maria
im beschlossenen Garten mit Heiligen, ubicazione: Städelsches Kunstinstitut, 1410 circa;
12
Proprio dalle istituzioni imperiali del tempo si evince tale nuova
concezione, riportata nella lettura del testamento di Gaio Giulio Cesare (15
marzo 44 a.C.), celebre orazione funebre narrata da Shakespeare, che recita:
“e vi ha lasciato eredi di tutti i suoi parchi, di tutti i suoi giardini, dei suoi
orti di novella piantagione che si trovano su questo lato del Tevere. Li ha
lasciati a voi e ai vostri eredi, per sempre: luoghi pubblici, di piacere dove
possiate passeggiare e ricrearvi”
22
.
Anche le immagini conservate nei codici miniati rappresentano
quello che divenne luogo fantastico senza tempo, circondato da alte mura a
proteggere questo universo insieme reale e simbolico. Era ispirato ad
un’ideale “eterna primavera”, concetto già presente nell’Odissea di
Omero
23
.
Il “giardino di Alcinoo” era un luogo ideale, ispirato probabilmente
ai giardini pensili di Babilonia o a quelli situati ai margini del Nilo, dove la
natura benevola per l’uomo rappresentava la perfetta antitesi di quelle
località desolate e deserte del vicino Oriente: i fiori e i frutti dovevano
essere eternamente a disposizione del fruitore. Questa immagine si riscontra
anche nelle “Etymologiae” di Isidoro di Siviglia dei primi anni del VII
secolo, dove si affida all’hortus una funzione propagatrice di perenne
produzione, di nuovo l’eterna primavera
24
.
BASSO MEDIOEVO
A seguito della caduta dell’Impero Romano d’Occidente si trasformò
il rapporto dell’uomo con l’ambiente naturale. Tuttavia l’eredità dell’arte
dei giardini e della coltivazione venne custodita all'interno di castelli, corti,
proprietà monacali o nelle loro immediate vicinanze. La grande insicurezza
che si propagava nei territori, costantemente colpiti da incursioni barbariche,
condusse a un periodo di forte degrado urbano, ed al progressivo
decadimento del paesaggio agrario organizzato: necessariamente furono
sempre più i terreni coltivati rinchiusi all’interno delle mura cittadine
25
.
Oltretutto l’alimentazione prettamente proteica dei popoli invasori e la
conseguente necessità di pascoli e spazi liberi per l’allevamento relegò
l’agricoltura a un ruolo marginale. Il controllo della natura, la sua
interazione con elementi culturali insiti nella tradizione classica, nell’alto
medioevo venne meno e si ritornò in parte ad un paesaggio silvo-pastorale
26
.
Justus Liebig, pioniere della moderna chimica, mostrò poi nel XIX secolo,
come le prime tendenze a delocalizzare gli approvvigionamenti al di fuori
http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/5/57/Meister_des_Frankfurter_Paradiesg
%C3%A4rtleins_001.jpg
22
M. Acconciamessa, Quanto «tira» l’orto in città, L’unità, Agricoltura e società, 30
Gennaio 1983; http://archiviostorico.unita.it/cgi-
bin/highlightPdf.cgi?t=ebook&file=/archivio/uni_1983_01/19830130_0013.pdf&query=ort
i%20urbani%20torino
23
N. Fontana, Il giardino medievale;
http://www.arteantiquaria.it/RESTAURO%20&%20DINTORNI/giardino_medievale.htm
24
N. Fontana, Il giardino medievale;
http://www.arteantiquaria.it/RESTAURO%20&%20DINTORNI/giardino_medievale.htm
25
C. M. Greco, Paesaggi commestibili. Prospettive di agricoltura urbana a Milano, Tesi di
Laurea Magistrale in Architettura, relatore A. Lanzani, Politecnico di Milano, 2010, p. 12
26
Ibidem
13
delle città e separare il sistema produttivo agricolo da quello del consumo
giungessero appunto dagli antichi Romani, che per molto tempo si
rifornirono di grano addirittura dal Nord Africa, scaricando poi nel
Mediterraneo i minerali (contenuti nel cereale e assorbiti con
l’alimentazione), attraverso la Cloaca Maxima, con un impatto drammatico
sulla fertilità dei suoli africani
27
. Nonostante ciò, le moderne città hanno
ripetuto tale schema, favorendo l’avvento dell’agricoltura chimica (per
compensare la perdita di elementi nutritivi) e dimostrando quanto un
sistema lineare del genere sia insostenibile, contrariamente a quello dei cicli
naturali, dove ogni output proveniente da un organismo è anche input per un
altro
28
.
Nel periodo carolingio gli orti/giardini riacquisirono centralità
all’interno dei monasteri medievali: la regola di San Benedetto prescriveva
la necessità di un hortus all’interno dell’insediamento monastico.
Lo spazio risultava diviso geometricamente da aiuole separate e da
vialetti coperti da pergole ed era suddiviso in varie parti, ognuna con una
sua propria destinazione ben definita, in una perfetta sincronia tra la
raffigurazione di una Gerusalemme celeste e una rassicurante
organizzazione razionale dello spazio interno
29
.
Con la riedificazione del monastero-abbazia di San Gallo in Svizzera
si distinsero le zone destinate alla raccolta delle verdure per l’alimentazione
dalle aree adibite alla coltura di erbe medicinali (dette semplici)
30
.
L’immaginario collettivo del mondo cristiano, dai Benedettini ai
Certosini, fino ai Circestensi era permeato dalla simbologia del giardino e di
processi naturali che insegnavano più ancora che gli stessi libri di studio.
Solo nel XII secolo la scuola di Chartres divulgò poi un approccio nuovo
nei confronti della natura, concepita come un insieme di cause dotate di un
ordine preciso, di origine divina, ma priva delle espressioni simboliche
proprie dell’alto medioevo. Il giardino allora era un frammento di natura
modellato dall’uomo, rifugio ben delimitato e distinto dal mondo esterno,
ma che, nonostante la sua tendenza intrinseca verso l’eterna primavera,
doveva comunicare la sua essenza artificiale e transitoria. Permaneva
comunque costante questo senso di intimità e isolamento a connotare il
giardino
31
.
Nei secoli centrali del medioevo si osservarono poi miglioramenti
sostanziali per l’habitat di orti e giardini dovuti, oltre che alle mutate
condizioni climatiche, agli scambi culturali con la civiltà araba.
Nella convergenza di tutte le conoscenze che gli Arabi ereditarono
dalle civiltà con le quali vennero a contatto, in specifico dalle culture egizia,
persiana e romana, l’arte islamica considerò il giardino come fondamentale
complemento di ogni architettura.
27
S. Campbell, A Hstory of Kitchen Gardening, Frances Lincoln, Londra , 2005, p. 146
28
Questo almeno fino all’avvento dell’agroindustria che, insieme allo sviluppo dei mercati
internazionali e dei trasporti, ha modificato profondamente l’assetto urbano, rendendo la
prossimità di agricoltori e consumatori sempre meno necessaria.
29
N. Fontana, Il giardino medievale;
http://www.arteantiquaria.it/RESTAURO%20&%20DINTORNI/giardino_medievale.htm
30
http://www.abbaziasanpaolo.net/farmacia.html
31
Ibidem